Si apre alla presenza di Ida Désandré, deportata politica a Ravensbrück, Salzgitter, Bergen-Belsen, l’ultimo appuntamento di Collettivamente Memoria, inizialmente previsto per il mese di febbraio e poi rinviato per neve. Ospiti della serata sono il giornalista Lorenzo Guadagnucci promotore della campagna Giornalisti contro il razzismo e Antonio Borrelli di Arcimovie Napoli. Introduce Silvia Berruto, giornalista aderente alla campagna e curatrice dell’iniziativa.
Guadagnucci presenta Giornalisti contro il razzismo come un sos lanciato ai propri colleghi, ma anche come un invito a un ruolo più attivo dei cittadini, che devono pretendere un’informazione corretta. Il riferimento è, in particolare, al tema della sicurezza, trattando il quale i media italiani fanno da grancassa a quegli interessi politici che individuano nei rom un parafulmine sociale e un problema da colpire. L’appello Giornalisti contro il razzismo è nato come un tentativo senza grandi aspettative, ma non per questo meno necessario in un contesto in cui i media svolgono un ruolo fondamentale nel fomentare la xenofobia. È il caso della leggenda per cui i rom ruberebbero i bambini, una diceria senza riscontri nella realtà, ma che ripresa dai giornali ha costituito la “giustificazione” del pogrom scatenatosi lo scorso maggio nella periferia napoletana di Ponticelli, quando i campi rom sono stati attaccati e incendiati da una folla inferocita in “risposta” al presunto tentativo di rapimento, poi rivelatosi fittizio, di una bimba italiana da parte di una donna rom.
Se in questo momento storico in Italia, è diventato comune un certo discorso razzista, derivante dal continuo allarme sicurezza, la colpa è anche dei media. Alla denuncia di Giornalisti contro il razzismo hanno fatto seguito alcune centinaia di adesioni in pochi mesi, un numero inatteso, segno di un certo disagio all’interno della categoria. Esiste un percorso che i giornalisti sono spinti a seguire, perché comodo e “redditizio” in termini di «notizia»: è per questo che è importante stimolare i cittadini affinché facciano pressione per avere un’informazione corretta. I giornalisti, infatti, sono molto sensibili alle impressioni dei lettori.
Le parole, secondo Guadagnucci, non sono neutre: alcune servono a escludere. «Mettiamo al bando la parola clandestino», è la proposta, una parola connotata negativamente, che richiama qualcuno che agisce nell’ombra, al di fuori della legge, ma è applicato – automaticamente – a tutti gli immigrati che giungono in Italia, Paese nel quale non esistono, in sostanza, sistemi praticabili d’ingresso. 300 «clandestini» sbarcati a Lampedusa sono semplicemente 300 persone, 300 aspiranti lavoratori che hanno raggiunto l’Italia. Clandestino è una parola discriminatoria, così come extracomunitario, vu cumprà, nomade, zingaro… Se nel nostro Paese la clandestinità fosse davvero reato, dovremmo punire contemporaneamente 750 mila persone, comprese molte di quelle badanti alle quali affidiamo tranquillamente le persone che ci sono più care.
Guadagnucci cita un articolo di Beppe Severgnini, pubblicato sul Corriere della Sera, che, partendo da un’analisi superficiale e scorretta dei dati sui reati commessi in Italia, e in particolare sugli stupri, dimostrerebbe la «propensione a delinquere» dei romeni. In realtà, Severgnini parte da premesse falsate, perché le cifre non si riferiscono agli stupri commessi, ma a quelli denunciati, che sono una piccola parte del totale. Le denunce, infatti, significano poco: il loro numero è maggiore dove c’è un rapporto di fiducia tra il cittadino e le istituzioni. Sono maggiori, per intenderci, a Bologna rispetto a Caserta, ma non necessariamente i reati sono più numerosi nel capoluogo emiliano che nella città campana. Anche le politiche di polizia, inoltre, influenzano l’andamento dei dati sulla criminalità: se per un anno la polizia si concentra sullo spaccio di cocaina, ad esempio, è normale che alla fine i dati relativi a quel tipo di reato sono più alti. Se gli immigrati sono presi di mira dalle forze dell’ordine, è naturale che compaiano di più. Per leggere i dati è dunque necessario essere accorti, cosa che i giornalisti non sempre sono disposti a fare. Il concetto di razionalità non coincide con quello di percezione: da anni i reati sono in calo, ma la percezione è che stiano aumentando.
