“Cementificare” il pareggio di bilancio!

Non gli sarà sembrato vero, al governo, quando è scoppiata l’emergenza-Italia. Quante opportunità per fare i propri interessi e mettere le mani in tasca ai cittadini! Con la scusa del fare cassa a tutti i costi hanno potuto privilegiare i ricchi (neanche il contributo di solidarietà gli fanno pagare! un riguardo alla lobby dei calciatori?), hanno tartassato tutti gli altri, ballato un minuetto insulso e vomitevole sulle pensioni (con la Lega che finge di voler difendere chi ha lavorato una vita, dopo che da anni partecipa a governi che ci mandano in pensione sempre più tardi e con sempre meno soldi) e ora pensano di ricorrere all’ennesimo condono edilizio per raggranellare in fretta qualche spiccio in più.

«Il lupo perde il pelo ma non il vizio: ancora una volta gli emendamenti sfascia territorio sono stati presentati in maniera subdola, in un momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è ben concentrata su altre questioni – ha dichiarato il presidente nazionale di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza – Evidentemente, c’è chi pensa ancora di poter rimediare ai problemi di bilancio con la solita ricetta del condono edilizio e della svendita del territorio a scapito di tutta la collettività, negando qualsiasi ipotesi di sviluppo futuro al Paese».

Oltre al condono edilizio generalizzato “grazie” alle proposte di alcuni parlamentari Pdl è all’ordine del giorno in Senato la sospensione degli abbattimenti delle costruzioni abusive in Campania e ritorna la proposta del diritto di superficie per 90 anni per le aree demaniali, nonché l’allentamento dei vincoli necessari alla tutela dell’ambiente e dei beni comuni.

Che dire? In un Paese che avrebbe bisogno urgente di una ristrutturazione totale dal punto fi vista dell’assetto idrogeologico, e magari di un po’ di senso civico, è proprio quello di cui si sentiva il bisogno!

Ripropongo un mio vecchio racconto che mi pare adatto all’occasione…

>>> Nella foto, edifici abusivi sulla spiaggia.

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Succhiare petrolio al largo di Brindisi

Succhiare petrolio al largo di Brindisi. È quanto si appresta a fare l’Eni, attraverso la controllata Saipem SpA, che trasformerà una petroliera in impianto galleggiante per l’estrazione del greggio, ad appena 25 miglia dalla costa brindisina. L’impianto avrà una capacità di stoccaggio di 700 mila barili, mentre la capacità produttiva raggiungerà i 12 mila barili al giorno. Le attività di estrazione saranno avviate, nel silenzio generale, nel quarto trimestre del 2011, vale a dire tra due, tre settimane al massimo.

13 mesi fa il ministro italiano degli esteri esprimeva la propria preoccupazione per le trivellazioni nel Golfo della Sirte autorizzate dall’allora leader libico (e buon amico dell’Italia) Mu’ammar Gheddafi a vantaggio della compagnia petrolifera Bp, quella dell’incidente alla Deepwater Horizon, il più catastrofico di sempre, quello – in buona sostanza – di cui ci siamo ormai dimenticati perché i media non ne parlano più. «Se un incidente come quello avvenuto nel Golfo del Messico si verificasse nel Mediterraneo» aveva dichiarato Frattini «sarebbe una catastrofe irreparabile, perché il Mediterraneo è come un lago». Di questo «lago» l’Adriatico non è che una minuscola appendice.

La salute dell’Adriatico, del resto, è già minacciata da altre possibili trivellazioni, ad esempio al largo delle isole Tremiti, ma tutto il Meridione d’Italia è finito sotto le mire delle compagnie petrolifere, tanto in mare – si pensi alla Sicilia – quanto sulla terraferma – ancora in Sicilia, in quel Val di Noto che l’Unesco ha definito patrimonio dell’umanità, e in Basilicata.

Per quanto riguarda Brindisi e il suo territorio, abbiamo a che fare con una terra già martoriata dalla presenza di industrie legate alla produzione di energia (due centrali a carbone, un Petrolchimico, il progetto, fortemente sostenuto da alcuni, di realizzare anche un impianto di rigassificazione). Una città cui il documento programmatico preliminare propedeutico al nuovo Piano urbanistico generale, approvato dal consiglio comunale lo scorso 25 agosto, imporrebbe di «individuare la via per un rinnovamento che può agevolare uno sviluppo positivo e contrastare gli insediamenti e le attività ritenute nocive come l’eccesso di produzione energetica da fonti fossili».

