Inizio con l’ammettere le mie colpe: io in Val di Susa non c’ero.
Lo dico innanzitutto per scusarmi, perché avrei voluto e dovuto essere presente (e lo penso a maggior ragione ora che gli scontri hanno dato il pretesto ai media e al Palazzo per gettare fango sul movimento No Tav).
Lo dico anche per avvertire che ciò che scriverò non nasce da una testimonianza diretta, ma da semplici ragionamenti sulla vicenda.
A partire, ad esempio, da un articolo comparso sulla Stampa di lunedì 4 luglio, firmato da Michele Brambilla e intitolato «La differenza fra un treno e un golpe», che cito perché mi sembra esemplare di una maniera di distorcere la realtà che è ormai “sentire comune” per gran parte della popolazione.
Nel commentare i fatti della Val di Susa, Brambilla distingue tra «la manifestazione del mattino e quella del pomeriggio» – pacifica la prima, «con famigliole in corteo», violenta la seconda, «con i famigerati black bloc in azione» – proponendosi però di andare oltre la «considerazione scontata e banale» di una «differenza netta» tra «comitati No Tav» e «professionisti della violenza»: il suo intento, in realtà, è mettere sotto accusa «i toni, le dichiarazioni, i discorsi che purtroppo abbiamo sentito anche dai manifestanti non violenti».
Brambilla punta il dito contro chi parla «di militarizzazione della valle, di violenza di Stato, di polizia assassina» (per non dire dell’enfasi posta da Beppe Grillo sui manifestanti come «eroi» di una «guerra civile» contro la «dittatura» del regime – e possiamo tranquillamente non dirlo, dal momento che Grillo non è assolutamente né l’ispiratore, né la guida del movimento No Tav).
Ma di che cosa stiamo parlando?, si domanda Brambilla. E si risponde: qui non è in atto un golpe, ci si limita – mirabile riassunto della situazione – a scavare «delle gallerie per far passare un treno». E quindi: «Dove sono le prove di dittatura?». E poi la solita solfa per cui la decisione di fare la Tav non è attribuibile al presente governo, ma viene «da governi precedenti e di diverso colore» e dall’Europa, e dunque: «Che c’entra Berlusconi?» – come se una cosa fosse giusta o sbagliata non per se stessa, ma a seconda di chi la propone.
Il punto è che Brambilla non ha tutti i torti. Semplicemente gli sfugge la prospettiva. La «dittatura», infatti, quella contro la quale i comitati e i movimenti combattono pacificamente (e altri attori usano la violenza, talvolta, si badi, in perfetta buona fede), è solo incidentalmente quella incarnata dall’esecutivo attualmente in carica.
Il «regime», che non è un’esclusiva della destra (la polizia in Val di Susa per far partire i lavori l’ha chiamata Fassino e sgombrare un presidio con la forza è militarizzare una valle) è quel sistema che impone le scelte, decise sempre altrove, al di sopra delle teste dei cittadini, vale a dire delle persone che abitano i territori interessati, sia che si tratti di fare una ferrovia, sia che si pianifichi una base militare oppure le nuove forme dell’approvvigionamento energetico. Il «regime», in definitiva, è costituito dai poteri forti, dal connubio tra politica, lobby e criminalità organizzata che impone le «opere» e i metodi della loro realizzazione, inseguendo forme di “pensiero unico” capaci di trasformare chi non è d’accordo in bastiancontrari egoisti, incentrati sul proprio orticello.
Se da un lato è vero che «un’opera ormai decisa e deliberata non può essere messa in discussione all’infinito [non può esserlo sempre, correggerei, ma talvolta è doveroso]», come ha detto l’ex sindaco di Torino Chiamparino, citato nell’articolo in quanto “non berlusconiano”, è altrettanto vero che occorre chiedersi chi ha deciso e deliberato l’opera e nel nome di chi lo ha fatto. Perché molto spesso l’unico ammanto di democrazia di certe scelte consiste nel fatto che a votarle non è stato l’ingegner Tizio o l’avvocato Caio, ma sono stati l’onorevole Tizio e il senatore Caio, cioè due signori che – cattiva legge elettorale a parte – sono stati eletti dal popolo e, in quanto tali, sono suoi rappresentanti. Ciò che naturalmente esime detti Caio e Tizio dal chiedersi quale sia la volontà popolare di fronte a certe scelte, per arrivare al paradosso di decisioni prese contro il popolo nel nome del popolo.
In questo senso, caro signor Brambilla, la vicenda Tav non ha a che fare con un treno, ma propriamente con il concetto di democrazia. Solo che il golpe non sono (solo) i poliziotti che lanciano lacrimogeni ad altezza uomo (ma la polizia si è «difesa, certo: non doveva?»), anche se il livello di democraticità delle forze dell’ordine italiane sarebbe da sottoporre a un attento esame; il golpe è quando «le forme e i limiti» pensati dalla Costituzione per l’esercizio della sovranità popolare sono prevaricati non dal popolo, ma da chi è convinto che il mandato elettorale corrisponda a una delega in bianco.
Ma, «prima di dare il via all’opera, ci sono stati centinaia di incontri con i sindaci, variazioni del tracciato e via dicendo. Insomma, non si può dire che non si siano ascoltate anche le ragioni di chi era [era?] contrario». È dunque sufficiente, per essere democratici, spacciare per confronto il fatto di aver incontrato i cittadini, salvo poi rimanere della propria idea o accettare di apporre piccole modifiche che non ne cambiano in nulla la natura? È ascoltare le ragioni di chi è contrario istituire tavoli di confronto, osservatori, partendo dal principio che tanto poi quanto deciso si farà comunque? Lo Stato ha il diritto di provare a convincere la popolazione della bontà di un’opera, ma se non ci riesce ha il dovere di prendere in considerazione altre alternative, senza calpestare i diritti della popolazione, a cominciare da quello di partecipare alle scelte che riguardano la propria vita e il proprio territorio.
Rimane il fatto che da domenica media e politica hanno buon gioco a etichettare il movimento No Tav come violento, estremista, pericoloso e magari anche antidemocratico. È il consueto gioco orwelliano di modificare il linguaggio a seconda dei propri scopi, per cui fare la guerra (in Afghanistan, in Libia) è lecito se la si chiama pace, devastare un territorio è encomiabile se si parla di creare infrastrutture necessarie al nobile scopo di non restare “indietro” (ma indietro in cosa?) rispetto agli altri Paesi. Per questo a criticare la violenza dobbiamo più di ogni altro essere noi che abbiamo a cuore il proseguimento della lotta e che vogliamo evitare, come e quanto la Tav, la militarizzazione della valle.
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