Documenti e immagini dalla persecuzione alla Shoah – Collezione Gianfranco Moscati

Nell’inverno del 2008 il Liceo classico di Aosta ha ospitato la Collezione Gianfranco Moscati, Documenti e immagini dalla
persecuzione alla Shoah
.

Il percorso della mostra – piuttosto estesa e
ricchissima di materiali autentici
– è riproposto qui, a partire dal pannello introduttivo che propone «i ricordi dei testimoni sopravvissuti» come «l’unico momento da opporre all’oblio, affinché la Memoria della Shoah non perda la sua valenza umana e non rimanga solo un fatto fra i tanti sugli scaffali polverosi delle biblioteche».

Tra gli oggetti esposti, la prima pagina del Messaggero dell’11 novembre 1938 (XVII anno dell’era fascista), che titola:

Deliberazioni del Consiglio dei Ministri – Le leggi per la difesa della razza.

L’effetto è tutto un altro, rispetto ai libri di scuola: migliaia di persone, un giorno d’autunno di 70 anni fa, hanno letto quel titolo e i relativi articoli, che presentavano come una cosa normalemagari anche una decisione storica, ma dopotutto una cosa normalel’orrore assoluto della persecuzione razziale.

Basti scorrere il sommario: Proibizione dei matrimoni misti – Trattamento giuridico degli ebrei in Italia – Limitazione di attività e diritti – Enti che non possono avere ebrei alle proprie dipendenze – Divieto agli ebrei di avere domestici ariani – Coordinamento delle norme scolastiche.

Solerte, il giornalista si sforza di spiegare al bravo cittadino fascista, seduto magari al
tavolo di un caffè, le ultime decisioni del governo. Accanto al titolo, un ritratto di Sua Maestà ricorda il «genetliaco» del «Re Imperatore».

«Per arrivare ai nostri cuori distratti», dice il pannello iniziale, «occorre creare un ricordo che sia contatto diretto con le cose di tutti i giorni, quelle semplici che ci
accomunano». Quale oggetto è più quotidiano del giornale?
Più avanti, la carta
d’identità
di una signora belga reca il timbro rosso bilingue “Juif-Jood”, «ebreo» in francese e fiammingo. Segue una stella gialla di stoffa, quindi la
lettera di un professionista, commentata nell’italiano neutro, preciso, tipico dei cartellini delle mostre: «nei paesi occupati dai nazisti i titolari di imprese,
se ebrei, dovevano specificarlo su tutta la propria corrispondenza
».

Qualche passo e siamo nella Francia occupata: in una foto di classe insegnanti e alunne esibiscono la stella di David sull’uniforme. Un fumetto di propaganda
antisemita
si conclude con l’invito: «Adhérez pour une liquidation définitive
des questions juives
» («Aderite per una liquidazione definitiva delle questioni
ebraiche»
). Quello che segue è il delirante soggetto della storia:

Arrivato cent’anni prima dal suo ghetto natale, l’ebreo pidocchioso invade la Francia, si arricchisce a spese degli autoctoni, si butta in politica e divide i francesi; diventa potente e spinge il Paese alla guerra («Pour la dignité humaine!», proclama, di fronte allo Stato maggiore dell’esercito). Durante la guerra, s’imbosca mentre i «veri» francesi si fanno
ammazzare ed esporta in America i capitali della nazione. Alla fine la Francia è sconfitta e l’ebreo organizza il mercato nero, sabota nell’ombra la politica del Maresciallo Pétain, finché le nuove leggi lo estromettono dalla comunità. Finalmente la Francia può rialzarsi e i francesi possono vivere pacificamente fra loro nella riconciliazione nazionale.

Spesso le mostre sulla persecuzione degli ebrei durante il nazismo si concentrano sull’universo Lager. La prima
parte della Collezione Moscati, invece, rende l’idea di ciò che dovette significare la propaganda antisemita, una tecnica di controllo della società in grado di modificare la percezione della realtà. Una cartolina commemorativa del
Patto d’Acciaio tra Germania e Italia
reca senz’alcun imbarazzo il motto «PACE CIVILTÀ LAVORO». Un cartello affisso sulla porta di un ambulatorio medico a
Vienna nega prestazioni agli ebrei: «FÜR JUDEN KEINE ORDINATION».

Scopro che gli uomini ebrei dovevano obbligatoriamente apporre al loro nome il prenome ebraico Israel, le donne Sara.

Germania: un falso biglietto ferroviario porta stampata la scritta «Treno espresso – Valido da tutte le stazioni tedesche per Gerusalemme – Andata senza mai ritorno – III classe (00,00 M)».

Una foto mostra degli alberi e in primo piano il cartello «Nei nostri boschi gli ebrei non sono graditi».

