Negli ultimi tempi sembra che l’efficientismo sia diventato la virtù decisiva, in politica come già nell’economia. Nel (disgustoso) lessico politico italiano è entrato in uso il termine governance, con il quale si indica l’esigenza (vera) di poter prendere decisioni in tempi brevi e senza dovere ogni volta mettere tutto in discussione. Il problema è che, spesso, la governance si traduce nel desiderio del governo per il governo, dove non importa che cosa si vuol fare, quanto il fatto di farlo. Un esempio su tutti: il Partito democratico. L’errore del PD non è mettere in soffitta un’alleanza disomogenea e incapace di durare. Ma tanto i Ds quanto la Margherita avevano sottoscritto il famoso programma dell’Unione: dal momento che quelli che si presentano come il nuovo che avanza sono anche quelli che in due anni non hanno realizzato ciò che avevano promesso, oggi Veltroni pensa di galvanizzare gli animi convincendoci che ciò che non ha funzionato prima funzionerà ora perché, correndo da soli, non è possibile litigare. Tutto ciò (per ragionevole che sia) non spiega in alcun modo che cosa si intenda realmente fare delle promesse, vecchie e nuove, quale sarà il destino delle leggi ad personam approvate dal governo di centrodestra e mai cancellate da quello di centrosinistra, del conflitto d’interessi, del riscaldamento globale e di tanto altro ancora. Non spiega in che cosa il nuovo che avanza dovrebbe differenziarsi dalla politica di un eventuale governo targato PDL, soprattutto riguardo ai temi della crescita del PIL (oggi l’ideologia trasversale agli schieramenti), alla laicità dello Stato e a situazioni calde, che vedono le comunità locali in lotta con la politica istituzionale per difendere se stesse e il proprio territorio.
Anzi, a ben vedere, che cosa pensi il PD riguardo alla base di Vicenza, agli inceneritori, alla Tav, eccetera eccetera, è perfettamente noto e non esattamente alternativo, per dirne una, al credo del Cavaliere. Quindi, se è vero che il novello bipartitismo favorirà la governance, a farne le spese saranno le idee e, com’è ovvio, le differenze. Si guardino gli Usa, dove da decenni democratici e repubblicani producono Presidenti assolutamente simili. D’altro canto, sarebbe impossibile continuare a barcamenarsi con esecutivi che non riescono a decidere, che mancano di una visione della società e (è vero) dei numeri parlamentari per tradurla in azione di governo.
Sulla Stampa del 19 febbraio, un articolo di Gabriele Ferraris invita a non cedere alla tentazione di una democrazia referendaria.
Avete visto – dice il giornalista – com’è finita
con il referendum di Firenze, a proposito del tram davanti al Duomo: alla
schiacciante maggioranza dei fiorentini della questione non importava né punto
né poco. Non sono andati a votare. La gente elegge i politici per esserne
amministrata; ciò fatto, preferirebbe non venir importunata quotidianamente da
quei bamboccioni indecisi a tutto, che ad ogni stormir di fronda non trovan di
meglio che correre a consultare il popolo, spendendo barcate di soldi altrui
per sgravarsi di qualsiasi responsabilità.