Sono anni che i comitati cittadini denunciano le inadempienze Continua a leggere

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Strane cose accadono in Italia (presentazione)

Strane cose accadono in Italia.

Da qualche giorno sto titolando in questo modo alcuni episodi che si scostano, nel bene o nel male, dalla rappresentazione anestetizzata che del Paese viene fornita dai media.

Gli incidenti industriali di cui non si sa niente, come l’ultima fiammata del Petrolchimico di Brindisi; l’umanità rinchiusa in gabbia per mancanza di documenti in regola; le grandi opere inutili, costose e impattanti, imposte sulla testa e sulla pelle della gente.

Ma ci sono anche gli atti di resistenza, talvolta al limite dell’eroismo, quelli che uno si aspetta di trovare soltanto nei film.

Un attivista No Tav si arrampica su un albero e vi resta per giorni per protestare contro la militarizzazione del territorio. Una donna cerca di “convertire” le forze dell’ordine, schierate in tenuta antisommossa in Val di Susa, esortandole a pensare con la loro testa, a non servire i soliti poteri forti contro il proprio interesse e quello dei cittadini.

Sono queste cronache e narrazioni che voglio raccogliere in una nuova categoria, intitolata appunto Strane cose accadono in Italia.

Voi le trovate QUI.

PS: Pare che questo articolo sia il millesimo del blog!

>>> Nell’immagine, la statua di Domenico Modugno a Polignano a Mare (Bari).

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Lettera aperta al governatore della Puglia – di Alberto Lucarelli e Ugo Mattei

Quello che segue è il testo della lettera aperta a Nichi Vendola uscita sul manifesto del 31 agosto, scritta dai giuristi Alberto Lucarelli e Ugo Mattei allo scopo di spingere il governatore della Puglia a impugnare il “Decreto di Ferragosto” presso la Corte Costituzionale, in difesa di quei beni comuni oggetto del referendum del 12 e 13 giugno che il governo intende privatizzare con la scusa della crisi, nonostante il parere contrario di oltre 27 milioni di italiani.

Nella loro lettera, Lucarelli e Mattei si mettono a disposizione per rappresentare la Regione Puglia davanti alla Corte, naturalmente a titolo gratuito. La richiesta a Vendola non è dettata da ragioni di appartenenza partitica, ma dipende dal fatto che «nel nostro ordinamento una Regione, e non il Comune, può impugnare una legge o atto avente forza di legge di fronte alla Corte Costituzionale».

Difficilmente un governatore diverso da Vendola accetterebbe quanto proposto dai due giuristi, ma sarei contento se fossi smentito e se anche gli altri Presidenti si volessero unire a quello della Puglia in un’azione capace di coinvolgere l’intero Paese, compresa la mia regione, la Valle d’Aosta del Presidente Augusto Rollandin (al quale mi appresto a scrivere).

Caro Vendola, facciamo ricorso
di Alberto Lucarelli e Ugo Mattei.

Caro Presidente Vendola,

siamo i due giuristi che, dopo aver elaborato insieme ad altri colleghi i quesiti per i referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali (referendum n. 1) e contro la possibilità di trarre profitto dal servizio idrico integrato (referendum n. 2), abbiamo patrocinato con successo di fronte alla Corte Costituzionale, il 12 gennaio 2011, la questione della rilevanza costituzionale ed europea dei beni comuni.

Oggi ci troviamo di fronte a un attacco senza precedenti Continua a leggere

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Strane cose accadono in Italia – 3