Seguono le locandine di due pellicole di propaganda razzista: Der ewige Jude (L’eterno ebreo) e Jud Süss (Süss l’ebreo), voluto nel 1940 da Goebbels.

Probabilmente non era consentito fare fotografie all’interno dell’esposizione, ma ho pensato che non ci dovrebbero essere problemi di diritto d’autore almeno sui manifesti comunali. Così ne ho immortalato uno del Municipio di Pesaro, illustrazione di testa di questo articolo. Argomento della locandina è la «DENUNCIA dell’appartenenza alla razza ebraica». «Il commissario prefettizio», indica il manifesto, «visto il R.D. 17 novembre 1938 – XVII n. 1728 avverte che l’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata ed annotata nei registri dello Stato Civile e della popolazione e che tutti gli estratti dei precedenti registri ed i certificati relativi, che riguardano appartenenti alla razza ebraica, devono fare espressa menzione di tale annotazione, come uguale menzione deve farsi negli atti relativi a concessioni e autorizzazioni della pubblica Autorità».

Un senso d’incredulità e di orrore
produce l’editoriale de La
Difesa della Razza
(V, 16 26/06/1942-XX) che, in piena guerra mondiale se ne esce con l’esclamazione che, grazie alle misure di lavoro coatto
loro destinate, finalmente gli ebrei lavorano!
Prima, dice la rivista, si riposavano beati, perché lo Stato aveva loro vietato quasi tutte le attività e,
non potendo servire nell’esercito, non potevano neppure combattere. Ora, finalmente, lavorano. Non come gli ariani, ovviamente, ma lavorano.

Milano, 14 ottobre 1943: Ordine di presentazione per il servizio di lavoro obbligatorio per gli ebrei inviato a Gianfranco Moscati al compimento della maggiore età.

1944, Lombardia occupata: anche un gioco da tavola può trasformarsi in strumento di propaganda. Ecco Il gioco delle tre oche: avanzando di casella in casella, il concorrente dovrà raggiungere quella finale, denominata «Ordine nuovo». Chi capita sulla casella occupata dal faccione di Stalin retrocede, chi trova «W la Germania!» suppongo vada avanti. Le tre oche rappresentano gli Stati uniti, la Gran Bretagna e
l’Unione sovietica.

Anche nella Svizzera neutrale, intanto, compaiono volantini antisemiti. Nel Canton Ticino, un foglio reca scritto «Difendete la razza – Proteggete la stirpe – Rivendicate i diritti – Cacciate gli ebrei». E anche in Svizzera sui documenti dei cittadini ebrei compare la J di Jude-Juif”.

Poco conosciuta è forse la storia dei campi d’internamento per ebrei in Italia, spesso ricavati all’interno di strutture fatiscenti. La seconda sala della mostra si apre con quello di Ferramonti di Tarsia, situato in una zona allora malarica della provincia di Cosenza. Il campo rimase aperto dal 20 giugno del ’40 al 14 settembre 1943,
quando fu liberato dagli inglesi. Sono esposte alcune lettere (la corrispondenza dei prigionieri), disegni di bambini, una fascia di tessuto colorato per celebrare la «Festa di primavera», il 23 marzo 1941 (XIX). Il campo di Ferramonti non era un Lager: c’erano una scuola e una sinagoga e si celebravano i matrimoni.

Dalla sezione dedicata ai campi italiani, si passa ai ghetti europei, con i disegni dei bambini di Terezienstadt. È incredibile, mi dico, come appaiano colorati, in quella che per me è in assoluto l’epoca più in bianco e nero della Storia.

Ormai si sta facendo tardi e la mostra è ancora lunga. Mi faccio strada tra i ghetti polacchi, dove nel ’39 furono rinchiusi tre milioni di ebrei. Osservo una cartolina illustrata che ritrae alcuni bambini del ghetto di Lodz. Alcuni ragazzi con la stella di David gialla cucita sugli abiti sono intenti a contendersi il cibo, per terra: sembra di
assistere a una partita di rugby.

Mi riprometto di tornare, restano ancora da vedere altre sezioni: Campi di concentramento, Sopravvissuti, I giusti, Gioventù trucidata; questi sono i titoli. E infine (territorio poco battuto anche questo) la Partecipazione ebraica alla resistenza in Italia (con la biografia e i nomi dei partigiani).

La mostra resta aperta fino al 22 febbraio, ad Aosta, presso il Liceo classico (via dei Cappuccini, 2). Orario d’apertura: dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 17.30; il sabato dalle ore 8.30 alle 13.30.

>>> Come indicato sopra, solo la prima foto di questo articolo è tratta dalla mostra. Le altre ritraggono alcuni particolari del campo di detenzione nazista di Terezienstadt, vicino a Praga

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4 risposte a Documenti e immagini dalla persecuzione alla Shoah – Collezione Gianfranco Moscati

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