Neanche a farlo apposta (e giuro che non l’ho fatto apposta, cioè non ho copiato) il giorno in cui pubblicavo il mio invito a votare – l’astensione è una delega in bianco – subordinandolo però all’esigenza di trovare strumenti altri per incidere sulla vita sociale e politica, sulla prima pagina del manifesto (edizione del 28 febbraio) usciva un articolo che diceva più o meno la stessa cosa, firmato da Howard Zinn (storico, e scrittore, autore di «A People’s History of the United States», «Voices of a People’s History» e «A power Governments cannot suppress»). Mi permetto di citarne alcuni stralci, poiché, in effetti, Zinn è stato molto più chiaro di me.
L’articolo dell’autore americano prende le mosse da un’analisi impietosa degli Stati uniti, nei quali votare significa, ogni quattro anni, ritrovarsi incollati «al televisore, mentre i candidati ammiccano e sorridono proponendo un mare di clichè con una solennità che si addice ai poemi epici». Ci sono, è vero, «candidati che sono un po’ meglio di altri, e in certi momenti di crisi nazionale (gli anni ’30, ad esempio, o oggi) anche una leggera differenza tra i due partiti può essere una questione di vita o di morte». Nell’insieme, tuttavia, siamo chiamati a scegliere tra due alternative fra loro molto simili. «Sosterrei un candidato contro l’altro?», si chiede Zinn. La risposta è sì, ma solo «per due minuti – il tempo che serve ad abbassare la leva nella cabina elettorale».
«Ma prima e dopo quei due minuti», continua, e questo è il cuore del ragionamento, «il nostro tempo, la nostra energia, dovremmo impiegarli per istruire, mobilitare, organizzare i nostri concittadini sul posto di lavoro, nel nostro quartiere, nelle scuole. Il nostro obiettivo dovrebbe essere costruire, con fatica, pazientemente ma energicamente, un movimento che, una volta raggiunta una certa massa critica, possa scuotere chiunque sia alla Casa Bianca, al Congresso, imponendo il cambiamento della politica nazionale sulle questioni della guerra e della giustizia sociale». Zinn si sofferma su un esempio storico significativo: le politiche sociali «senza precedenti» del New Deal di Roosevelt (previdenza sociale, assicurazione per la disoccupazione, creazione di posti di lavoro, salario minimo, sovvenzionamenti per la casa). Tali politiche non furono semplicemente il risultato del progressismo del nuovo Presidente, ma dipesero dal fatto che l’Amministrazione Roosevelt, al suo insediamento, «si trovò di fronte una nazione in subbuglio», con migliaia di veterani della prima guerra mondiale che scesero su Washington per chiedere aiuto al Congresso perché le loro famiglie facevano la fame, manifestazioni dei disoccupati a Detroit, Chicago, Boston, New York, Seattle, scioperi in tutto il paese, scioperi generali a Minneapolis e San Francisco, centinaia di migliaia di persone che incrociarono le braccia negli stabilimenti tessili del Sud, consigli dei disoccupati. «Le persone, disperate, si mobilitarono autonomamente, imponendo alla polizia di rimettere al loro posto i mobili degli inquilini sfrattati, e creando organizzazioni di auto-aiuto con centinaia di migliaia di membri».
Zinn conclude dicendo che senza un’emergenza nazionale difficilmente l’Amministrazione Roosevelt avrebbe deciso le riforme e che oggi «possiamo essere certi che il Partito Democratico, a meno che non si trovi davanti una sollevazione popolare, non si sposterà dal centro». Parole che possiamo tranquillamente prendere e trasferire alla nostra realtà nazionale. Ben venga il voto, allora, ma – prima e dopo – è compito dei cittadini farsi sentire e fare in modo che il loro potere si affermi «in modi che l’occupante della Casa Bianca [o di Palazzo Chigi, ndr] troverà difficile ignorare». Dobbiamo trovare i canali e la forza per condizionare il potere, attraverso i movimenti, la diffusione delle idee, la sperimentazione diretta di stili e modelli di vita alternativi. Quanto al voto, invito anch’io al «voto utile», intendendo però qualcosa di diverso da ciò che oggi tutti i media ripetono. Oggi, per quanto mi riguarda, il solo «voto utile» è contro Veltroni e Berlusconi: togliamo ossigeno ai due partiti pigliatutto, che hanno promesso entrambi le stesse «grandi opere» (in versione con Ponte sullo Stretto il Cavaliere, senza Ponte il Sindaco d’Italia), la stessa politica energetica suicida (coi termovalorizzatori e le centrali a carbone, tutti e due, e con l’aggiunta delle centrali nucleari, Berlusconi), la stessa visione, infine, dell’economia e del mondo. Esprimiamo il nostro dissenso senza bruciare il voto con un’astensione che sarebbe inutile.
Poiché è giusto costruire dopo, ma anche prima (e in vista) dell’appuntamento elettorale, nel prossimo articolo darò spazio a un intervento di Alex Glarey, militante della Sinistra Arcobaleno della Valle d’Aosta. Sono alcune riflessioni sulle quali ragionare, nella Vallée come nel resto d’Italia.