Le bombe su Gaza nel silenzio del mondo

Negli ultimi quattro giorni Gaza è stata bombardata pesantemente.

25 paestinesi sono stati uccisi.

Una volta di più rimpiango, e non solo umanamente, la mancanza di Vittorio Arrigoni, sempre capace di mostrare, a chi voleva vedere, la realtà della Striscia. Ma Vittorio è stato ucciso quasi un anno fa.

Il silenzio del mondo su Gaza è assordante.

Quando si verificano i “fatti” più gravi, come il «Piombo fuso» (1400 morti tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009) o gli ultimi 4 giorni di bombardamenti (marzo 2012), per un po’ i media si ricordano di Gaza e del suo milione e mezzo di abitanti, e finalmente ne parlano – spesso trasformando le vittime in carnefici e viceversa, sia detto per inciso – per poi tornare a occuparsi d’altro, ignorando completamente la “normalità” di Gaza, vale a dire lo stillicidio quotidiano determinato dall’embargo illegale voluto da Isaele e dagli innumerevoli raid.

Le poche notizie che filtrano attraverso la cortina dell’omertà mediatica sono sistematicamente distorte (non è vero, ad esempio, che nella Striscia c’è una guerra tra due eserciti, perché, semplicemente, è presente un esercito solo, quello di Israele) e sono taciuti gli atti più o meno quotidiani di terrorismo (israeliano), i famosi e persino celebrati «omicidi mirati», pratiche spregevoli di per sé, che in più si portano dietro un triste corollario di vittime «collaterali».

Allo stesso modo si tace degli atti di arbitrio condotti dalla marina militare e dall’esercito di terra israeliani contro pescatori e contadini, o del blocco illegale di merci, aiuti umanitari e persone che ancora colpisce la popolazione civile della Striscia.

Informarsi e diffondere l’informazione è, insieme al boicottaggio dei prodotti israeliani, la maniera più semplice ed efficace per agire concretamente e cercare di fermare l’Apartheid del popolo palestinese e le pratiche di pulizia etnica da esso subite.

L’informazione, dunque.

A Gaza, tra gli internazionali, è oggi presente la fotografa napoletana Rosa Schiano, al cui blog rimando (ma è più aggiornata la pagina Facebook). Rosa è stata intervistata oggi, 13 marzo, su Radio Blackout.

QUI è possibile ascoltare l’intervista.

Il video qui sotto è suo; mostra l’arrivo di un’ambulanza all’ospedale Kamal Odwan. «Ho girato questo video quando è arrivato uno dei corpi, successivamente portato in obitorio», spiega Rosa su Facebook. «Mohammed Mostafa El-Hsoomi aveva 65 anni anni, e sua figlia, Fayza Mohammed El-Hsoomi aveva 30 anni».

>>> La vignetta è di Carlos Latuff.

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Buffoni

Dice che per rendere competitiva l’impresa italiana bisogna togliere l’articolo 18, che impedisce di licenziare un(a) dipendente senza giusta causa. Tradotto, significa che intendono permettere di licenziare chicchessia senza un motivo giusto.

Saranno rese più facili le «ristrutturazioni aziendali», ossia quando un’impresa, magari anche in attivo, decide di mettere sulla strada il maggior numero di lavoratori(trici) possibile per «contenere il costo del lavoro» e aumentare gli «utili» (cioè i soldi, mica gli «inutili» esseri umani). Magari per aprire in qualche altro Paese, d’Europa o del mondo, dove le garanzie sono ancora minori e i salari persino più bassi – il caso Omsa insegna.

Sarà più facile minacciare e liberarsi di chi ancora non accetta i soprusi della nuova «età moderna» marchionnemente intesa. I tesserati Fiom, ad esempio.

Sarà più difficile per i sindacati, come per lo Stato, garantire un lavoratore o una lavoratrice, anche se la Repubblica italiana – secondo la Costituzione – è «fondata sul lavoro».

Questa è la portata della «riforma del lavoro» promessa da Mario Monti, una riforma di classe a danno della maggioranza dei lavoratori, che se ora non si fa – ha detto qualcuno in TV – è solo per il muro opposto dalla Cgil. Ma il governo andrà avanti lo stesso, si sono affrettati ad aggiungere, con la complicità della Cisl e della Uil che, evidentemente, hanno un’idea peculiare del loro ruolo oppure hanno creduto davvero alla retorica del “non c’è alternativa”.

