Il 27 dicembre 2008 lo Stato di Israele iniziava l’operazione militare «Piombo Fuso» contro la Striscia di Gaza, costata 1400 morti (la maggior parte civile, oltre la metà minorenni) e immense distruzioni. Da allora a oggi continua l’embargo, illegale, deciso unilateralmente da Israele, e continuano i raid e gli «omicidi mirati».
Sto leggendo il libro «Bocche scucite», di Nandino Capovilla e Betta Tusset, sull’occupazione israeliana dei territori palestinesi in Cisgiordania attraverso le colonie e il muro dell’apartheid.
Non appena l’avrò terminato, intendo rileggere «Se questo è un uomo». Sono due libri simili, in fondo, perché raccontano e ci mettono davanti agli occhi l’ingiustizia perpetrata da apparati statali criminali, che si propongono come buoni e salvifici.
Che gli eredi della più grande tragedia dell’umanità diventino a loro volta carnefici è triste. Ma in un graffito sul muro che divide Israele dai Territori palestinesi si legge proprio «Arabs to the gas chambers» (gli arabi alle camere a gas).
Mi è capitato recentemente di confrontarmi in qualche commento sul blog o in altri luoghi in internet con alcuni sedicenti fascisti, negazionisti della Shoah. Sono confronti molto avvilenti, perché ne esco con l’impressione che l’orrore non implichi per forza un moto di repulsione nell’essere umano. Un moto che forse potrebbe preservarci dallo sprofondare nuovamente in certi baratri.
Come Primo Levi, allora, anch’io «vi comando»: «Ricordate che questo è stato». Ad Auschwitz, a Gaza e in Cisgiordania; in molti altri luoghi.
Il ripetersi degli odi e dei massacri ispira tradizionalmente agli scrittori e ai popoli miti di demoni o divinità della guerra: l’umanità è sempre stata brava a trovarsi gli alibi.