Secondo la legge italiana c’è una categoria di persone che non ha bisogno di commettere reati per essere prelevata dalle forze dell’ordine e chiusa in un centro penitenziario, perché è la sua stessa presenza, giudicata “irregolare”, a costituire un reato. Si tratta naturalmente, come tutti sanno, dei cittadini stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno. Ma avete mai provato a immedesimarvi nei panni di questa gente? Vi trovate costretti a partire per la Germania, gli Usa o magari la Cina e, siccome non avete modo di regolarizzare la vostra presenza, dall’oggi al domani siete al di fuori della legge, senza aver mai rubato, usato violenza, ucciso. Cazzo, ma io sono italiano! Sì, però siete in Germania, negli Usa o in Cina e agli autoctoni non interessa se siete discendenti di Giulio Cesare in persona; più facilmente penseranno alla pizza, alla mafia, a Berlusconi (e forse persino al mandolino). Trovate lavoro, ma in nero, non avete diritti e – se cercate di rivendicarli – chiunque può denunciarvi come illegale. La denuncia, secondo le belle pensate di qualche mente leghista (che immagino non siano un’esclusiva “padana”), potrebbe venire anche dal medico che vi cura, così, se vi ammalate, ci pensate due volte prima di andare all’ospedale (il che non è bene per voi e, nel caso di malattie contagiose, neppure per gli altri, non importa quanto autoctoni). Poi, dopo una settimana come cinque anni di stenti, di dignità calpestata, di rospi inghiottiti, basta una retata e vi trovate rinchiusi in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie), nel quale possono tenervi fino a 18 mesi prima di rispedirvi in patria – ovvero alla situazione dalla quale eravate scappati, fame o guerra non importa.

Questa è la situazione in Italia (secondo alcuni uno Stato democratico) per migliaia e migliaia di esseri umani che hanno la grave colpa di non avere un bollo o una firma sul passaporto. Persone che rischiano di finire – o sono finite – nei Cie senza aver fatto nulla di illegale, una vergogna con la quale conviviamo senza indignarci o reagire, come facevano i cittadini tedeschi o polacchi che abitavano nei pressi di un Lager. Certo, se abbiamo un’idea di com’erano i Lager nazisti, con le uccisioni indiscriminate, le selezioni, il lavoro forzato, gli esperimenti “scientifici” condotti su cavie umane che potevano essere sacrificate senza problemi, le camere a gas e l’uscita finale dal campo attraverso il camino di un forno crematorio, il paragone può sembrare una forzatura. L’analogia sta nel fatto che entrambi i sistemi concentrazionari sono rivolti a persone “innocenti” (e, incidentalmente, a persone che non lo sono), designate in base a un criterio che se oggi non è perfettamente razziale ricorda da vicino la discriminazione legata al sangue, perché è risaputo che la parte di umanità che soffre la fame non è quella bianca e occidentale. L’analogia sta nel fatto che l’ingresso ai Cie è vietato tanto alla stampa quanto alle associazioni e, ciò nonostante, le notizie che raggiungono l’esterno raccontano una storia di sovraffollamento, abusi, violenze sessuali e uso intensivo dei tranquillanti per “tenere buoni” i migranti.

Quello della foto è il Cie di Restinco, in provincia di Brindisi. Trovandomi da queste parti non ho resistito alla tentazione di dargli un’occhiata. Mentre mi avvicinavo, fantasticavo su che cos’avrei fatto se mai mi fossi imbattuto in un fuggiasco evaso dal Cie. L’avrei aiutato contro la legge, facendolo salire in macchina, portandolo almeno fino a Brindisi, mettendogli in mano 50 euro, come la mia coscienza mi imporrebbe, oppure avrei avuto paura delle conseguenze e mi sarei arreso alla “necessità” di farmi i fatti miei, di rispettare una legge sbagliata, di badare alla mia incolumità (non si sa mai come ragiona un uomo che è stato trattato come un animale)? Non conosco la risposta, immagino che certe cose si scoprano solo alla prova dei fatti, ma credo che sia compito di tutti sollevarsi contro l’assurdità di un sistema che mette una persona in una gabbia soltanto perché ha un cognome e una religione diversi da quelli di qui.

Nel Cie di Restinco domenica scorsa un tentativo di fuga si è verificato davvero, con i 45 “ospiti” della struttura hanno sfondato il cancello che li separava dal Cara (Centro di accoglienza richiedenti asilo) per poi tentare la fuga. Sul posto sono intervenuti gli agenti di polizia e solo in sei sono riusciti a scappare, mentre 20 sono stati bloccati quando erano ancora nel Cara e con gli altri è stata avviata una trattativa che è andata avanti sino alle 20.30, con gli immigrati che hanno accettato di rientrare. «Non si sono registrano feriti e neanche danni alla struttura», scrive il Quotidiano di Puglia.