E la Cgil che fa? Combattuta tra la necessità di resistere e il timore di essere escluso da tutti i tavoli di trattativa, il maggior sindacato italiano sembra offrire un appoggio troppo debole alla parte migliore di sé (la Fiom). Nella mia città – lo dico con tristezza – al presidio tenutosi durante lo sciopero del 9 marzo la Cgil non c’era. E sembra che le parole d’ordine del presunto centro-sinistra (il Pd) abbiano fatto definitivamente breccia nel sindacato, se Susanna Camusso ha pensato di schierarsi a favore della Tav perché in questo Paese c’è un bisogno «disperato» di infrastrutture.

Io non ho tempo per scrivere e in più corro costantemente il rischio di essere etichettato come un estremista. Ma mi domando se loro, i moderati, abbiano la minima idea di dove ci stanno portando. Come tesserato Cgil, in ogni caso, ritengo mio dovere esprimere il mio aperto dissenso per quanto riguarda le dichiarazioni pro Tav e le mie paure circa una possibile involuzione del sindacato in senso bonanniano.

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8 marzo: Fiori per Elsa

Una vignetta di Ronnie Bonomelli. Cliccateci sopra per vederla ingrandita.

Altro materiale dell’autore è liberamente scaricabile dal blog appropriazionedebita.

Buon 8 marzo

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Medioevo: bandito dalla Valsusa il pacifista Turi Vaccaro

È il medioevo, l’ho scritto nel titolo, e anche chi non è contro la Tav dovrebbe pensarci e trarre le sue conclusioni. Perché certi episodi non sono allarmanti soltanto per il movimento No Tav, ma per la vita di tutt* in questo disgraziato Paese.

Era successo poco tempo fa, a Roma, a un attivista di Greenpeace, di essere bandito per due anni dalla capitale per aver apposto striscioni sui cambiamenti climatici dopo l’alluvione di Genova.

Adesso tocca a un pacifista in Valsusa, uno che non ha mai fatto male a una mosca, uno che la violenza ha sempre cercato di fermarla, ma che ha il “torto” di condividere l’avversione per il progetto criminale della Torino-Lione.

Turi Vaccaro è stato bandito per un anno dal territorio di 7 comuni della Valle, nei quali avrebbe creato «turbativa alla sicurezza pubblica». Gli vengono addebitati, in particolare, tre episodi, che rendono l’idea del turbare la sicurezza pubblica almeno quanto dire «pecorella» a un agente equivale ad aggredirlo fisicamente.

1) Turi Vaccaro ha creato «turbativa alla sicurezza pubblica» perché ha intralciato il lavoro di una pala meccanica impugnando… una collana d’aglio!

2) Turi Vaccaro ha creato «turbativa alla sicurezza pubblica» perché è entrato nell’area del cantiere e si è arrampicato su un albero, dove è rimasto per tre giorni in sciopero della fame, a 20 metri di altezza dal suolo.

3) Turi Vaccaro ha creato «turbativa alla sicurezza pubblica» perché domenica scorsa, in segno di solidarietà verso l’amico, è salito sul traliccio dal quale era precipitato Luca Abbà.

Tre episodi che fanno di Turi (il lettore più acuto se ne sarà avveduto da solo) un pericolo pubblico da allontanare prima che sia troppo tardi.

A me Turisarà perché interpreta il suo essere cristiano come la necessità di amare il prossimo e prendersi cura del creato, sarà per i capelli lunghi e la barba, sarà per la sua incapacità di scendere a compromessi con se stesso – ha sempre fatto venire in mente uno di quei personaggi straordinari che la storia ci offre come esempi (e che la televisione si affanna a nascondere dietro centinaia di modelli “altri”).

Di lui conosco l’azione forse più eclatante – nonviolenta perché diretta contro uno strumento di morte – compiuta nel 2005 in Olanda, quando danneggiò i comandi di due bombardieri nucleari dopo essere penetrato, non si sa bene come, in una base Nato.

I benpensanti criticheranno il fatto stesso di aver superato una «zona invalicabile», rivendicheranno orgogliosi il ruolo della Nato nell’esportare nel mondo «pace e democrazia». Io rimpiango di non possedere un simile coraggio e credo che, nei fatti, troppo spesso siamo tutt* fiancheggiatori della guerra.

