Voyeurismo? No, grazie! Lettera aperta contro il voyeurismo mediatico sui corpi delle donne [dal blog Vita da streghe]

Rilancio volentieri l’iniziativa portata avanti da Vita da streghe, Donne Pensanti, Un altro genere di comunicazione e Una nuova Era: una lettera aperta ai mezzi di comunicazione italiani «per dire basta al voyeurismo mediatico sui corpi delle donne».

Come d’abitudine, nel rilanciare un’iniziativa altrui aggiungo due parole. Ad esempio, che non si tratta di mettere sotto accusa non la nudità femminile, bensì l’uso del corpo delle donne per veicolare notizie, ossia per vendere un prodotto (editoriale in questo caso, di altro tipo negli spot pubblicitari).

È giustoe ovvio – che i giornali raccontino ciò che accade nei vari palazzigrazioli e villecertosa; non è così ovvio che chi – giustamentes’indigna per certi comportamenti lesivi della dignità femminile approfitti della situazione per pubblicare l’immagine dell’ultima “figlioccia” del Papi, la cui privacy finisce per essere tutelata soltanto da qualche puntino messo a sfumare il volto.

Fare le crociate per il rispetto della donna e strizzare l’occhio al lettore maschio riempiendo il giornale di corpi senza troppi veli significa perpetuare la logica corrente per cui la funzione della donna è quella di appagare lo sguardo, il desiderio, le voglie dell’uomo, non importa se conosciuto o meno, in maniera consenziente o meno, capace di stare al proprio posto o magari propenso ad allungare le mani. Significa trasformare le donne in veline.

IO NON CI STO: una lettera aperta per dire basta al voyeurismo mediatico sui corpi delle donne

Dove finisce il corretto dovere di cronaca sulle vicende di chi ci dovrebbe rappresentare politicamente e dove comincia il perverso gioco al solletico del voyeurismo del pubblico?

Vita da streghe, insieme con Donne Pensanti, Un altro genere di comunicazione e Una nuova Era, ha scritto una lettera aperta ai mezzi di informazione italiani per dire basta al voyeurismo mediatico sui corpi delle donne, praticato da sempre e intensificatosi senza misura in seguito ai recenti scandali politici.

Chiunque può firmare la lettera, che verrà inviata a numerose testate, sia aderendo all’evento su Facebook che inserendo il proprio nome, cognome e città (o sito web) a commento della lettera postata su Donne Pensanti.

Ecco di seguito il testo della lettera:

IO NON CI STO: basta con il voyeurismo mediatico sui corpi delle donne
Lettera aperta ai mezzi di informazione italiani

“Siamo stanche e siamo indignate.

Non solo siamo state offese dai recenti comportamenti dei politici nei nostri confronti, ma anche e soprattutto dall’atteggiamento ipocrita di molti mezzi di informazione che, anziché limitarsi alla denuncia, hanno ossessivamente diffuso immagini e video soft-pornografici, nell’ennesima profusione gratuita di corpi di donne svestite in pasto agli sguardi di tutti.

Ci e vi chiediamo: dove finisce il corretto dovere di cronaca sulle vicende di chi ci dovrebbe rappresentare politicamente e dove comincia il perverso gioco al solletico del voyeurismo del pubblico?

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Manifestazione in difesa dei Diritti contro la Guerra (Asti, 13 novembre)

Contro tutti gli eserciti, contro tutte le guerre

Ricevo dall’Assemblea Permanente No F-35 di Novara un appello per la manifestazione che si terrà ad Asti tra poche ore (sabato 13 novembre alle ore 15) «in difesa dei Diritti contro la Guerra». La comunicazione arriva tardi, ma se qualcun@ si trovasse da quelle parti, ci faccia un pensiero, perché la situazione è sempre più critica

Manifestazione in difesa dei Diritti contro la Guerra sabato 13 novembre con inizio alle ore 15 in Largo Martiri della Liberazione Asti

I fatti recenti e 10 anni di coinvolgimento in una guerra, già parlano da soli: nel 2001 le iniziative di tanti cittadini contrari all’intervento armato avevano espresso un forte punto di vista contrario. Ora il popolo della pace torna a dire cosa pensa, in modo inequivocabile, come fece anche ad Asti nel 2001, poi negli anni successivi contro la guerra in Iraq e come fece anche nel 2006 e 2007, quando raccolse più di un migliaio di firme per il non rifinanziamento delle missioni italiane in scenari di guerra.