Su istanza del blog Italiani Imbecilli, ho domandato a Guadagnucci in quale modo sia possibile, per un giornalista, mettere insieme la propria coscienza e la linea editoriale imposta dalla politica o «dal governo di turno». La risposta del giornalista è che il «collaborazionismo» non è sempre consapevole e che in Italia esiste una tradizione di servilismo, dovuta anche alla comodità del seguire l’onda. A un ragazzo che entra in una redazione viene insegnato che, a parità di reato, è la nazionalità del colpevole a determinare l’entità della notizia. Quando nel novembre del 2007 fu uccisa Giovanna Reggiani, inizialmente si credeva che la vittima fosse rom: i giornali locali avevano dato all’accaduto lo spazio di una breve o di un box nei fatti del giorno. Quando si seppe che si trattava di un’italiana si prese a parlare di pericolo rom e Walter Veltroni, allora sindaco della capitale, dichiarò che Roma era una città tranquilla… prima dell’arrivo dei rom! Spesso nella professione di giornalista prevale il conformismo: il giornalista non è necessariamente servo, ma trova comodo seguire binari già posati. Nel nostro Paese la scarsa autonomia culturale e professionale rappresenta un elemento tradizionale, al di là di chi sia il proprietario del giornale. Sarebbe difficile individuare nei media nostrani quel ruolo di «cani da guardia della democrazia» proprio della tradizione statunitense, perché storicamente in Italia i giornali nascono in funzione sussidiaria verso il potere politico, oppure perché per un’impresa è opportuno condizionare l’opinione pubblica. Il mercato non c’entra.
La serata, che nasce come riflessione sul razzismo (originariamente doveva essere inclusa negli appuntamenti di gennaio-febbraio in memoria della Shoah) prosegue con la proiezione del cortometraggio «Il principe e la strega» realizzato proprio a Ponticelli, prima che accadessero i fatti tragici del 2008. L’idea, spiega Antonio Borrelli di Arcimovie Napoli, era quella di prendere bambini di culture diverse e farli interagire all’interno di un percorso laboratoriale della durata di 3 mesi. L’obiettivo era quello di creare integrazione, ma dopo i roghi nei campi nomadi molti dei bambini che avevano partecipato al film sono stati allontanati da Ponticelli. Il video costituisce un’esperienza importante, che mostra come i bambini riescano a stare insieme, al di là di tutto. I ragazzi sono stati talmente presi dal conoscersi che a un certo punto hanno dimenticato la presenza invasiva della telecamera. Domande e risposte sono nate in maniera spontanea e il risultato è stato la composizione di una carrellata di scene con bambini di età compresa tra i 5 e i 9 anni intenti a raccontarsi. «Non capiscono», dice uno, riferendosi ai compagni di laboratorio rom. «No, capiscono», risponde l’altro.
L’associazione di promozione culturale cinematografica di Ponticelli è nata con l’obiettivo di salvare l’unico cinema del quartiere. Ha poi stretto rapporti con le scuole e ha aperto due centri educativi per il sostegno alla didattica e laboratori di cinema, teatro, musica, danza, il che è molto importante perché a Ponticelli mancano spazi di aggregazione e socializzazione e la camorra è un modello per molti. Nella mediateca dell’associazione, migliaia di film sono messi a disposizione della popolazione gratuitamente. Il tentativo è quello di costruire una rete di associazioni a Ponticelli, un centro che ha avuto una sua fisionomia precisa fino al terremoto dei primi anni ’80. Dopo quell’avvenimento, la comunità originaria è stata stravolta dalla costruzione di grossi lotti residenziali fra i quali manca qualsiasi forma d’integrazione.
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Da sinistra a destra nella foto: Lorenzo Guadagnucci, Silvia Berruto e Antonio Borrelli all’espace populaire di Aosta.
Ottimo post, Mario. Ti ringrazio per aver girato la mia domanda a Guadagnucci. La sua risposta aiuta a comprendere alcuni ‘meccanismi di redazione’ che sono, oserei dire, allarmanti. Ma in tutto il tuo articolo emerge proprio un errore di metodo che è insito nei media italiani. E’ un errore che nasce da una catena di servilismi interni al sistema dell’informazione. Per questo motivo è importante far conoscere la campagna ‘Giornalisti contro il razzismo’.
Ora me ne aspetterei un’altra: ‘Giornalisti contro il servilismo’. Ma non credo che qualcuno possa mai proporla.
Ancora grazie.
Ciao
Non credo, in effetti, che sarà proposta. I “meccanismi di redazione” son quelli lì, naturalmente Guadagnucci non ha negato l’importanza della proprietà dei giornali. Che poi, penso io, è ciò che ti dice dove orientarti. Io dico che finché c’era un pugno di editori con idee diverse e magari un tg era della DC, uno del PSI e uno, addirittura, di un partito “antagonista” come il PCI, c’era per forza un poco di pluralità di opinione in più. La lottizzazione era pluralista, entro certi limiti! Oggi la situazione è quella che conosciamo…