Il muro di ferro

In queste pagine ho parlato più volte di Gaza martoriata dalle bombe e sottoposta all’embargo unilaterale (e illegale) decretato da Israele, che strozza un milione e mezzo di esseri umani nella sostanziale indifferenza del mondo.

Meno nota è la situazione della Cisgiordania (o West Bank) – la parte dei Territori formalmente sottoposta all’autogoverno palestinese – in merito alla quale consiglio il documentario «The Iron Wall» (il muro di ferro), diretto da Mohammed Alatar, pacifista fondatore di Palestinians for Peace and Democracy, e prodotto dalla Ong palestinese PARC (Palestinian Agricultural Relief Commitees).

Il film, disponibile su YouTube in lingua inglese con i sottotitoli in italiano (QUI la prima puntata), illustra le conseguenze degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi e quelle della presenza del muro di separazione, costruito “a protezione dello Stato d’Israele”, ma che di fatto sfora in territorio palestinese e finisce per inglobare molte delle colonie (illegali) e dei loro collegamenti con la madrepatria.

Il documentario mostra da vicino innanzitutto le conseguenze della presenza dei coloni e del muro nella vita quotidiana degli abitanti della Cisgiordania e, per seguire, quelle sul processo di formazione dello Stato che le Nazioni unite avevano promesso agli abitanti della Palestina, ma che ora è semplicemente irrealizzabile, perché sprovvisto di qualsiasi continuità territoriale.

Ho visto «The Iron Wall» nel corso di una serata all’espace populaire di Aosta, organizzata da Giovanni Buschino e Guendalina Jocollè, che hanno parlato della loro esperienza nei territori palestinesi, e da Enrico Ventrella dell’Arci regionale. Quella che segue è la cronaca dell’iniziativa, a partire dalle impressioni suscitate dal film. I dati che cito sono quelli che ho trascritto nei miei appunti; ogni possibile inesattezza mi andrà addebitata per intero, ma sono convinto che il senso complessivo del resoconto resterà intatto.

Dopo gli accordi di pace del 1993 a Oslo per consentire la nascita di uno Stato palestinese indipendente occorreva risolvere alcune questioni legate ai confini, alla sorte dei 5 milioni di profughi palestinesi dispersi in altri Paesi e allo statuto di Gerusalemme. Soprattutto, bisognava superare l’ostacolo rappresentato delle colonie israeliane nei territori che avrebbero dovuto costituire il territorio dello Stato palestinese. All’epoca, era stata coniata la formula «terra in cambio di pace».

Nonostante gli impegni presi in senso contrario, il dopo Oslo è stato caratterizzato da un aumento notevole della popolazione e delle dimensioni degli insediamenti israeliani. Secondo il piano di Ariel Sharon, le colonie avrebbero reso impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Si trattava di opporre, tanto agli impegni presi con la controparte in occasione degli incontri di pace, quanto alle richieste delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, una serie di «facts on the ground» (fatti sul terreno, vale a dire concreti, incontrovertibili).

Costruire insediamenti nei territori palestinesi significava certamente realizzare «facts on the ground», anche perché tali centri, sorti in luoghi potenzialmente ostili, avevano bisogno di collegamenti viari con la “madrepatria”, autostrade riservate ai coloni (ai palestinesi serve un permesso speciale per utilizzarle), e di zone di sicurezza; infrastrutture che occupano – è stato calcolato – il 42% dei territori della Cisgiordania.

Le colonie sprecano l’acquauna delle risorse più importanti dell’area – perché ne consumano fino a 5 volte di più rispetto ai palestinesi e la pagano 4 volte meno. Spesso gli insediamenti israeliani sorgono sulla cima di una collina; dal momento che non sono provvisti di vere fognature, si limitano a incanalare le acque reflue, che vengono poi scaricate a valle, inquinando i territori palestinesi circostanti.

La maggior parte dei coloni non è tale per ideologia. Molti israeliani neppure sanno di vivere su territori occupati, o preferiscono ignorarlo. Non si interessano di politica, insomma, ma approfittano degli incentivi offerti dallo Stato a chi sceglie di andare a vivere nelle colonie (prezzi bassi e bonus fiscali). Secondo l’organizzazione Peace Now!, l’80% dei coloni si considera “economico”, mentre solo il 20% è “ideologico”. Si tratta tuttavia di un 20% agguerrito, che non esita a imbracciare le armi e sparare.

Il proposito di questa minoranza, secondo l’attivista israeliano Jeff Halper, co-fondatore dell’Israeli Commettee against House Demolition, è quello di contribuire, con la sua stessa esistenza, alla frammentazione dei Territori. La loro presenza costituisce una minaccia per la sicurezza dei palestinesi, soprattutto nella zona di Hebron, dove nel 1994 fu dato assalto a una moschea e furono uccise 29 persone.