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Strane cose accadono in Italia – 2

«Fumo su Brindisi» titola il Quotidiano di Puglia (29 agosto). Il riferimento è all’incidente sopravvenuto l’altra notte al Petrolchimico del capoluogo provinciale, dalle cui torce si è sprigionata una nube di fumo nero che ha invaso il cielo a sud della città per poi dirigersi verso le località balneari di Cerano (già funestata dalla presenza di una centrale a carbone) e Campo di Mare, con «i bagnanti in acqua e il naso all’insù a guardare il cielo sempre più nero». Durante la notte tra il 27 e il 28 agosto, a quanto sembra, un black out alla rete nazionale gestita da Terna ha messo in crisi la centrale elettrica Enipower, che serve il Petrolchimico. A seguito dell’avaria, i processi di lavorazione del petrolio grezzo si sarebbero interrotti, con una fuoriuscita dei residui di combustione del greggio ancora in lavorazione.

Siccome per una serie di ragioni non guardo i telegiornali nazionali, mi domando se sia stato dato spazio (e quanto) a una notizia che riguarda la salute della popolazione di un’area provatissima dalla presenza di industrie particolarmente impattanti. In un mondo migliore i media potrebbero aiutare l’opinione pubblica a ottenere la risposta ad alcune legittime domande.

Qual è l’entità dell’incidente? Data l’inconsistenza delle prime risposte dell’Eni, pare lecito chiederselo. «Sembra di avere a che fare con i padroni delle ferriere», ha dichiarato, sempre al Quotidiano di Puglia, il vicesindaco del vicino comune di San Pietro Vernotico, Sandro Saponaro. «Non si sono degnati di avvertirci della situazione di allarme, di darci delle spiegazioni. Nulla». Una interrogazione urgente all’assessore regionale all’ambiente è stata presentata dal vicecapogruppo dell’Udc alla Regione Puglia, Euprepio Curto, secondo il quale è «assolutamente urgente far conoscere ai cittadini di Brindisi, a quelli dei comuni viciniori e alla stessa opinione pubblica quali possano o potranno essere le conseguenze di natura ambientale per il territorio e il rischio per la salute delle persone».

Considerazioni molto vicine a quelle di Pugliantagonista, che pone cinque domande precise: quale parte del ciclo di processamento dei prodotti chimici è andata in fumo? in che quantità? sono state avvisate le autorità aeroportuali per garantire la sicurezza del traffico aereo su Brindisi? quali provvedimenti sono stati presi? sono state avvertite le autorità competenti in fatto di emergenze ambientali presenti sul territorio?

Pugliantagonista invita a riflettere su una “normalità brindisina” «che dà per acquisita la convivenza con scarichi industriali, in mare, ombrelloni tra divieti di balneazione e fumate color nero di seppia». «Solo quando questa indifferenza sarà sostituita dall’indignazione di massa e popolare», prosegue, «e diverrà una lotta che coinvolga l’intera popolazione e tutte le generazioni, per garantire un futuro diverso, si potrà ottenere quello che neanche giudici e carte bollate riescono ancor oggi ad imporre sul rispetto dei vincoli ambientali».

«Episodi come questi ci spingono con sempre maggiore forza a chiedere che sia avviata una indagine epidemiologica per valutare i danni sanitari collegati all’inquinamento», dichiara il comitato No al Carbone di Brindisi, «ed è proprio su questo tema che nei prossimi giorni lanceremo una imponente campagna informativa e di denuncia». Il comitato ha inviato all’Arpa Puglia una lettera contenente la richiesta di informazioni sull’accensione delle torce del Petrolchimico («le continue sfiammate» di una struttura «già oggetto di sequestro da parte della magistratura»). Il comitato chiede «una dettagliata informativa che possa chiarire quali sostanze e in quali quantità sono state bruciate nelle torce». «Inoltre chiediamo anche di sapere quali sostanze e in che quantità e concentrazione sono state emesse in aria».

>>> Ho preso l’immagine di questo articolo dal sito Pugliantagonista, che consente la riproduzione dei propri materiali «a fini non di lucro» e «con l’obbligo di riportarne la fonte». Clicca sull’immagine per ingrandirla.

