Onorare i carnefici (2)

Ho già detto del caso di Milano, dove il comune ha onorato ufficialmente i caduti della Repubblica di Salò con una corona funebre.

La stessa cosa è avvenuta a Nettuno (Roma), dove il 2 novembre il sindaco Angelo Casto, eletto con il Movimento 5 Stelle, ha reso omaggio al cimitero di guerra in cui sono seppelliti i caduti della X Mas.

Sulla gravità di questo atto istituzionale, rimando all’articolo linkato qui sopra: l’Italia si rivela ancora una volta incapace di fare i conti con il proprio passato e di esprimere una condanna non effimera per un regime dittatoriale che si è macchiato di crimini enormi contro l’umanità.

Del resto, la giustificazione addotta dal sindaco – «Il 2 novembre si commemorano tutti i morti» – ha il torto di equiparare chi in buona fede ha lottato per la libertà e chi, magari sempre in buona fede, quella libertà ha lottato per soffocare.

Il tempo rimargina le ferite, ma non cancella colpe e responsabilità, e chi per il proprio operato meritava infamia settant’anni fa non può aver ricevuto, dal tempo, alcuna riabilitazione.

>>> Sul caso di Milano leggi l’articolo Onorare i carnefici.
>>> Nel blog, leggi anche Un Paese che non impara dalla storia.

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Festeggiare la guerra

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Al di là del titolo polemico, mi rendo perfettamente conto che in uno Stato democratico il cui esercito ha – secondo il dettato costituzionale – compiti eminentemente difensivi non c’è alcuna ragione per cui le Forze Armate non debbano avere una loro festa.

La data scelta, il 4 novembre (del 1918) corrisponde alla fine della prima guerra mondiale lungo il fronte italo-austriaco, con la «Vittoria» dell’Italia sull’Impero austro-ungarico.

La festa, in origine, rappresentava proprio la celebrazione di quella «Vittoria», dopo un conflitto che causò un milione e 240mila morti, tra militari e civili, nella sola Italia (il 3,48% della popolazione complessiva italiana dell’epoca) e tra 16 e 17 milioni in tutto il mondo.

Non una gioiosa presa d’atto della fine di una carneficina di proporzioni immani, insomma, ma una giornata di orgogliosa celebrazione della propria bravura da parte di uno Stato e del suo esercito «vittorioso».

Dal 1918 a oggi, l’esercito regio prima e successivamente quello repubblicano si sono distinti per la partecipazione a buona parte delle guerre combattutesi tra Europa, Asia e Africa, dalla conquista fascista dell’Etiopia al secondo conflitto mondiale, alle più recenti «missioni militari» in Iraq (prima e seconda Guerra del Golfo), Serbia, Afghanistan, Libia, eccetera eccetera eccetera.

L’Italia che oggi «ripudia la guerra» (art. 11 Cost. it.) partecipa in realtà a tutte le principali operazioni belliche statunitensi, fornendo supporto logistico (basi sul territorio della Penisola, dalle quali decollano i bombardieri americani) e militare in senso stretto (uomini e mezzi).

L’Italia e il suo esercito partecipano insomma a «missioni» che si svolgono a centinaia o migliaia di chilometri di distanza dai confini nazionali, secondo un’idea di «difesa» del territorio quantomeno elastica.

Questo, non altro, è, e questo fa l’esercito italiano alla data di oggi, 4 novembre 2016. Queste sono le Forze Armate che si preparano a festeggiare e che anche noi cittadini siamo chiamati a festeggiare nelle iniziative organizzate nelle varie città.

Iniziative alle quali parteciperanno molte istituzioni scolastiche, aderendo a festeggiamenti che per l’occasione sono stati presentati come una «commemorazione delle vittime di tutte le guerre».

Alunni di scuola elementare e media si troveranno a sfilare in corteo insieme alle autorità civili, militari e religiose per ricordare le vittime, ma di fatto parteciperanno alla celebrazione di quelle Forze Armate che, a livello simbolico e non solo simbolico, sono responsabili delle citate vittime, perché sono gli eserciti, non altri, a combattere materialmente la guerra.

Io credo che non si dovrebbero mai portare bambini e ragazzi in mezzo alle divise, se non addirittura in mezzo a uomini armati. Ma credo soprattutto che non sia il compito della scuola mostrare l’esercito come una realtà “normale”. Mi rendo conto che lo è, in quanto prevista dal nostro ordinamento. Ma non credo che farei un favore a nessun futuro adulto, suggerendogli – sia pure indirettamente – che il lavoro di chi fa la guerra sia una strada percorribile.

In guerra talvolta si muore, e in ogni caso si contribuisce a uccidere.

