Arriviamo a Praga di sera e il ceco mi sembra una lingua incomprensibile. L’aeroporto è molto più moderno di quel che mi aspettavo. Autobus più metropolitana più piedi e siamo all’albergo, anzi al botel, un piccolo traghetto ormeggiato lungo la Moldava e fissato alla terraferma. Nel corpo della nave è stato ricavato un hotel. Purtroppo ci tocca una stanza con vista sulla strada.
Praga è meravigliosa: mentre facciamo colazione, osserviamo i gabbiani volteggiare e farsi belli sopra il fiume. Silvia dice che somigliano alla pettola (la nostra gatta), che è questa.
Il centro della città è diviso in zone. Staré Mesto («la città vecchia») è composta di stradine, con case belle e colorate. Il reticolo di vicoli si stende tra la Moldava e la piazza vecchia, dominata dalle torri gotiche della chiesa di Tyn e dal campanile dell’orologio, con le statue degli apostoli che si affacciano da due porticine e sfilano a ogni cambio d’ora.
Accanto alla piazza sorge Josefov, l’antico quartiere ebraico. Il bellissimo Ponte Carlo unisce la città vecchia con Mala Strana, dove sorgono il castello e la cattedrale.
JOSEFOV
Una delle prime escursioni è proprio a Josefov che, a quanto pare, è una specie di museo all’aria aperta, composto da cinque sinagoghe, il vecchio cimitero, la casa delle cerimonie, il centro di studi e cultura, una galleria, un paio di uffici di riferimento e un caffè ristorante. Il tutto a Staré Mesto, nel cuore di Praga.
La nostra guida è una signora sulla sessantina, di nome Hana, che parla l’italiano per aver accompagnato il padre in un viaggio in Italia nel 1968, ai tempi del socialismo dal volto umano. Ci accompagna alla sinagoga Maiselova, costruita tra il 1590 e il 1592, che oggi funge da museo. È poi il turno di un’altra sinagoga, la Pinkasova (1535), monumento agli ebrei boemi e moravi vittime delle persecuzioni naziste. Sui muri sono scritti i loro nomi e cognomi, con la data di nascita e di deportazione. 80.000 esseri umani annientati dai nazisti. Al primo piano sono conservati alcuni dei disegni dei 10.000 bambini internati nella città-ghetto di Terezín. Foto di bimbi, di ragazzi, i loro schizzi, alcune vecchie valige.
Accanto alla sinagoga, quasi a voler tenere aperta la ferita dell’anima, l’antico cimitero. La tomba più vecchia, quella dello studioso e poeta Avigdor Karo, risale al 1439; la più recente è del 1787. Oggi si contano quasi 12.000 lapidi, anche se il numero dei sepolti è certamente più alto. Si tratta di un’incredibile distesa di pietre d’ogni tipo, alcune ritte, altre inclinate, tutte ammassate, quasi una pietraia montana. Le tombe dei rabbini e delle persone istruite sono segnate da lapidi lavorate. Un piccolo sentiero, chiuso da una catena, si inoltra tra i sepolcri e gli alberi. Per realizzare desideri, piccoli sassi, monete e foglietti sono appoggiati sopra le tombe, come quella del rabbino Löw, teologo e maestro, morto nel 1609. A lui si attribuisce la creazione del Golem, un essere artificiale plasmato con il fango al fine di difendere gli ebrei di Praga. Ma questa è un’altra storia e va raccontata altrove.
Accanto al cimitero c’è l’edificio dell’ex sala delle cerimonie e della camera mortuaria. Costruito nel 1911-12, era la sede della Confraternita funebre di Praga, attiva a partire dal 1564. I membri della confraternita si occupavano dei riti connessi con il momento del trapasso. Piangevano il defunto, ne lavavano e vestivano il corpo, lo accompagnavano al cimitero, lo seppellivano.
Un po’ lontano dalle altre, sorge la sinagoga spagnola, l’ultima che abbiamo visitato, eretta nel 1868 in stile moresco.
Notevole per gli arabeschi in stucco e i motivi orientali stilizzati, ospita al primo piano un’esposizione che ripercorre la storia della comunità ebraica ceca dall’epoca illuminista in poi, fino al periodo nazista e agli anni del comunismo. A una parete, lo splendido quadro di Karel Fleishmann (22 febbraio 1897 – 24 ottobre 1944, Auschwitz) Registration of people waiting for deportation, dipinto nel ghetto di Terezín nel 1943.