A causa di questo articolo, qualche giorno fa ho arruolato Ferraris tra gli "efficientisti", coloro i quali pensano che l’importante sia fare, che le proteste delle comunità locali siano caratterizzate da malafede e costituiscano in sostanza una perdita di tempo. Probabilmente Ferraris è onesto nel suo desiderio di una maggiore governabilità. All’interno di un sistema rappresentativo è cosa ovvia una delega di sovranità da parte dell’elettore a chi, dalla Costituzione, è indicato come suo rappresentante. Tuttavia, la crisi politica italiana e la percezione degli ambiti istituzionali più vari come luoghi (e domini) della casta, contribuiscono a spiegare per quale ragione convinca sempre meno la necessità di un’autonomia decisionale da parte di chi governa. Infatti, l’autonomia non può diventare arbitrio, pena la trasformazione della democrazia in una forma di governo decisionista e autoritaria, all’interno della quale si vota, è vero, ma fra tanti simboli uguali, senza poter controllare in alcun modo i propri rappresentanti. Della democrazia rimarrebbero i diritti, ma fino a quando? La cosiddetta emergenza terrorismo ha spalancato le porte a una limitazione delle libertà individuali che molti cittadini occidentali hanno trovato necessaria. In alcune aree del mondo, i rappresentanti delle moderne democrazie euroamericane hanno reintrodotto pratiche di tortura. Anche in Italia, l’allarme sicurezza ha prodotto risultati non certo esemplari sul rispetto delle differenze culturali e ha innescato forme di discriminazione di chi viene percepito come estraneo, dallo straniero clandestino al rom.
Assistiamo, mi sembra, a una deriva antidemocratica, che colpisce con poche differenze tutti i partiti principali (anche la sinistra arcobaleno, incapace, in due anni di legislatura, di tener fede ai propri impegni elettorali e di accordarsi, almeno su pace e lavoro). Partiti che, oltretutto, hanno cambiato divisa in vista delle prossime elezioni, senza però raccogliere le firme prescritte dalla legge per presentare le liste. Da questo punto di vista, tanto il PD quanto il PDL, tanto la Sinistra-L’arcobaleno quanto Sinistra critica di Cannavò e Turigliatto sarebbero illegali se non fosse stato deciso di risparmiare la raccolta firme a chi ha già un senatore e un deputato in Parlamento. Sistema che obbliga invece il Partito Comunista dei Lavoratori di Marco Ferrando a raccoglierne 2 mila per ogni circoscrizione. Se si dà per un fenomeno reale la degenerazione della cultura democratica all’interno della vita politica (non solo) italiana, che antidoto si propone? La voce di chi denuncia, infatti, è spesso bollata come antipolitica (e forse lo sarebbe, se si limitasse a condannare).
Io guardo con estremo piacere (e speranza) alle realtà locali, alle comunità di cittadini che lottano per difendere il proprio territorio. Sono consapevole della necessità di una rappresentanza politica (a tutti i livelli) e ritengo che difficilmente i cittadini di Vicenza o della Val di Susa possano farcela da soli. Mi auguro che, presto o tardi, nonostanze gli egoismi e le resistenze della casta, i movimenti riusciranno a rinnovare davvero la politica e i partiti. In questo senso mi guardo bene dall’auspicare la fine del dialogo tra i movimenti e quelle forze che sono meno restie ad accoglierne le istanze. Con il governo Prodi, la delusione è stata grossa. Con Veltrusconi (chiunque dei due esca vincitore dalle urne) non cambierà nulla. Ora bisogna ricostruire, a sinistra del PD, una sinistra che sia alternativa al modello oggi condiviso di società liberista fondata sulla crescita. Credo che il candidato premier Bertinotti e poi Giordano, Diliberto, Mussi e Pecoraro Scanio avrebbero fatto bene a dare un segnale di rottura con il passato dimettendosi o quanto meno affidando la guida della nuova realtà politica a qualche soggetto nuovo, magari non compromesso con l’azione di governo di questa legislatura: ad esempio, un indipendente dei movimenti.
Intanto che i partiti decidono come ritrovare identità e voti, mi sembra che non si possa considerare antipolitica la politicizzazione del cittadino. Ho fiducia nei movimenti, nei referendum e persino nelle liste di Grillo, perché l’impegno civico va considerato un fattore positivo. Le parole di Gabriele Ferraris, citate qui sopra, circa il referendum cittadino sul grattacielo Intesa – San Paolo
mi hanno inizialmente urtato per il tono, che ho percepito come
arrogante. Ho tenuto a rettificare il mio giudizio perché credo alla
buona fede di Ferraris. Ma penso che se i «bamboccioni» che ci governano, quelli «che ad ogni stormir di fronda non trovan di
meglio che correre a consultare il popolo, spendendo barcate di soldi altrui
per sgravarsi di qualsiasi responsabilità», sentissero davvero il rispetto della volontà popolare che il meccanismo consultativo,
contutte le sue lentezze, presuppone, noi non avremmo città sul piede
di guerra (spesso nonviolenta, ma sempre guerra), come Vicenza, o
regioni militarizzate, come la Campania del Commissario De Gennaro.