A Hebron, 150 mila palestinesi vivono sotto l’assedio di 450 fanatici religiosi israeliani protetti dall’esercito. La “sicurezza” della popolazione si traduce in un’insopportabile serie di imposizioni, dal coprifuoco ai numerosi check point, che rendono difficile e pericoloso persino recarsi al lavoro o a casa propria. A Hebron alcune strade sono «solo per ebrei».

Nel documentario si vedono famiglie palestinesi costrette a far giocare i propri bambini in cortili cintati da reti per proteggerli dalle pietre e dalle bottiglie lanciate dai coloni.

Alcuni ex soldati israeliani, oggi obiettori di coscienza, dichiarano di non ricordare una singola occasione in cui siano stati fatti bersaglio di colpi d’arma da fuoco, eppure nella propaganda le loro granate esplodono sempre in risposta ad attacchi subiti.

La notte non si vede niente, raccontano, e stare dietro alla mitragliatrice assomiglia molto a un videogioco. La società israeliana non sa nulla di ciò che avviene a Hebron, perché i media non raccontano le violenze che vi sono commesse. Molti palestinesi stanno lasciando le loro abitazioni, abbandonando quella che qualche tempo fa era una meta turistica importante, perché sede di luoghi sacri alle tre religioni monoteiste. Il processo di colonizzazione mira a cacciare i palestinesi dalle loro case.

Jeff Halper parla di coloni che danno fuoco ad abitazioni palestinesi senza che la polizia intervenga e domanda come sia possibile fare ad altri popoli ciò che altri hanno fatto al tuo appena 60 anni prima. Nel video, a commento di questa riflessione, si vede una scritta su un muro che recita: «Arabs to the gas chambers» (gli arabi nelle camere a gas).

Nel giugno del 2002, Israele incomincia a circondare la Cisgiordania con un muro alto, in alcuni tratti, 9 metri, in altri semplice recinzione in maglia di metallo. È il nuovo muro dell’Apartheid (scritte e graffiti che lo ricoprono mi hanno riportato alla mente analoghe iscrizioni sopra il muro di Berlino), difficilmente giustificabile con la scusa della sicurezza. Il confine tra la Cisgiordania e Israele è lungo 315 chilometri, secondo gli accordi successivi all’armistizio del 1949: quando sarà ultimato il muro ne misurerà 707. Perché?

La spiegazione è che spesso i villaggi palestinesi vengono completamente circondati, trasformati in una sorta di prigione, mentre le terre coltivate dai loro abitanti finiscono al di là del muro, dove non possono essere raggiunte per essere lavorate se non attraverso permessi rilasciati da Israele. Il tracciato del muro ha tolto ogni possibile continuità territoriale al futuro Stato palestinese. Per costruirlo sono state sradicate migliaia di ulivi e distrutti coltivazioni, pozzi, sistemi d’irrigazione, case, fattorie.

Il muro si spinge anche all’interno di Gerusalemme, con l’obiettivo di modificare le percentuali demografiche degli abitanti della «Città santa». A questo scopo, il muro corre a zig zag, includendo le zone abitate da israeliani, cercando di escludere quelle palestinesi. Senza Gerusalemme, tuttavia, non è possibile alcuna sostenibilità economica per uno Stato palestinese, che verrebbe a costituire un susseguirsi di zone agricole e piccoli villaggi. Israele ha invece bisogno degli insediamenti attorno a Gerusalemme per controllare la Palestina.

Anche Betlemme è oggi una specie di ghetto circondato dal muro (nella foto). Un muro destinato ad annettere, una volta completato, circa l’80% degli insediamenti.

La soluzione dei due Stati per due popoli in queste condizioni è evidentemente impraticabile, ma la conclusione del documentario lascia spazio a un po’ di speranza. Si tratta della fine del sogno di uno Stato palestinese, è vero, ma paradossalmente potrebbe anche essere la fine di quello di uno Stato israeliano “monoetnico” e confessionale, perché prima o poi ai due popoli non rimarrà altra possibilità che quella di convivere entro i confini di un’unica entità territoriale.

Dal momento che non è il primo articolo che pubblico sulla “questione israelo-palestinese” (come la chiamano i media) conosco in anticipo i possibili commenti di alcuni, decisi, in buona o in cattiva fede, a negare lo stato delle cose. «Si tratta», diranno, «di propaganda» e cercheranno di spostare l’accento sulle violenze commesse da parte palestinese. Voglio dunque spendere poche parole in difesa del film, ricordando che la maggior parte delle testimonianze (quelle citate e altre che non mi sono appuntato, fra le quali quella di una colona “pentita”) sono di israeliani: pacifisti ed ex soldati dicono la stessa cosa e parlano di un progetto di «facts on the ground», volto a mettere l’Onu e il mondo di fronte al fatto compiuto: uno Stato palestinese non potrà mai nascere perché le terre rimaste “libere” non sono sufficienti e soprattutto non sono unite fra loro.