LA PRIGIONE NAZISTA DI TEREZÍN
La fortezza minore di Terezín fu creata alla fine del XVIII secolo come parte del sistema di fortificazione antiprussiano vicino alla confluenza dei fiumi Elba e Ohre (Eger). Il suo nome deriva da quello dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Alla fortezza fu molto presto assegnata la funzione di carcere. Fra i detenuti più celebri, Gavrilo Princip, il giovane studente serbo che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Asburgo, fornendo il pretesto per lo scoppio della prima guerra mondiale.
Con l’occupazione nazista della Boemia e della Moravia nel 1939, la fortezza fu adibita a carcere della Gestapo praghese. I primi deportati giunsero il 14 giugno 1940. Nel corso della guerra, passarono per la fortezza minore di Terezín circa 32.000 persone, di cui 5.000 donne. Terezín non fu un campo di concentramento vero e proprio, ma i prigionieri dovevano lavorare e vivevano in condizioni spaventose. Particolarmente duro fu il trattamento riservato ai prigionieri sovietici, o agli ebrei arrestati per attività politica, per inosservanza delle leggi razziali o per reati commessi all’interno del ghetto.
Per molti la fortezza fu solo un luogo di transito prima del campo di concentramento. Dei deportati partiti da Terezín, 5.500 non fecero più ritorno. Soltanto a Terezín, a causa delle condizioni igieniche, morirono circa 2.600 internati.
In una cella si ammassavano fino a 60-90 prigionieri.
Verso la fine della guerra, nel carcere sovraffollato, si propagò un’epidemia di tifo petecchiale, che la direzione nazista non cercò in alcun modo di contrastare. I malati poterono essere soccorsi soltanto dopo l’abbandono del carcere da parte dei guardiani, il 5 maggio 1945.
All’arrivo ci accolgono le lapidi del cimitero nazionale, sormontato da una grossa croce e da una stella di David. Circa 10.000 vittime giacciono ai nostri piedi, anche se le tombe individuali sono poco più di 2.000.
Dopo vengono il fossato e il portone; poi un altro portone, con la scritta Arbeit macht frei, più tipica dei lager che dei carceri nazisti.
Del resto, per me che cammino intimorito, qui tutto evoca il lager: le mura che opprimono, gli spazi silenziosi, l’aria fredda. Aleggia, per così dire, il ricordo delle migliaia di esseri umani che hanno vissuto e sofferto in questo luogo.
La nostra guida ci accompagna in giro per la fortezza rapidamente; sembra avere una gran fretta. Ci chiude per un attimo in una cella d’isolamento, per farci provare la sensazione. È tutto buio, non si vede niente.
Un’area è adibita a patibolo. Nella fortezza minore, trovarono la morte davanti al plotone d’esecuzione tra 250 e 300 prigionieri. Esisteva anche un capestro, ma fu utilizzato una volta sola, per impiccare tre prigionieri.
Attraverso un passaggio nel terrapieno si giunge alle fosse comuni.
I condannati a morte raggiungevano l’area del patibolo attraverso un ingresso, detto Porta della Morte. Dall’altra parte, c’erano gli alloggi del personale di guardia, con la piscina e il cinematografo. Risulta impossibile immaginare i famigliari delle guardie intenti a bagnarsi nella vasca (originariamente pensata come cisterna antincendio) proprio a due passi dal patibolo e a poca distanza dalle celle dei prigionieri.
IL GHETTO DI TEREZÍN
Il borgo di Terezín nacque nel diciottesimo secolo come città militare e rivestì un’importanza strategica nelle guerre tra l’impero asburgico e la Prussia. Deve però la sua fama alle vicende della seconda guerra mondiale, quando fu trasformato dai nazisti in un enorme ghetto nel quale concentrare tutti gli ebrei del protettorato di Boemia e Moravia. Decine di migliaia di persone morirono di stenti a «Theresienstadt» (così i tedeschi chiamavano la città); molti altri perirono dopo essere stati deportati da Terezín nei campi di sterminio dell’est.
Il primo trasporto giunse a Terezín da Praga il 24 novembre 1941. Si trattava di 324 uomini che avevano il compito di preparare la città per l’arrivo di moltissimi prigionieri. Subito dopo giunsero altre 7.000 persone. Nel ghetto, le donne e i bambini sotto i dodici anni erano divisi dagli uomini. In questo modo, le famiglie furono separate. Il 16 febbraio 1942 fu ingiunto ai vecchi abitanti della città di lasciare le loro case e, a partire dal 30 giugno di quell’anno, «Theresienstadt» fu riservata agli ebrei.
Il numero degli abitanti del ghetto crebbe rapidamente: circa 74.000 ebrei vi furono deportati dai territori dell’allora protettorato tedesco di Boemia e Moravia. A partire dalla metà dell’anno, giunsero anche trasporti dalle altre nazioni sotto controllo nazista. 43.000 prigionieri arrivarono dalla Germania, più di 15.000 dall’Austria, 5.000 dall’Olanda, 466 dalla Danimarca, 1.500 dalla Slovacchia e un migliaio dall’Ungheria. Complessivamente, più di 155.000 persone passarono per il ghetto di Terezín.