Ho incontrato Turi a Vicenza, il 18 febbraio del 2007, all’indomani della grande manifestazione contro la costruzione della base di guerra americana al Dal Molin. Amici mi davano un passaggio dal presidio permanente in città e sulla macchina è salito anche lui. Inutile dire che la polizia ci ha fermati per un controllo documenti.

L’ho incontrato di nuovo a Novara, mentre distribuiva o vendeva non so quali libri, durante una manifestazione contro i cacciabombardieri F 35, armi di distruzione che la nostra Costituzione e il buonsenso ci vieterebbero di comprare, figuriamoci di co-produrre, e che naturalmente ci apprestiamo a co-produrre e a comprare.

Turi è parte del movimento No Tav in Val di Susa. «Un vero facinoroso!», diranno in questura. Un “pezzo” dell’Italia migliore, secondo me, un uomo capace di dedicare la propria esistenza a cause giuste, un tizio con un curriculum invidiabile, se vogliamo, un “ragazzo” – lui cinquantaduenne – di cui essere giustamente fier*, da contrapporre alla retorica odiosa dei “nostri” ragazzi in missione in Afghanistan o in qualunque altra parte del mondo gli interessi dell’occidente ci spingano a esportare la democrazia.

È ora di chiudere. È tardi e confesso che prima di andare a dormire voglio strimpellare un po’ la chitarra, che a 37 anni mi sto finalmente decidendo a imparare; sembrerà una cazzata a chi legge (mi scuso per la parolaccia ma non ci sono sinonimi per i termini tecnici), ma mi piace l’idea di concludere la giornata con quella che – ai miei occhi – è una scelta vitale (la musica), contrapposta alla loro appiattente violenza.

Vi lascio con un commento di Turi al Fatto Quotidiano, registrato dopo l’emissione del divieto di ritorno in 7 comuni della Valsusa.

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Perché No Tav


Nei giorni scorsi
non ho avuto tempo per scrivere (e non ne ho neanche ora, ma quando la misura è colma le cose si fanno lo stesso). Sono giusto riuscito a rilanciare un appello affinché il governo si decida a ricevere e ascoltare le amministrazioni locali della Val di Susa. Primo firmatario di questo appello è don Luigi Ciotti.

L’ho fatto perché è un buon appello, ma voglio precisare che non condivido la posizione di Ciotti sulla questione Tav e sulla resistenza della popolazione valsusina, almeno come l’ho interpretata dall’intervista pubblicata sulla Stampa del 5 marzo.

Dalle sue risposte, evinco che il sacerdote ha ancora «tanti dubbi e tanto bisogno di capire». «Io non dico che la Tav non deve essere fatta», ha dichiarato, «e sono convinto che l’Italia non deve perdere il treno dell’Europa. Ma è sul modo e anche sui tempi che si può discutere». Bene: ognuno ha il diritto alla posizione che sente più corretta; sono tuttavia passati più di vent’anni e avrei auspicato, da un uomo come Ciotti, un minimo di conoscenza in più. In ogni caso, la posizione di Ciotti non coincide con la mia.

Ciò che mi ha infastidito davvero è stato il continuo richiamo alla necessità di «isolare le frange dei violenti, di quelli che non sanno nemmeno cosa sia la Tav [sic]», come se davvero dovessimo credere alla retorica della contrapposizione tra No Tav “buoni” e No Tav “cattivi”, degli infiltrati (maledetti black bloc!) che approfittano della protesta per fare casino, o che in Val di Susa è in atto un tentativo di sovversione dell’ordine costituito che alla fine bisognerà sedare, con le buone o con le cattive.

Qual è la violenza, vogliamo parlarne? L’imposizione di un’opera inutile e dannosa o quella verbale di un No Tav che chiama «pecorella» un fiero tutore dell’ordine? La sistematica distorsione dei fatti da parte dei media o l’insulto ai giornalisti prezzolati? È davvero così assurdo che possa volare qualche sasso, quando dall’altra parte, a difesa di una prevaricazione di Stato, ci sono agenti in tenuta antisommossa, con caschi e scudi, pronti a far calare il manganello e a utilizzare gas cancerogeni e vietati dalle convenzioni internazionali di guerra?

Finora, la violenza di cui cianciano i media è consistita in prevalenza in azioni contro le cose (le recinzioni del cantiere) o in reazioni a provocazioni delle forze dell’«ordine» (cariche e pestaggi, come a Porta Nuova lo scorso 25 febbraio), potremmo parlare di autodifesa. Domando di nuovo: da che parte sta la violenza?