L’attendibilità delle testimonianze è per me anche più evidente nel caso della proiezione di diapositive che ha seguito il documentario. Giovanni Buschino e Guendalina Jocollè sono due ragazzi della mia città, che hanno visitato la Cisgiordania e sono stati a Bil’in, la città che dal 2005 organizza ogni venerdì una manifestazione contro la costruzione del muro. Tali manifestazioni sono di norma nonviolente (ma c’è chi lancia pietre contro i soldati, anche servendosi di fionde: Giovanni e Guendalina non hanno difficoltà ad ammetterlo; tra questi manifestanti e i militari esiste tuttavia una netta sproporzione di forze) e vedono la presenza di molti “internazionali”, attivisti per i diritti umani. Gli israeliani rispondono al semplice incedere dei manifestanti o al lancio di sassi sparando lacrimogeni ad altezza uomo. È già capitato che qualcuno sia morto per essere stato colpito alla testa.

I soldati sparano anche proiettili di gomma con l’anima d’acciaio (le cosiddette «rubber ball»), che possono essere letali. Anche qui, la veridicità di quanto raccontato è provata e testimoniata dall’immagine di un italiano, nella West Bank assieme a Giovanni e Guendalina, colpito alla fronte da uno di questi proiettili, per fortuna senza gravi conseguenze.

Di fronte a tutte queste cose che ho malamente raccontato (ma, come ho detto, il film «The Iron Wall» è presente su YouTube), come già davanti ai cadaveri delle bambine di Gaza mostrati dal documentario To shoot an elephant dello spagnolo Alberto Arce, ho provato dolore e rabbia. Dolore e rabbia destinati ad accrescersi ogni volta che qualche persona intelligente, magari anche impegnata per la difesa dei diritti umani, su Israele “fa cortocircuito” e, forse per timore di offendere un popolo che nella sua storia ha sofferto moltissimo, si mette a negare l’evidenza bevendosi la propaganda che fa di Israele l’«unica democrazia del Medioriente» e delle sue forze armate l’«esercito più morale del mondo».

È il caso di Roberto Saviano, cui nulla voglio togliere come intellettuale impegnato per la legalità e contro la camorra, ma al quale non posso perdonare l’atteggiamento di servile condiscendenza nei confronti della politica israeliana verso i palestinesi. Un atteggiamento – che Saviano sia in buona o in cattiva fede – che lo ha portato ad aderire con un videomessaggio alla giornata «Verità per Israele» promossa, lo scorso 7 ottobre, dalla colona Fiamma Nirenstein allo scopo di «porre fine alla valanga di bugie [sic] che ogni giorno si rovescia su Israele». All’appello, oltre alle prevedibili firme di Shimon Peres, presidente dello Stato israeliano, e del primo ministro Benjamin Netanyahu, a quelle di Giuliano Ferrara, Fabrizio Cicchitto, Mara Carfagna, Piero Fassino e Walter Veltroni, se ne aggiungono altre che sinceramente non avrei mai voluto vedere, come quelle di Lucio Dalla, di Rita Levi Montalcini e, per l’appunto, Roberto Saviano.

All’autore di Gomorra ha risposto molto bene Vittorio Arrigoni, attivista per i diritti umani che ha vissuto i bombardamenti dell’operazione militare «Piombo Fuso» come volontario sulle ambulanze a Gaza, è riuscito a rientrare in Italia e poi ha scelto di tornare nella Striscia, dove attualmente si trova, e da dove racconta la vita dei palestinesi sotto assedio attraverso il suo blog.

La risposta di Arrigoni a Saviano, che non necessita di altra introduzione perché è molto chiara, è pubblicata qui sotto. So di essere stato molto lungo, ma invito tutt@ a vedere il video, perché ne vale la pena.

>>> Le immagini dell’articolo sono di Giovanni Buschino e Guendalina Jocollè. Due di esse raffigurano il muro all’entrata di Betlemme: poiché si entra in una città «santa» la scritta dice: «La pace sia con voi» (ma, oltre al cemento, presso l’entrata c’è anche un check point con i soldati armati). Un’altra foto presenta un cartello al confine con la zona amministrata dall’Autorità nazionale palestinese, il quale vieta espressamente l’accesso ai cittadini israeliani (ovviamente sarà motivato con le solite ragioni inerenti la “sicurezza”, ma certo per il cittadino israeliano è molto difficile farsi un’opinione indipendente di ciò che avviene nei Territori, se neppure può entrarci). Le due immagini con i soldati sono state scattate a Bil’in, durante una manifestazione del venerdì contro la costruzione del muro.

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Una risposta a Il muro di ferro

  1. vortallow scrive:

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