>>> Sull’assurdità della guerra, trovo bellissima la poesia «Familiale» di Jacques Prévert, che potete trovare, ad esempio, QUI. (PS: Leggetela tutta in francese o tutta in italiano: il sito sovrappone originale e traduzione, il che risulta un po’ fastidioso)
>>> L’immagine di questo articolo è un fotomontaggio di Paolo Rey su un disegno di Danilo Cavallo.

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Onorare i carnefici

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Onorare i carnefici, si tratti di una scelta politica o del fatto che una corona funebre il giorno di Ognissanti non si nega a nessuno, significa una cosa molto semplice, e cioè, banalmente, onorare i carnefici: non prendere le distanze dai loro atti, insultarne le vittime.

È molto in voga dire che i morti sono tutti uguali. Eppure, che si tratti di una scelta ideologica o di semplice disattenzione (ah ah), la corona deposta martedì a nome del Comune di Milano al campo 10 del Cimitero Maggiore costituisce un atto gravissimo.

Davvero gravissimo è infatti che un’istituzione pubblica pensi a ricordare ufficialmente i defunti di quel campo: 921 caduti della Repubblica Sociale Italiana, 9 volontari italiani delle SS, più di 150 delle Brigate Nere, più di 100 della Legione Ettore Muti e una quarantina della X Mas.

Davvero gravissimo è il fatto che un’istituzione pubblica pensi a ricordare ufficialmente chi è caduto per perpetuare la dittatura, dare la caccia agli italiani antifascisti, inviare gente inerme nei campi di sterminio nazisti.

Un fatto del genere, a mio parere, equivale a schierarsi per una parte politica che è stata sì sconfitta dalla Storia, ma che è sopravvissuta in decine di sigle neofasciste che sono state o sono tuttora attive nell’Italia repubblicana nata dalla Resistenza.

Significa non avere ancora fatto i conti con il proprio passato, in un Paese dove l’immagine del “Duce” campeggia su calendari e accendini, e non si è mai smesso di invocare governi forti e “uomini della provvidenza“.

Significa non avere maturato un’idea precisa di che cosa sia la democrazia e di che cosa essa comporti.

>>> Leggi, sull’episodio della corona funebre, l’articolo di Repubblica.
>>> Nel blog, leggi anche Un Paese che non impara dalla Storia.
>>> Sulla commemorazione della X Mas a Nettuno (Roma), leggi l’articolo Onorare i carnefici (2).

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Passi

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Una poesia nuova, dal titolo provvisorio, con qualche cambiamento ancora possibile. L’ho presentata allo ZEI – Spazio Sociale di Lecce domenica 30 ottobre, durante lo spettacolo «SPOKEN!» di e con Massimo Pasca e Emanuele Flandoli. Spettacolo che cito principalmente perché mi è piaciuto e perché credo che circoli e locali un poco intelligenti non dovrebbero lasciarselo scappare.

Passi

Mentre seguivo, timoroso, i binari del treno invasi dalle erbacce, puntando dritto verso il rosso, che preparava a questa notte il cielo, venni sorpreso dalla dura

masticazione degli organi interni del mio corpo
da parte di timori radicati,
inveterati e conficcati nella carne viva,
in ogni fibra intima nascosta,
ma non nascosta bene al mio sentire.

Muovevo i passi avanti con cautela, e quell’angoscia d’essere mortale celava agli occhi miei questa banale verità, che in fondo non appartiene al mondo la causa degli affanni, a questo mondo esploso, in guerra con il mondo:

è dentro.

dentro, la causa.

dentro, la causa vera

di questa irrequietezza che mi torce lo stomaco.

Dentro, e poi indietro, fino agli anni verdi dell’infanzia,
quando significava molto quel tuo foglio bianco
per compito riempito con la strada che si perde
all’infinito (le linee convergono in un punto
lontano, all’orizzonte) e intanto è sera e il sole cala
e hai disegnato anche le case – tutti palazzi di periferia –
e con i trasferelli hai dato vita alle persone.

Dentro, l’angoscia; perché – tu ti dicevi – avresti fatto tutto, cambiato il mondo al tuo passaggio, e i sogni, che tenevi nel corsetto, han fatto posto – tardi o presto – al resto, e ti sei perso nelle ipocrisie del testo.

***

Così ritorno a questi miei binari abbandonati;
proseguo verso il sole che si abbassa all’orizzonte,
finché, nel muovere dei passi, avverto il corpo vivo.

[Mario Badino]

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Un Paese che non impara dalla storia

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Il titolo poteva essere più ad effetto, ad esempio «Bregovic divide cantando Bella Ciao», oppure «Polemiche per i “soldi pubblici per Bella Ciao”», com’è accaduto a Ostuni (Brindisi), a causa dei commenti di alcuni esponenti della destra cittadina all’indomani del concerto di Goran Bregovic, che ha concluso in piazza i festeggiamenti del santo patrono.