Ma mi accorgo che, in questo rimbalzare di accuse, a molte persone è stato impedito di farsi un’idea chiara di che cosa sia il Tav e del perché non vada fatto. Nel mio piccolo, ripropongo un po’ di materiale: un’intervista molto interessante a Claudio Cancelli, che è stato docente di Ingegneria ambientale al Politecnico di Torino. Invito a guardarla con grande attenzione perché individua problemi e assurdità del progetto con grande lucidità e chiarezza.

C’è poi un servizio di Report del 23 ottobre 2011 che spiega Continua a leggere

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Tav: appello per un tavolo pubblico nel giro di un mese

Riporto l’appello per un tavolo pubblico sulla Tav, lanciato da don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera, Livio Pepino, giurista, già componente del Consiglio superiore della magistratura, di Michele Curto, capogruppo di Sinistra, ecologia e libertà al Comune di Torino, Ugo Mattei, professore di diritto civile all’Università Torino, Marco Revelli, professore di Scienza dell’amministrazione all’Università del Piemonte orientale, Giorgio Airaudo, responsabile nazionale auto Fiom, e molti altri.

L’idea è che il fatto che che non si possa tornare indietro perché tutto è già stato deciso a livello europeo è una forzatura. L’idea è che sull’inutilità, i costi e i problemi della Tav esiste già una letteratura scientifica significativa. L’idea è che il tanto sbandierato dialogo con la popolazione non ci sia ancora stato, perché non stai dialogando, quando hai già preso la tua decisione.

E, soprattutto (?), «non è vero che a livello sovranazionale è già tutto deciso e che l’opera è ormai inevitabile. L’Unione europea ha riaperto la questione dei fondi, dei progetti e delle priorità rispetto alle Reti transeuropee ed è impegnata in un processo legislativo che finirà solo fra un anno e mezzo».

Vedi mai che l’alta velocità ce la dovremo pagare tutta da soli…

Il testo dell’appello:

Dopo mesi in cui la politica ha omesso il confronto e il dialogo necessari con la popolazione della valle, la situazione di tensione in Val Susa ha raggiunto il livello di guardia, con una contrapposizione che sta provocando danni incalcolabili nel fisico delle persone, nella coesione sociale, nella fiducia verso le istituzioni, nella vita e nella economia dell’intera valle. A esserne coinvolti sono, in diversa misura, tutti coloro che stanno sul territorio: manifestanti e attivisti, forze dell’ordine, popolazione.

I problemi posti dal progetto di costruzione della linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione non si risolvono con lanci di pietre e con comportamenti violenti. Da queste forme di violenza occorre prendere le distanze senza ambiguità. Ma non ci si può fermare qui. Non basta deprecare la violenza se non si fa nulla per evitarla o, addirittura, si eccitano gli animi con comportamenti irresponsabili (come gli insulti rivolti a chi compie gesti dimostrativi non violenti) o riducendo la protesta della valle – di tante donne e tanti uomini, giovani e vecchi del tutto estranei a ogni forma di violenza – a questione di ordine pubblico da delegare alle forze dell’ordine.

La contrapposizione e il conflitto possono essere superati solo da una politica intelligente, lungimirante e coraggiosa. La costruzione della linea ferroviaria (e delle opere a essa funzionali) è una questione non solo locale e riguarda il nostro modello di sviluppo e la partecipazione democratica ai processi decisionali. Per questo è necessario riaprire quel dialogo che gli amministratori locali continuano vanamente a chiedere. Oggi è ancora possibile. Domani forse no.

Per questo rivolgiamo un invito pressante alla politica e alle autorità di governo ad avere responsabilità e coraggio. Si cominci col ricevere gli amministratori locali e con l’ascoltare le loro ragioni senza riserve mentali. Il dialogo non può essere semplice apparenza e non può trincerarsi dietro decisioni indiscutibili ché, altrimenti, non è dialogo. La decisione di costruire la linea ad alta capacità è stata presa oltre vent’anni fa. In questo periodo tutto è cambiato: sul piano delle conoscenze dei danni ambientali, nella situazione economica, nelle politiche dei trasporti, nelle prospettive dello sviluppo. I lavori per il tunnel preparatorio non sono ancora iniziati, come dice la stessa società costruttrice.