Alla lunga, accettare che riguardo a
certe questioni la popolazione possa esprimersi direttamente col voto non è soltanto più democratico, permette
anche un’efficienza maggiore. I costi e le lungaggini del referendum
non sono nulla, se paragonati agli anni di mora oggi vissuti nel
conflitto sociale, con le opposte parti confinate nell’incomunicabilità
più assoluta. I vicentini hanno chiesto di votare. Gli Amici del
Vallone di Comboé (un vallone montano nel comune di Charvensod, in
Valle d’Aosta) hanno chiesto di votare. La risposta è sempre no, nel
nome del principio di rappresentanza e della necessaria autonomia della
politica. Eppure, si converrà, rifiutare di consultare i propri rappresentati nel nome del concetto di rappresentanza costituisce un controsenso.
Apparentemente, nel suo articolo Ferraris mette il dito nella piaga quando parla del continuo fallimento dello strumento referendario, che raramente raggiunge il quorum richiesto per la sua validità. Ciò è stato vero, lo scorso novembre, anche in occasione del primo referendum propositivo tenutosi in Italia, in Valle d’Aosta, dove la scelta del cittadino (se il quorum fosse stato raggiunto) sarebbe stata vincolante e avrebbe imposto al Consiglio regionale una semplice ratifica delle proposte di legge oggetto di voto. Il modo per impedire che la disaffezione dei votanti trasformi un momento importante di scelta in uno spreco di pubblico denaro c’è, è semplice e consiste nell’eliminare ilquorum. Si tratta di un’idea logica, che avrebbe il vantaggio di ridare valore ai referendum e di responsabilizzare la cittadinanza: è giusto che a decidere sia chi va a votare, non chi resta a casa. E se i votanti sono tre è giusto che siano in tre a decidere. In molti Paesi del mondo, infatti, il quorum non esiste. La Svizzera prende tantissime decisioni con il meccanismo della consultazione popolare. Chi pensa che il popolo sia bestia, dimentica che il cittadino va responsabilizzato. Quanto si dice qui non sarà mai una panacea: sarebbe però un modo per mettere d’accordo le istanze degli "efficientisti" e quelle di chi non accetta l’imposizione dell’ideologia oggi dominante e delle sue conseguenze (a prescindere da chi governi). A Torino, un grattacielo di 150 metri di altezza cambierebbe completamente il paesaggio (quel paesaggio tutelato dall’articolo 9 della Costituzione italiana), introdurrebbe una struttura energivora, che proietterebbe la sua ombra su vie e abitazioni e creerebbe il precedente di una deroga al piano regolatore per favorire l’interesse privato di una banca. Un grattacielo stravolgerebbe la fisionomia urbana e architettonica di una città dall’identità ben definita e aprirebbe la strada ad altri grattacieli. Vi piacciono i palazzoni? Fatevi un giro a Milano. Come si fa a dire che quella dei grattacieli sia una questione "stucchevole", come vorrebbe Ferraris, indegna di essere materia di un referendum?
Lasciando da parte il caso di Torino, questo blog rilancia una sua proposta politica: l’introduzione, in tutta Italia, del referendum propositivo e la parallela abolizione del quorum. Clicca per firmare.
Del grattacielo Intesa – San Paolo si parla anche negli articoli:
Torino: Sostieni il referendum cittadino sul referendum Intesa – San Paolo
Al panzerotto impazzito
Clicca per conoscere il referendum propositivo in Valle d’Aosta
Firma la petizione on line per introdurre il referendum propositivo e abolire il quorum.
