Report della serata antimilitarista 4/11 ad Aosta

E così ho moderato per la prima volta un incontro-dibattito.

Si potrebbe dire che sono stato “furbo” e invece di confrontarmi con relatori riottosi ho scelto un’occasione in cui si è parlato di antimilitarismo e nonviolenza; sia come sia, questo che segue è il mio (non tanto breve) report della serata.

L’appuntamento, «La guerra in tempo di crisi: Afghanistan, articolo 11 e finanziamenti militari», era organizzato dal «Comitato valdostano 16 ottobre», come primo di una serie di incontri che avrà per tema principale il lavoro e il sistema economico con il quale dobbiamo confrontarci.

Relatori erano Beppe Marasso, presidente del Mir (Movimento internazionale per la Riconciliazione), primo obiettore di coscienza italiano a conoscere il carcere per la sua decisione di rifiutare la divisa quando il servizio militare era obbligatorio e il servizio civile ancora da inventare; don Ugo Busso, parroco di Gignod (Aosta) e per 15 anni presidente della Caritas diocesana; Isma Fayad, studente, portavoce del movimento giovanile Rete ConTesta. Assente per malattia Marco Lo Verso della segreteria regionale Cgil.

Gli interventi dei relatori.


Ha aperto il dibattito Beppe Marasso, che ha sottolineato come il dramma della guerra in Afghanistan possa suscitare un sentimento di scoramento e sconfitta: la matassa degli interessi appare troppo complessa per poterne trovare il bandolo. Il «bandolo» però esiste ed è iniziare da se stessi, senza delusioni o trionfalismi. Dobbiamo chiederci in che modo noi partecipiamo alla guerra ed essere consapevoli del fatto che, finché la nostra opposizione sarà legata all’occasione, selezionando guerre giuste e guerre sbagliate in base alle contingenze, non pronunceremo mai una parola forte sulla guerra. Dobbiamo sapere che non esiste guerra giusta e fare in modo che nessuna guerra abbia la nostra legittimazione, perché siamo noi che legittimiamo la violenza, ipotizzando che possa esservi un caso nel quale essa sia legittima.

Don Ugo Busso ha commentato il 4 novembre da un punto di vista religioso, condannando le scelte di quella parte della Chiesa che non esita a benedire gli eserciti. Ha ricordato come sulle pagine regionali della Stampa del 3 novembre il programma delle celebrazioni per festeggiare le Forze armate si aprisse con una messa in cattedrale e si chiudesse con la cerimonia delle armi, con un contrasto che non può non turbare chi crede nei valori del Vangelo. Anche il settimanale diocesano, il Corriere della Valle d’Aosta, ha titolato l’edizione del 14 ottobre «Testimoniare l’amore al servizio dei più deboli», con riferimento ai funerali degli alpini morti in Afghanistan. Don Busso si è detto rattristato delle parole dell’ordinario militare, citate nel titolo dal giornale, e ha ricordato come nella Chiesa esistano voci capaci di alzarsi contro la guerra, come monsignor Bettazzi, il quale ha recentemente scritto che il no alla guerra è «un principio non negoziabile». Don Busso ha poi ricordato di essere stato vicino alla scelta degli obiettori di coscienza sin da prima della nascita del servizio civile e di essere stato per questo considerato una specie di sobillatore, al punto di veder esplodere negli anni ’70 una bomba contro la porta della sua chiesa.

Isma Fayad ha esordito ricordando le parole con cui Tiziano Terzani, all’indomani dell’11 settembre 2001, invitava a far sì che i 3 mila morti delle Torri Gemelle non innescassero una vendetta ma fossero l’occasione per uno sforzo di comprensione reciproca. Invece, subito dopo venivano invasi dapprima l’Afghanistan e quindi l’Iraq, causando in questo modo centinaia di migliaia di morti e il collasso dell’economia americana. Fayad ha messo in risalto il ruolo di primo piano dell’Italia, che per la missione militare in Afghanistan spende all’incirca 2 milioni di euro al giorno e ha sottolineato le conseguenze sociali di una simile spesa, chiamando in causa i tanti tagli del governo, nell’istruzione pubblica come negli altri servizi, e persino verso la tanto sbandierata “sicurezza” dei cittadini (sono stati tagliati infatti anche i fondi per la polizia). La guerra, naturalmente, non si limita a comportare spese, ma rende possibile un giro di affari enorme. La globalizzazione dell’economia ha portato anche alla globalizzazione del «nemico», che non è più circoscritto geograficamente (come l’Urss durante la guerra fredda), ma può trovarsi ovunque (il terrorismo); ciò costituisce un elemento importantissimo per l’industria della sicurezza. La questione è innanzitutto economica, dunque, ma anche politica e sociale, perché questo uso della guerra delegittima l’occidente. Occorre reinventare una fratellanza e un internazionalismo tra popoli oppressi contro il capitalismo mondiale, il sistema economico che sta alla base di tutte le guerre. L’Italia oggi è schizofrenica: le persone che si spendono per salvare la vita all’iraniana Sakineh condannata alla pena capitale sono molte volte le stesse che in Parlamento continuano a votare il finanziamento alla guerra in Afghanistan. Servirebbe una presa di coscienza europea circa il fatto che la spirale di violenza cui assistiamo non è stata innescata da dittatorucoli del Terzo mondo. Fayad ha concluso citando la poesia La guerra che verrà, di Bertolt Brecht.

