Perché l’11 settembre 1973 nacque il mondo nel quale viviamo [da Giornalismo Partecipativo]

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Copio e incollo da Giornalismo Partecipativo un articolo di Gennaro Carotenuto. L’11 settembre 1973 avvenne il colpo di stato di Pinochet in Cile. Ciò che ne seguì è l’emblema di ciò che il mondo è oggi. Mi sono permesso di aggiungere qualche grassetto.

Perché l’11 settembre 1973 nacque il mondo nel quale viviamo
di Gennaro Carotenuto

Sarebbe bello poter dire che il «pueblo unido» abbia infine vinto in Cile e che le grandi vie dove passano gli uomini liberi si siano riaperte, come aveva vaticinato Salvador Allende nel suo altissimo discorso a braccio dallo studio della Moneda dove di lì a poco si sarebbe tolto la vita a testimoniare il suo sacrificio in nome della legalità, della democrazia e del popolo cileno. Allo stesso tempo sarebbe stato bello che quel «no pasarán» della guerra civile spagnola si fosse concretizzato almeno nella fine della tirannia franchista al momento della sconfitta del nazi-fascismo in Europa. Ricordare che Francisco Franco e Augusto Pinochet siano morti impuni nel loro letto non dice abbastanza di quanto questi abbiano trionfato. Lasciamo da parte il gallego e concentriamoci su quanto il Cile attuale sia ancora il trionfo pieno di Augusto Pinochet.

Oggi tre cileni su quattro dichiarano di non avere opinioni politiche. E questo è il trionfo più grande della dittatura e non solo in Cile iniziò un riflusso nel quale la militanza politica perse il senso che aveva avuto nei due secoli precedenti. Più della metà si considerano dei «perdenti» del modello economico vigente, quello neoliberale, ma la maggior parte di loro non saprebbe indicare un’alternativa o una maniera di mitigare le disuguaglianze. Non si considerano vittime. Incolpano se stessi dell’essere perdenti, perché non hanno saputo cogliere le enormi opportunità di uno dei paesi più aperti al mondo. Soprattutto sono stati indotti a pensare che tale modello sia naturale e che governi l’umanità dal tempo di Adamo ed Eva. Le ingiustizie non sono più ingiustizie. Semplicemente così va il mondo e chi siamo noi per pensare di cambiarlo?

I governi democratici succedutisi alla fine della dittatura hanno amministrato bene l’eredità pinochetista, diligentemente pattuita con la transizione che lascia intatta la costituzione scritta dal tiranno. In un paese ordinato, luccicoso di modernità, la forbice tra ricchi e poveri (il 10% più ricco possiede quasi il 60% delle ricchezze, quello più povero un quarantesimo) è costantemente aumentata anche negli ultimi decenni. Non è compito della democrazia ridurre le disuguaglianze. Come buoni amministratori di condominio gli inquilini della Moneda devono far andare bene le cose, cambiare le luci delle scale, assicurare la lucidatura dei pomelli delle porte, rassicurare gli investitori stranieri su quante poche tasse pagheranno e quanto pochi diritti hanno i lavoratori. Se dovessimo indicare una riforma civile in quasi un quarto di secolo di governi «riformisti» viene ancora in mente l’introduzione del divorzio da parte di Ricardo Lagos.

In Cile Milton Friedman e i suoi Chicago Boys, oltre un lustro prima che divenisse mondiale la rivoluzione conservatrice di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, dimostrarono che al massimo di libertà economica potesse corrispondere il minimo di libertà civili. Quel giorno alla Moneda non poteva essere chiaro a Salvador Allende dove il mondo stesse andando. Lui, un uomo figlio della Seconda internazionale, entrato in parlamento durante la guerra civile spagnola, che credeva fermamente che il socialismo potesse essere realizzato in pace, libertà e democrazia, non poteva neanche immaginare che il golpe significasse chiudere scuole e ospedali, privare gli anziani di pensioni dignitose, espellere con rette altissime chiunque non fosse figlio delle classi dirigenti dalle università.

Allende non fa in tempo a sapere e non teme che il neoliberismo, che sarà la cifra della dittatura militare, spazzerà via la convivenza civile così come lui la concepisce. Confida nei sindacati, nei partiti, nelle rappresentanze di classe e non sa neanche immaginare una società non mediata da quelle strutture. Don Salvador pensava che nel Cile e nel mondo nessuno dovesse essere lasciato indietro ed era la punta più avanzata di un pensiero umanista che ha attraversato tutta la nostra modernità per finire bombardato quel giorno alla Moneda e divenire inattuabile e fuori moda. Il mondo che venne dopo, il mondo nel quale viviamo, pensa che sia giusto, naturale, utile lasciare indietro moltitudini. Non è un caso che laddove il medico Allende aveva concesso a tutti i bambini cileni la giusta razione quotidiana di latte una delle prime “riforme” di Pinochet fu negare quel latte a milioni di bambini che non potevano permetterselo.

Con quali parole dovremmo spiegare a Salvador Allende il Cile attuale nel quale i ricchi hanno una sanità privata tutta per loro e non contribuiscono affatto alla sanità pubblica alla quale sono condannati i poveri con le classi medie che si svenano per avere accesso a servizi migliori? Con quali parole dovremmo spiegare a Víctor Jara un’università del Cile sventrata, esclusiva ed escludente?

Smettete di far girare sul piatto quel vecchio vinile degli Inti-illimani che avete tirato fuori dalla soffitta stamane. Il Cile attuale, il mondo attuale, l’Italia attuale sono il trionfo di Augusto Pinochet.

>>> L’immagine è tratta dall’articolo originale.

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