Visita il sito del comitato Non grattiamo il cielo di Torino.
Ho letto il tuo intervento e ho trovato dei punti di riflessione. La prima considerazione che mi viene in mente è che in Italia e in VDA siamo molto bravi a criticare i nostri compagni di coalizione: la sinistra su questo è veramente maestra. Il PD non è sicuramente la settima meraviglia, è un partito pieno di contraddizioni interne, ha degli esponenti stile Binetti e ha degli esponenti stile Bonino, passando per Rutelli, ma sono strati i nostri compagni nel governo Prodi. A sinistra c’è l’Arcobaleno (leggermente diverso nella nostra Petite patrie VDA), che finalmente ha raggruppato i vari movimenti dando loro una certa consistenza e credibilità. Bisogna però rendersi conto che non siamo più negli anni “50, “60 e neppure “70, quindi basta con gli slogan obsoleti ma la sinistra deve essere qualcosa di concreto e meno demagogico. Bisogna quindi cercare di colloquiare in modo sereno e proficuo per il paese con il PD (che neppure a me piace, ma…..non vedo alternative!)
L’Arcobaleno dovrebbe cercare di portare avanti quattro punti fondamentali per il cambiamento del paese:il vero laicismo nelle istituzioni, nelle scuole, nel mondo del lavoro, ecc., il conflitto di interessi da sviscerare e legiferare in modo chiaro, il clientelismo da abolire in ogni sua forma e per terminare iniziare a ragionare su come si può coniugare la ripresa economica senza uccidere i cittadini. Per l’ultimo punto rendendosi conto però di alcune richieste della popolazione sono a volte fuori dalla logica e anche una forza di sinistra lo deve ammettere. Faccio un esempio: le pensioni: parità dell’età pensionabile tra uomini e donne, mi pare ovvio, non si può considerare usurante il lavoro dell’insegnate, e via di seguito; la pensione è la sussistenza per la vecchiaia, grazie a Dio un uomo o una donna attualmente a 55/60 non è assolutamente vecchio (non parlo di lavori realmente usuranti).
Il mio umile messaggio è quindi cerchiamo di unire le forze con obbiettivi più comuni e diamo un’alternativa agli italiani in campo nazionale al PDL e vari pastrocchi filo-ecclesiastici, mentre il VDA si cerchi di creare un’alternativa all’UV partito-padrone responsabile dei peggiori malgoverni della storia.
Cara Lorella, ti risponderò in maniera dettagliata appena possibile. Anzi, mi permetterò di utilizzare il tuo commento per un nuovo articolo. Se l’alternativa secca è tra Veltroni e Berlusconi (o se l’alternativa secca è tra PD e UV) non ho molti dubbi su cosa scegliere. Ma non mi sembra che le varie realtà siano così diverse per quanto riguarda il che fare, al massimo si differenziano sul come.
Puoi usare il mio commento per fare un nuovo articolo, non ci sono problemi di sorta, anzi.
E’ chiaro che se l’alternativa è PD o PDL oppure PD e UV la scelta è scontata, ci mancherebbe. Penso invece che sia necessario cercare di creare una intesa tra il PD e l’Arcobaleno per poter essere più concreti e più vicini alla gente. Il PD è troppo spostato al centro e come ho già detto ha nel suo interno troppe contraddizioni, che volendole livellare lo porterà ad appiatirsi su tutte le riforme necessarie.
In valle d’Aosta poi abbiamo i partiti autonomisti:
RV (che conosco bene e che mi ha deluso profondamente, ma non voglio farne una questione personale) e VDV che possono essere una risorsa in più, ma attenzione perchè ormai i loro rappresentanti sono quasi totalmente stati unionisti e nel profondo lo sono ancora……….
quindi alleanza si ma con grande attenzione, perchè se si finisse in minoranza, farebbero una dura opposizione o cercherebbero le famose larghe intese tanto cercate da Perrin e Nicco?