E non è vero che a livello sovranazionale è già tutto deciso e che l’opera è ormai inevitabile. L’Unione europea ha riaperto la questione dei fondi, dei progetti e delle priorità rispetto alle Reti transeuropee ed è impegnata in un processo legislativo che finirà solo fra un anno e mezzo.

Lo stesso Accordo intergovernativo fra la Francia e l’Italia sarà ratificato solo quando sarà conosciuto l’intervento finanziario della UE, quindi fra parecchi mesi. E anche i lavori sulla tratta francese non sono iniziati né prossimi.

Dunque aprire un tavolo di confronto reale su opportunità, praticabilità e costi dell’opera e sulle eventuali alternative non provocherebbe alcun ritardo né alcuna marcia indietro pregiudiziale. Sarebbe, al contrario, un atto di responsabilità e di intelligenza politica. Un tavolo pubblico, con la partecipazione di esperti nazionali e internazionali, da convocare nello spazio di un mese, è nell’interesse di tutti. Perché tutti abbiamo bisogno di capire per decidere di conseguenza, confermando o modificando la scelta effettuata in condizioni del tutto diverse da quelle attuali.

Un Governo di «tecnici» non può avere paura dello studio, dell’approfondimento, della scienza. Numerose scelte precedenti sono state accantonate (da quelle relative al ponte sullo stretto a quelle concernenti la candidatura italiana per le Olimpiadi).

Noi oggi chiediamo molto meno. Chiediamo di approfondire i problemi ascoltando i molti «tecnici» che da tempo stanno studiando il problema, di non deludere tanta parte del Paese, di dimostrare con i fatti che l’interesse pubblico viene prima di quello dei poteri forti. Lo chiediamo con forza e con urgenza, prima che la situazione precipiti ulteriormente.

Primi firmatari:

1) don Luigi Ciotti (presidente Gruppo Abele e Libera)
2) Livio Pepino (giurista, già componente Consiglio superiore magistratura)
3) Michele Curto (capogruppo Sinistra, ecologia e libertà, Comune Torino)
4) Ugo Mattei (professore diritto civile, Università Torino)
5) Marco Revelli (professore Scienza Amministrazione, Università del Piemonte orientale)
6) Giorgio Airaudo (responsabile nazionale auto Fiom)
7) Nichi Vendola (presidente Regione Puglia)
8 ) Monica Frassoni (presidente Verdi europei)
9) Michele Emiliano (sindaco di Bari)
10) Luigi De Magistris (sindaco di Napoli)
11) Tommaso Sodano (vicesindaco di Napoli)
12) Paolo Beni (presidente nazionale Arci)
13) Vittorio Cogliati Dezza (presidente nazionale Legambiente)
14) Filippo Miraglia (Arci)
15) Gabriella Stramaccioni (direttrice Libera)
16) don Armando Zappolin (presidente nazionale Cnca)
17) don Tonio dell’Olio (Libera international)
18) Giovanni Palombarini (giurista, già Procuratore aggiunto Cassazione)
19) don Marcello Cozzi (Libera)
20) Sandro Mezzadra (professore Storia dell dottrine politiche, Università Bologna)
21) Angelo Bonelli (presidente dei Verdi)
22) Norma Rangeri e il collettivo del manifesto

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Forze dell’ordine, ma l’ordine democratico è un’altra cosa

25 febbraio 2012, Torino Porta Nuova.

Un utente di Trenitalia (non si tratta di un manifestante) racconta il pestaggio subito, senza motivo, da due poliziotti.

Come senza motivo partono le cariche contro i manifestanti di ritorno a Milano.

Lo Stato, la polizia sono contemporaneamente tante cose diverse. Io non generalizzo per principio.

Ma accorgerci che c’è qualcosa che non funziona – e denunciarlo – è interesse di tutt*. Delle forze dell’ordine, in primo luogo, se l’«ordine» che vogliono tutelare è quello democratico.

È mai possibile che dai colleghi di certi «tutori» non debba mai venire una denuncia, magari simbolica ma tanto più significativa perché pronunciata da chi veste la stessa divisa, della violenza impiegata sistematicamente in chiave repressiva?

È mai possibile che non si accorgano di avere davanti a loro i loro concittadini? Che le battaglie di questi potrebbero essere le loro?

C’è chi lo ha detto meglio di me il 1° luglio dell’anno scorso:

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