Quei cittadini non si sono ritirati, hanno continuato ad agire con l’impegno quotidiano nel sociale, convinti che la difesa dei diritti sia in stretta continuità con le scelte che riguardano la pace.

Sono la società civile, persone che operano nelle realtà associative o semplici cittadini che vorrebbero una finanziaria più sociale e meno spese in armi: la partecipazione delle nostre forze armate alla guerra di occupazione in Afghanistan ci costerà almeno 600 milioni di euro alla fine di quest’anno.

Nel 2009 ne avevamo spesi 540.

Si conferma quindi l’inarrestabile aumento del costo di questa campagna militare, che corre parallelo alla progressiva escalation del conflitto, con il preoccupante cambio di strategia del ministro La Russa e l’incalcolabile perdita di vite umane.

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Manifesto per una de-militarizzazione degli spazi civili e della società

In realtà il titolo di questo articolo dovrebbe essere «Manifesto in costruzione per una de-militarizzazione degli spazi civili e della società».

Si tratta di una proposta, ancora in gran parte da meditare, che propongo a chiunque sia interessato/a a contrastare il livello crescente di militarizzazione delle nostre città e della società italiana (e, più in generale, occidentale).

La nostra Costituzione prevede, all’articolo 11, che l’unico uso legale dell’esercito sia quello difensivo. I nostri soldati si trovano tuttavia presenti (e combattenti) in teatri di guerra troppo lontani dall’Italia perché lo statuto delle loro missioni possa essere davvero considerato tale.

Dalle pagine di questo blog ho proposto e riproposto (finora con scarso successo) l’iniziativa «Ripristiniamo il Ministero della Guerra», volta a restituire il vero nome alle cose, contro l’ipocrisia delle «guerre umanitarie».

Giovedì 4 novembre ho partecipato come moderatore a una serata antimilitarista durante la quale si è proposto, fra l’altro, di agire assieme (tra nonviolenti e antimilitaristi in senso più lato) per costruire un movimento permanente contro un tipo di guerra immaginato anch’esso come «permanente» (almeno da Bush in poi).

Il senso (o l’obiettivo) di questo movimento, siccome non pare probabile l’ipotesi di riuscire a convincere Stati e aziende a mettere in secondo piano gli interessi economici e strategici di fronte alla volontà dell’opinione pubblica, potrebbe essere più credibilmente quello di “rosicchiare spazi di pace“, allontanare la presenza militare dai luoghi civili, fare in modo che il mondo militare si senta sempre più isolato dal resto della società.

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Nessuna equiparazione è possibile tra chi scelse l’Orrore e chi lo rovesciò

Ciò che sto per fare è estremamente scorretto. Il post è infatti troppo lungo e so che me ne vorrete, anche perché contiene, dopo la presentazione, 3 testi diversi. Penso però che valga la pena di leggerlo fino in fondo, non foss’altro che perché riguarda un tema molto grave oggi all’ordine del giorno.

Lo scorso sabato (6 novembre), in una lettera alla redazione valdostana della Stampa, il signor Pierre Martinet ha voluto prendere le difese dei “bravi ragazzi” di Salò, quelli che per “Amor di Patria” scelsero Mussolini per fare argine contro i cosacchi di Stalin.

Nella stessa lettera, Martinet s’interroga sui crimini dei partigiani, giungendo a citare a sostegno delle sue tesi i libri del revisionista Giampaolo Pansa.

Nella lettera di Martinet, e purtroppo in mille altri “luoghi”, è in atto il tentativo gravissimo, in corso da anni, di equiparare repubblichini e partigiani, dimenticando che i primi – proprio non importa se in buona fede o per calcolo: sono convinto che anche Hitler fosse “in buona fede” quando programmava la Shoah o la seconda guerra mondiale – hanno “fatto il tifo”, con i fatti e con le armi, per i campi di sterminio e la dittatura totalitaria; i secondi, invece, hanno messo a repentaglio la loro stessa vita contro il sistema dell’orrore e della morte, per quanto, com’è logico, non siano mancati alcuni errori.