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Attaccato night club a Tel Aviv

Questo blog è al fianco del popolo palestinese, i cui diritti sono negati e calpestati da decenni dallo Stato di Israele. Si pensi alle risoluzioni dell’Onu per la soluzione dei “due Stati per due popoli”, ignorate dai governi di Tel Aviv; si pensi all’embargo unilaterale che colpisce e affama un milione e mezzo di persone rinchiuse nel carcere a cielo aperto della Striscia di Gaza.

Durante l’operazione militare Piombo Fuso, come durante tutti i raid successivi al cessate il fuoco e fino all’escalation militare degli ultimi giorni (prima e dopo l’attentato di Eilat), la popolazione civile non ha potuto neppure mettersi in salvo perché chiusa in gabbia, con i valichi al confine con il territorio israeliano e l’Egitto perennemente chiusi.

Si pensi poi alla Cisgiordania, dove i coloni israeliani – spesso ultrafondamentalisti religiosi – compiono violenze contro i palestinesi e le loro proprietà con la connivenza, se non la benedizione, dell’esercito; si pensi al muro che circonda le colonie e rende di fatto impossibile qualsiasi continuità territoriale ai territori palestinesi (e spesso trasforma in un’odissea il semplice tentativo di raggiungere un ospedale).

Si pensi ancora alla pratica degli “omicidi mirati”, condotti da Israele nei confronti dei propri nemici, ritenuti – a torto o a ragione – “terroristi”. Si pensi infine (ma ci sarebbe altro da aggiungere) alla violenza di un esercito ipertecnologico che si abbatte improvvisa dal cielo, talvolta con la scusa della prevenzione, talaltra con quella della ritorsione.

Ciò premesso, questo blog non è interessato a difendere la violenza palestinese, quando c’è. Non la giustifica, non la apprezza, la trova controproducente, ma ne riconosce la natura di “conseguenza”, di “risposta” a una situazione drammatica – quella vissuta dalla popolazione palestinese – generata senza possibilità di equivoco dalle politiche israeliane. Gli attentati in Israele sono responsabilità di chi li mette in atto – non potrebbe essere altrimenti – e tuttavia la linea seguita da Tel Aviv nei confronti dei palestinesi è il peggior modo possibile per prevenirli o, più in generale, per aprire alla pace.

La scorsa notte un night club di Tel Aviv è stato attaccato da un palestinese, ventenne, proveniente da Nablus, nella Cisgiordania. 7 persone sono state ferite, 5 delle quali agenti di polizia. Arrivato nei pressi del night, il giovane, secondo quanto riporta PeaceReporter, «ha ferito l’autista e lo ha buttato fuori dal taxi»; «si è poi imbattuto in un posto di blocco della polizia e si è scagliato contro con l’auto. È poi uscito dal taxi e ha attaccato con un coltello agenti e civili. A conclusione dello scontro, cinque poliziotti, un buttafuori del ritrovo notturno, un civile e lo stesso attentatore sono stati feriti; uno risulta essere in gravi condizioni».

PeaceReporter riferisce anche che «responsabili della sicurezza temono una nuova ondata di attacchi palestinesi in seguito alla forte tensione sul confine con la Striscia di Gaza e per il controverso piano del presidente palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) che intende chiedere all’Assemblea Generale dell’ ONU, quando si riunirà il prossimo settembre, il riconoscimento di uno stato palestinese come stato non membro di questo foro». Un progetto che naturalmente suscita la contrarietà di Israele.

Se la mia condanna dell’episodio è scontata (e comunque la esprimo), esprimo anche la condanna per la miopia dei governi israeliani, per la ritorsione che – se non è già avvenuta mentre sto scrivendo – certo non si farà attendere, per la pervicacia nel non voler accettare i diritti degli altri, l’ostinazione a percorrere una via di violenza che genera violenza e altra violenza ancora, le spese della quale faranno tutti, gli israeliani come i palestinesi.

>>> La vignetta, estremamente significativa, è di Carlos Latuff. Una giacca azzurra americana domanda, con riferimento ai nativi americani: «Perché ci attaccano? Solo perché li uccidiamo e occupiamo la loro terra?»; nella vignetta successiva, un militare israeliano risponde: «Stavo per chiederti la stessa cosa».

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