La guerra che verrà

Non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
C’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.

Dopo i primi interventi dei relatori, la serata è proseguita con moltissime sollecitazioni provenienti dal “pubblico” o, per meglio dire, da chi ha partecipato al dibattito seduto in sala. Di alcuni conosco i nomi, di altri no; scelgo perciò di riportarli quasi tutti in forma anonima.

C’è chi ha ammesso l’importanza della nonviolenza come conquista dell’umanità, ma si è domandato come si pensa di sconfiggere, attraverso di essa, il sopruso più grave, lo sfruttamento più bieco. C’è chi ha posto l’accento sul fatto che ciò che a noi abitanti di un Paese ricco e sicuro sembra normale non è forse esportabile nelle zone in cui la violenza è all’ordine del giorno. La Resistenza partigiana, ha ricordato qualcuno, è stata anche una lotta violenta, ma non per questo condannabile. Anche certe rivoluzioni violente sono difficilmente condannabili: come si potrebbe reagire, con i soli mezzi nonviolenti, alle peggiori dittature? E se in Italia si può parlare di nonviolenza, come si fa a farlo, ad esempio, in Palestina davanti a chi ha perso tutta la famiglia?

Andrea Asiatici, membro del Mir locale, che cito con nome e cognome perché portatore di una proposta sulla quale ritengo varrebbe la pena di lavorare, a risposto a queste “critiche” sull’efficacia delle strategie nonviolente proponendo una nonviolenza attiva, rivolta a cose pratiche: in Valle d’Aosta ci sono alpini che vengono addestrati per andare in Afghanistan e gli elicotteri da guerra sorvolano il capoluogo regionale, mentre si incontrano spesso per strada colonne di blindati Lince con tanto di mitra in torretta. Perché non organizzarsi per contrastare questa appropriazione degli spazi urbani, civili, da parte dell’esercito? Perché non unirsi per reclamare che Aosta diventi una città di pace? L’idea è quella di protestare contro l’invadenza della presenza militare, pretendendo che le esercitazioni avvengano lontano, e non in un’altra città, ma dove non ci sono popolazioni. Occorre creare qualcosa che crei permanentemente la pace, contro la follia della «guerra permanente».

C’è naturalmente bisogno di cambiare le idee precostituite, come quella per cui la difesa si fa per forza con le armi. C’è chi ha proposto allo scopo i Corpi civili di pace, chi mette in evidenza come per aiutare le popolazioni si devono mandare non soldati, ma insegnanti, medici, avvocati e agronomi. C’è anche chi ha messo in evidenza l’importanza della memoria, che viene continuamente costruita e ricostruita. Quanto suona falsa la storia d’Italia se la rileggiamo alla luce dell’articolo 11 della Costituzione! Lungo il corso del Piave, fiume simbolo della prima guerra mondiale, c’è un cartello che lo definisce «Fiume sacro alla Patria»; sarebbe completamente diverso avere un cartello onesto, con la scritta «Cimitero della Gioventù».

Valter Manazzale, membro del «Comitato valdostano 16 ottobre», ha notato come, a partire da prospettive diverse, il punto di vista di chi crede nella nonviolenza e quello di chi pensa che un percorso di cambiamento interiore non sia sufficiente possono incontrarsi. Ha quindi rilanciato la proposta di un agire comune, magari davvero per mettersi in mezzo alla strada davanti ai Lince per bloccarli. Manazzale ha poi insistito sull’aspetto economico del militarismo e ha lamentato come la crisi renda tutto più complicato, anche un’eventuale obiezione di coscienza, nelle fabbriche, alla produzione di armi. Il concetto è stato ripreso da altri, attraverso esempi a noi molto vicini: l’acciaio prodotto dall’aostana Cogne Acciai Speciali è destinato infatti alla produzione di armi. La crisi e l’interesse spingono comuni diversi a contendersi la stessa “fabbrica della morte”, come la linea di assemblaggio delle ali del caccia bombardiere di nuova generazione F-35, contesa tra Cameri (Novara) e Collegno (Torino). È invece urgente lottare per chiedere una riconversione degli impianti industriali finalizzati alla produzione bellica.

Beppe Marasso ha evidenziato i punti di contatto tra la prospettiva nonviolenta finalizzata al cambiamento interiore (e di conseguenza sociale) e le altre prospettive di cambiamento della società. Ha negato la possibilità di un’uscita dalla guerra sul piano storico e politico senza un cambiamento intellettuale, interiore. La nonviolenza non è contro l’idea del conflitto; la nonviolenza esiste in quanto assume il conflitto. Di fronte a un’ingiustizia devo decidere se coltivare il mio giardino oppure reagire. Il nonviolento e il “violento” sono vicini nello sdegno, sono vicini nella decisione di reagire, si discostano l’uno dall’altro solo nelle modalità della reazione. Il nonviolento decide di anticipare il mondo che vorrebbe avere: non si può riflettere su un fine di pace e giustizia se non con i mezzi della pace e della giustizia. Altrimenti i fini vengono strumentalizzati. È opportuno esigere da noi stessi prima che dagli altri la coerenza tra i fini e i mezzi.

>>> Siccome sedevo tra i relatori ho dato in prestito la macchina fotografica e credo che le foto di questo articolo siano di Andrea Padovani.

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