«Un Paese che non impara dalla storia» mi sembra però un titolo più adeguato, se si considera il tenore – basso – di queste polemiche.

Alcuni personaggi politici della città, infatti, si sono sentiti «indignati» per aver dovuto ascoltare, durante il concerto, una canzone che nel corso degli anni è diventata simbolo di una parte politica, la sinistra antifascista.

Sessantun anni dopo la Liberazione dal nazifascismo, in questo Paese non si sono ancora fatti i conti con il passato, per cui appare legittimo, ad alcuni, negare il valore storico della Resistenza partigiana nel superamento di un regime antidemocratico, razzista e guerrafondaio e nella successiva costruzione di una democrazia che, se anche non è perfetta, garantisce comunque un insieme di libertà un tempo inimmaginabili, e che, in altri contesti, sono spesso rivendicate anche da quelle persone che oggi si indignano perché un artista, pagato con soldi pubblici, decide di cantare «Bella Ciao», che della Resistenza è il canto-simbolo.

Peggio ancora, non si vuole accettare l’idea che gli «Italiani brava gente» abbiano costruito un regime totalitario che si è macchiato di crimini contro l’umanità, ben prima dell’alleanza con la Germania nazista. Non si vuole rinunciare all’idea – falsa – che l’Italia fascista fu «una dittatura all’acqua di rose». Non si vuole rendere il merito della loro azione a tutti quegli oppositori del regime che furono incarcerati, confinati o costretti all’esilio (ancora oggi a Vittorio Feltri è consentito scrivere sulle pagine di un quotidiano nazionale della bonarietà del regime fascista nei confronti degli oppositori, mandati in vacanza sull’isola di Ventotene – e badate che a Feltri non dovrebbe essere possibile scrivere queste cose non per una forma di censura dall’alto, ma per una reazione indignata dei suoi stessi lettori che naturalmente non c’è stata).

Insomma: qual è il giudizio complessivo di questo Stato su Mussolini e il suo operato? Quale il giudizio su chi mise in gioco la propria vita per sconfiggere la dittatura e l’orrore? «Bella Ciao» è una canzone potente, che esprime la fierezza della lotta per la libertà. Come simbolo della Resistenza, non dovrebbe offendere nessuno fra quanti si riconoscono nella Costituzione di questo Paese, che è nata dalla lotta antifascista. Non si tratta, insomma, di una canzone di partito o di una sola parte politica: «Bella Ciao» dovrebbe poter essere cantata da chiunque abbia a cuore gli ideali sui quali fondiamo la nostra democrazia.

Questa volta la polemica è stata innescata da un consigliere comunale di Fratelli d’Italia, partito che, circa la storia del Ventennio, forse non ha esattamente le idee che ho appena esposto (anche se a Ostuni si trova in maggioranza con il PD, che invece della storia della Resistenza dovrebbe – dovrebbe – essere erede). Qualche anno fa, ad Aosta, all’altro capo della diagonale nord-ovest/sud-est d’Italia, in occasione dei festeggiamenti per il 25 aprile, a prendersela con «Bella Ciao» era stato l’esercito, che aveva dichiarato l’incompatibilità della propria presenza in piazza con l’esecuzione di brani musicali non compresi negli inni ufficiali (vedi il post). Credo si tratti, in un caso come nell’altro, della prova della non ricomposizione della comunità nazionale intorno a un insieme di valori condivisi corrispondenti a quanto espresso dai principi contenuti nella legge fondamentale dello Stato, quei principi ai quali dovremmo – dovremmo – conformare il nostro agire pubblico e sociale.

Del resto, i tentativi di fare i conti col passato si sono spesso ridotti, negli ultimi anni, all’equiparazione impossibile tra partigiani e repubblichini di Salò, vale a dire tra quanti lottarono per la libertà del Paese e quanti invece (che importanza ha se in buona fede?) si impegnarono per perpetuare il regime del Capo supremo, delle leggi razziali, delle imprese belliche, fino a fiancheggiare le SS nella loro opera di repressione, di rappresaglia contro i civili, di rastrellamento degli ebrei da inviare ai campi di sterminio.

Ecco, un Paese che non impedisce di mettere sullo stesso piano cose così diverse è un Paese che ha qualche problema di identità, di memoria storica, forse di semplice istruzione.

>>> Nel blog, leggi anche l’articolo Onorare i carnefici.

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Propositi – Vignetta di Mauro Biani

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Ripubblico la vignetta di Mauro Biani uscita sul «manifesto» del 25 agosto. Il titolo, «Propositi», è un vero e proprio programma.

Linko il sito dell’autore.

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Un momento – Vignetta di Mauro Biani

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Credo che dica più di tante parole. La ripubblico con il permesso dell’autore, Mauro Biani, del quale linko il sito. Io quello che avevo da dire sulla vicenda l’ho detto QUI.

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