Riprendo la mia vecchia abitudine (certi vizi sono duri a morire) di scrivere alle più alte cariche istituzionali dello Stato, nella convinzione che – proprio perché tali – debbano farsi carico di ascoltare i cittadini.
So che la mia lettera non cambierà le cose, ma avverto l’urgenza di “mettere in guardia” il Capo dello Stato contro i pericoli dell’unità di tutti contro la crisi.
Tutti uniti per chi? – Lettera aperta al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano
Gentile Presidente,
negli anni mi è capitato altre volte di scriverLe, talora con tono equilibrato, talora in modo decisamente polemico, per esprimere, come semplice cittadino, il mio disappunto per alcuni decreti e leggi da Lei firmati, che io – nel mio piccolo – avrei rispedito al mittente. In realtà, sono consapevole dei limiti che la Costituzione impone all’agire del Presidente della Repubblica e non intendo alimentare qui nuove polemiche. Anzi, mi sembra che di fronte all’aggravarsi della situazione economica e sociale italiana, Lei stia cercando con determinazione di far uscire il Paese dalla palude rappresentata da un governo senza politica e in crisi internazionale di credibilità.
Ciò detto, vengo al motivo di questa lettera.
Signor Presidente, la mia impressione è che, nei Suoi sforzi per superare l’impasse del berlusconismo cadente, Lei dia credito all’equivoco per cui – usciti di scena i protagonisti politici degli ultimi anni – sarà possibile tornare alla normalità, uno stato che dovrebbe coincidere, secondo le speranze di alcuni, con un ritorno alla buona programmazione economica, alla crescita del Pil e magari a una più diffusa legalità. Dai Suoi inviti alla «responsabilità» per una manovra “lacrime e sangue” o all’«unità» di tutti contro la crisi, mi pare di intuire che vanno cambiate le persone (certe persone), ma le politiche devono restare le stesse: le regole dell’euro non sono rinegoziabili, bisogna aiutare i responsabili della crisi a rimettersi in piedi, l’economia si cura con i tagli al welfare e con le grandi opere, mentre ritirare i soldati dall’Afghanistan sarebbe “tradire” i nostri alleati e venir meno alle «responsabilità internazionali» dell’Italia.
Eppure, il Capo dello Stato non può non sapere che negli ultimi anni la società italiana è diventata meno giusta, che la forbice tra gli immensamente ricchi e i sempre più poveri si è divaricata continuamente, che i beni pubblici sono stati depredati, i privilegi di alcuni consolidati, lo Stato sociale aggredito, i territori devastati dal cemento, dall’inquinamento, da un senso diffuso di accettazione dell’illegalità. Questi di cui parlo non sono eventi natuarali, grandinate o tsunami, ma il prodotto di politiche di stretta osservanza liberista: le stesse politiche che Washington, Bruxelles e le famose agenzie di rating vogliono imporre agli Stati, sulla pelle dei cittadini.
Occorre cambiare strada, signor Presidente. Occorre ribadire, in sede europea, che i singoli Stati devono poter intervenire di più in economia, anche gestendo direttamente i servizi essenziali per la vita del cittadino. Occorre ribadire che lo Stato deve fornire istruzione, assistenza medica e persino pensioni, non utilizzare i fondi pubblici per finanziare scuole private, ospedali privati, fondi pensione privati! Occorre ribadire antichi principi che trasudano buon senso: che «chi rompe paga», ad esempio; perché non c’è ragione per cui ai vertici di banche, di aziende o dell’economia restino gli stessi individui o le stesse imprese che hanno speculato, rovinato migliaia di esseri umani, provocato la crisi.
E qui vengo al cuore della mia lettera. In questi giorni si parla di continuo di «governo del Presidente», di «governo tecnico», di «unità nazionale contro la crisi»; formule che vorrebbero mettere insieme tutti i “volenterosi”, al nobile scopo di superare uno dei momenti più difficili del Paese. In una sorta di ricomposizione obbligata del conflitto sociale, si vorrebbe mettere insieme i lavoratori e i sindacati con gli imprenditori, categorie portatrici di interessi spesso fra loro opposti e non accomunabili per possibilità di contrattazione. «Responsabile» è stato definito, in questo senso, l’accordo della Cgil con Confindustria, Cisl e Uil dello scorso 28 giugno, che di fatto mette in mora il diritto di sciopero e permette deroghe infinite ai contratti nazionali. «Responsabili» sono stati definiti quegli operai della Fiat che hanno accettato i diktat di Marchionne non per convinzione, ma pur di conservare il lavoro. «Responsabili» sono anche quei cinquantenni licenziati che magari si riciclano consegnando surgelati a domicilio con una laurea e tanti anni di lavoro alle spalle.
Io trovo, signor Presidente, che avallare questa visione dell’economia e della società con inviti all’«unità» sia poco «responsabile».
Occorre, signor Presidente, pensare un altro modello economico. Perché quand’anche la «crescita» fosse per forza un concetto positivo, non lo sarebbe in ogni caso una crescita qualunque: in pieno XXI secolo abbiamo territori avvelenati dal carbone, sondiamo il mare delle isole Tremiti o della Sicilia alla ricerca di petrolio, ci ammaliamo sempre più spesso di cancro e permettiamo che i nostri bambini siano fumatori passivi dell’equivalente di centinaia di sigarette all’anno, se solo hanno la sfortuna di venire al mondo in certi quartieri, per permettere alle industrie di violare gli stessi limiti imposti dalla legge per le emissioni di inquinanti.
Quand’anche si creda davvero che l’indispensabile sia «tornare a crescere», chi lo deve fare? Le stesse persone che sono responsabili della situazione descritta qui sopra? Perché dovrebbe essere moralmente legittimo dialogare con Confindustria senza prima aver preteso il rispetto delle leggi italiane sull’inquinamento? È proprio sicuro, signor Presidente, che è con quella gente lì che ci dobbiamo “unire”, «responsabilmente»?
Silvio Berlusconi, signor Presidente, non è che uno dei problemi di questo Paese. Passato lui, restano gli altri e per risolverli occorrono un modello di sviluppo nuovo e alleanze meno screditate. Occorrerebbe forse, in certi casi, il semplice rispetto delle leggi, a partire dai principi e dai valori della Carta costituzionale.
Grazie per l’attenzione,
Mario Badino
Cittadino italiano
…non si può che essere d’accordo con te Mario……oltretutto, è proprio l’aumento della forbice fra i richhi ed i poveri ad erodere le possibilità di coesione sociale e cooperazione, alimentando il mito che, con stumenti individuali e senza alcun rispetto del bene comune, si possa fare la famosa “ascesa sociale”…………
r
Grazie, Ronnie, secondo me anche le forbici potrebbero ispirare un personaggio per i fumetti di Dooh Nibor e Speculupo… Loro le usano tremontianamente per i “tagli” e, così facendo, ampliano la “forbice” tra ricchi e poveri, però poi a un certo punto le forbici diventano troppo grandi e loro non riescono più a tenerle in mano: non sono più… sostenibili!
impeccabile come al solito, tanto che se ce lo permette lo metteremmo sul nostro sito 😉
Permetto, permetto… Permetto e ringrazio!