L’equiparazione tra i partigiani e i «ragazzi» di Salò non è soltanto scorretta, ma propriamente deleteria, perché contribuisce a legittimare gruppi e movimenti che, dietro una mano leggera di belletto, rivendicano a tutt’oggi gli “ideali” del fascismo più bieco. Il caso esemplare è quello di CasaPound/Blocco studentesco, cui aderiscono molti giovanissimi, affascinati da una maniera ammiccante e moderna (più o meno, ma forse più meno che più) di presentare idee e temi propri del Ventennio.

Pubblico quindi con grande piacere due risposte alla lettera di Pierre Martinet, scritte da due antifascisti valdostani: quella di Francesco Lucat, segretario regionale di Rifondazione comunista, e quella di Alessandro Pascale, anche lui membro di Rifondazione.

Si tratta di una seconda scorrettezza, perché lo faccio senza il permesso dell’autore, ma prima delle “risposte” pubblico anche la lettera di Martinet il quale, mi sembra, ha diritto a non essere attaccato sul nulla e a far sapere, poiché si cerca di smentirlo, qual è esattamente la sua tesi. Non pubblicare il testo di partenza sarebbe stata perciò una scorrettezza più grave.

Vi lascio ai tre testi.

Soltanto la verità fa onore alla storia
di Pierre Martinet
(da La Stampa del 6 novembre 2010)

Con il prosieguo dello studio che svolgo sulla guerra civile in Italia, negli anni 1943-1945,  appaiono in modo sempre più evidente troppe lacune e troppe verità che non sono state mai dette o che volutamente sono nascoste perché scomode. Che la guerra civile tra italiani in quel periodo sia stato un dramma per il nostro paese non v’è dubbio: il tradimento del Re e di Badoglio per chi avesse un benché minimo orgoglio di Patria aveva creato uno scompiglio tale che chi si era trovato dopo l’8 settembre in armi doveva fare una scelta davvero importante: con chi stare? Analizzando in modo più approfondito quel periodo, appare chiaro che la parte ribelle avesse due scopi finali. Continua a leggere

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I bimbi sui blindati fanno tanto «Unità nazionale»…

Benedetto sia il cellulare: l’immagine è venuta abbastanza bene da far capire di che si tratta, abbastanza sfocata da non dover mettere quegli improponibili puntini sopra la faccia dei minori.

Già, perché a salire sui «Lince», oggi, 7 novembre, in piazza Chanoux ad Aosta, per celebrare l’«Unità nazionale», erano soprattutto bambini. Il papà che aiuta la bambina a salire sul blindato, sotto l’occhio fraterno (“grande-fraterno”, se si capisce che cosa intendo), dei militari in divisa, col loro bel mitra a tracolla; il ragazzino che si gode il suo scenario da Playstation (soldatini, si sarebbe detto una volta, ma il messaggio alla fine non è cambiato).

Tante domande, ma poco tempo per scrivere:

1) Che cosa c’entra l’esercito, che cosa c’entrano le armi, con le celebrazioni per l’Unità d’Italia? O è l’ammissione di un fallimento (l’Italia fu fatta con le armi, è vero, e forse 150 anni dopo ancora non siamo riusciti a trovare un collante diverso per questo martoriato Paese), oppure si tratta di una grande mistificazione. O propaganda (dimentico sempre che siamo un Paese in guerra).

2) Che cosa c’entrano i bambini con i soldati, i blindati, le armi?

3) Se lo Stato ha il diritto di far pubblicità ai mezzi militari in piena città, area civile per eccellenza, se ha il diritto di schierare mezzi muniti di armi (saranno anche state scariche, per carità, ma il punto davvero non è la “sicurezza”), avrei avuto il diritto io, magari senza avvisare la questura, di andare sul posto con uno striscione, o magari una semplice maglietta recante la scritta: «Basta bugie: le armi sertvono a uccidere»?

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Report della serata antimilitarista 4/11 ad Aosta

E così ho moderato per la prima volta un incontro-dibattito.

Si potrebbe dire che sono stato “furbo” e invece di confrontarmi con relatori riottosi ho scelto un’occasione in cui si è parlato di antimilitarismo e nonviolenza; sia come sia, questo che segue è il mio (non tanto breve) report della serata.

