Naturalmente certe cose sono già ben note, se appena hai l’abitudine di informarti un poco, guardando, magari, al di là delle veline del «Tg1» (la voce del padrone) e «Pomeriggio 5» (leggermente più attendibile, certo, ma incentrato su notizie decisamente secondarie).
Che il potere – i poteri costituiti – non siano “buoni” solo perché legali e tendano invece a fare l’interesse dei vari potentati, innanzitutto economici, è insomma risaputo e dirlo è un po’ scoprire l’acqua calda.
Ciò premesso, il grande pregio di siti come WikiLeaks è quello di mostrare le “prove” di quanto in fondo “si sa”, smascherando la falsità della retorica delle amministrazioni attraverso i loro stessi documenti riservati.
L’effetto, leggendo nero su bianco che cosa comportano concetti stupidamente accettati quali ineluttabili, come la «ragion di Stato» e l’«interesse nazionale» (pretesti, vieppiù, per fare i propri comodi calpestando il diritto o piegandolo al proprio comodo), l’effetto, dicevo, è di grande rabbia e, malgrado tutto, di semi-incredulità.
Non saprei in che altro modo definire l’impressione suscitatami dagli articoli di «Repubblica» del 18 febbraio, che mettono in luce, attraverso la pubblicazione di comunicazioni classificate dell’ambasciata Usa a Roma, l’analisi desolante di un Paese «sfortunatamente» in declino del quale però è possibile approfittare, offrendo al suo premier – ormai screditato in tutto il mondo – appoggio diplomatico in cambio, ad esempio, di un maggior numero di soldati in Afghanistan o della cessione di porzioni del territorio nazionale per la costruzione di basi militari a stelle e strisce, a cominciare dal Dal Molin di Vicenza.
Il tutto scritto e formulato con estrema semplicità, come se fosse naturale, per il Paese che definisce se stesso «la più grande democrazia del mondo» (il “buono” per antonomasia) sfruttare i guai di un Paese alleato, approfittare della situazione per favorire il proprio interesse nazionale, sperare – in fondo – che l’Italia non si riprenda dal berlusconismo, perché all’America conviene così.
Un presidente continuamente al centro di scandali come Berlusconi, insomma, deve «dire di sì a tutto», a ogni richiesta americana, se vuole continuare a recitare la parte dell’alleato “di peso”.
Al punto che le ingerenze statunitensi nella politica italiana, oltre a rispondere – forse – a un’abitudine che l’attuale inquilino dei palazzi Chigi & Grazioli ha interiorizzato all’epoca dell’amico Bush, oltre a costituire una conseguenza non insolita delle forti pressioni cui Washington sottopone abitualmente i propri alleati, è oggi anche un effetto della ricattabilità di un premier che naviga a vista e non vuole o non può mettere fine alla propria esperienza di governo.
Sono consapevole del fatto che quanto esposto qui sopra equivale, come dicevo, alla scoperta dell’acqua calda. Diciamo che ho voluto fare un breve ragionamento ad alta voce, sull’onda delle sensazioni suscitatemi dalla lettura dell’articolo di Repubblica (a firma di Fabio Bogo), che in ogni caso consiglio. Lo trovate QUI.
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