L’appuntamento, «La guerra in tempo di crisi: Afghanistan, articolo 11 e finanziamenti militari», era organizzato dal «Comitato valdostano 16 ottobre», come primo di una serie di incontri che avrà per tema principale il lavoro e il sistema economico con il quale dobbiamo confrontarci.

Relatori erano Beppe Marasso, presidente del Mir (Movimento internazionale per la Riconciliazione), primo obiettore di coscienza italiano a conoscere il carcere per la sua decisione di rifiutare la divisa quando il servizio militare era obbligatorio e il servizio civile ancora da inventare; don Ugo Busso, parroco di Gignod (Aosta) e per 15 anni presidente della Caritas diocesana; Isma Fayad, studente, portavoce del movimento giovanile Rete ConTesta. Assente per malattia Marco Lo Verso della segreteria regionale Cgil.

Gli interventi dei relatori.


Ha aperto il dibattito Beppe Marasso, che ha sottolineato come il dramma della guerra in Afghanistan possa suscitare un sentimento di scoramento e sconfitta: la matassa degli interessi appare troppo complessa per poterne trovare il bandolo. Il «bandolo» però esiste ed è iniziare da se stessi, senza delusioni o trionfalismi. Dobbiamo chiederci in che modo noi partecipiamo alla guerra ed essere consapevoli del fatto che, finché la nostra opposizione sarà legata all’occasione, selezionando guerre giuste e guerre sbagliate in base alle contingenze, non pronunceremo mai una parola forte sulla guerra. Dobbiamo sapere che non esiste guerra giusta e fare in modo che nessuna guerra abbia la nostra legittimazione, perché siamo noi che legittimiamo la violenza, ipotizzando che possa esservi un caso nel quale essa sia legittima.

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Un «manifesto» bisogno

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Il governo italiano ha deciso di tagliare il finanziamento pubblico all’informazione indipendente, cooperativa e di partito.

Saranno contenti i tanti beppegrillo che, giustamente smaniosi di denunciare tutti gli sprechi, si mostrano però incapaci di distinguere tra ciò che lo è veramente e ciò che non può essere sacrificato, pena il peggioramento della qualità della società in cui si vive.

«Uno Statola frase non è mia, ma la condivido per intero – o è sociale o non è». Mille sono le voci etichettate come spreco dagli alfieri del neoliberismo che in realtà servono a garantire un livello di democrazia accettabile e una vita migliore per tutti i cittadini.

Spreco, secondo certi, sono quelle politiche sociali e quei servizi dai quali dipende la possibilità per tutti, indipendentemente dal reddito o dal ruolo rivestito nella società, di curarsi, informarsi e difendersi oltre che da minacce reali o inventate (la famosa «sicurezza»), anche dalla precarietà di vite a progetto nelle quali è impossibile… progettare la propria esistenza.

Spreco, secondo certi, è il diritto ad ascoltare una voce fuori dal coro, a informarsi, anche attraverso la carta stampata, senza cadere vittime dell’interesse corporativo delle grandi concentrazioni editoriali.

Nei vari Paesi del mondo la maggior parte del mercato dell’informazione è concentrato in pochissime mani. In Italia fra i 3-4 gruppi editoriali maggiori c’è anche quello del presidente del consiglio, in un conflitto di interessi del quale gli italiani si sono forse stufati di sentir parlare, ma che costituisce il centro di quel sistema di potere che sta trascinando l’ex Belpaese in una crisi, non soltanto economica, ma anche culturale, politica e istituzionale. Un sistema che sta trascinando il Paese nella barbarie dei poteri mafiosi e dei campi di concentramento per stranieri, ben al di là delle avventure “sentimentali” del premier.

In questo quadro, veder morire una delle pochissime voci indipendenti, quel «manifesto» che tante volte ho citato in queste pagine e che l’anno prossimo dovrebbe festeggiare i suoi primi quarant’anni, sarebbe davvero desolante. I tagli al fondo per l’editoria priveranno il «quotidiano comunista» di qualcosa come 3,6 milioni di euro all’anno, cifra senza la quale ben poco potranno fare i membri della cooperativa di giornalisti che lo anima per resistere. Giornalisti che da mesi mettono in discussione il loro stipendio pur di permettere al giornale di uscire.

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