La città di Terezín ebbe, quasi da subito, una funzione molto particolare. Era interesse della propaganda nazista dipingerlo come un luogo dove gli ebrei potevano vivere tranquillamente, al riparo dalla guerra. A seguito di forti pressioni internazionali, soprattutto da parte della Croce rossa, il regime decise di permettere una visita al campo da parte di osservatori, per verificare la veridicità delle affermazioni tedesche. Terezín doveva essere “abbellita” per far colpo sugli ispettori. Vennero dati nomi alle vie, furono aperti un caffè, diversi negozi e una banca. Case e dormitori furono rinfrescati. La piazza principale acquistò un padiglione per la musica e il parco si riempì di giochi per i bambini. La commissione della Croce rossa cadde nell’inganno e valutò positivamente «Theresienstadt». Fu persino girato un film, nel quale era possibile osservare gli abitanti del ghetto, felici, intenti a disputare una partita a pallone. Queste azioni di propaganda ebbero però un esito tragico: furono ordinati nuovi trasporti verso est e la maggior parte dei prigionieri non tornò più indietro.
Nel ghetto è possibile visitare un museo, che ospita un’esposizione permanente sulla storia del ghetto (1941-1945), e una sala cinematografica, dove tale storia è raccontata in un filmato di circa quaranta di minuti e disponibile in molte lingue, tra cui l’italiano. A pian terreno, sono conservati alcuni disegni e scritti dei bambini di Terezín. È anche esposta la commovente poesia di Frantisec Bass, uno di loro, riportata qui di seguito nella traduzione inglese.
A little garden,
fragrant and full of roses.
The path is narrow
and a little boy walks along it.
A little boy, a sweet boy
like that growing blossom.
When the blossom come sto bloom,
the little boy will be no more.
Frantisek Bass
4-9-1930 – 28-10-1944, Auschwitz
[Tento una mia traduzione: Un piccolo giardino, / fragrante e pieno di rose. / Il viale è stretto / e un piccolo bambino vi cammina. / Un piccolo bambino, un dolce bambino / simile a quel fiore che cresce. / Quando il fiore riuscirà a sbocciare, / il piccolo bambino non sarà più]
Per quanto inizialmente vietate dai tedeschi, nel ghetto le attività culturali fiorirono. Terezín, in fondo, non era che un luogo di passaggio e di stazionamento prima di giungere ai campi di sterminio dell’est. La città-ghetto, inoltre, assunse presto una funzione propagandistica, per cui l’espressione artistica da parte dei prigionieri ebrei fu spesso tollerata. Molte personalità della cultura, della scienza e della politica furono deportate a Terezín, ciò che favorì il sorgere di serate di lettura, concerti, spettacoli teatrali. Gli adulti allestirono scuole clandestine per i bambini, che parteciparono pienamente alla vita culturale di Terezín, ad esempio realizzando piccole riviste. Grande spazio ebbero la musica (assunse contorni epici la rappresentazione di Brundibár, opera messa in scena dai bambini) e le arti figurative. Pittori come Bedrich Fritta, Leo Haas, Otto Ungar, Karel Fleischmann e Petr Kien realizzarono toccanti testimonianze della vita nel ghetto. Nel museo restano testimonianze di tutto questo e, in particolare, numerosi disegni di Bedrich Fritta.
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Naturalmente, nel ghetto di «Theresienstadt» gli ebrei lavoravano. Davanti a una teca di vetro, osservo un cartoncino che dà diritto a una razione extra di cibo a chi ha fatto gli straordinari. Mi passa per la testa una riflessione estemporanea sull’assurdità del doversi ammazzare di lavoro per mangiare; una riflessione sulla società e sulla sua pretesa di decidere quanto e come dobbiamo lavorare se non vogliamo morire di fame. I nazisti avevano deciso di sterminare gli abitanti di Terezín: da questo punto di vista era normale che fossero loro a decidere. Ma oggi che non ci sono i nazisti e nessuno, almeno a parole, vuole sterminarci, che cosa ci impedisce di garantire un minimo indispensabile a ognuno, indipendentemente dal quanto e dal come lavora? È solo un lampo, la mia riflessione, dura appena un attimo: per cui prendetela com’è venuta.
“I nazisti avevano deciso di sterminare gli abitanti di Terezín: da questo punto di vista era normale che fossero loro a decidere. Ma oggi che non ci sono i nazisti e nessuno, almeno a parole, vuole sterminarci, che cosa ci impedisce di garantire un minimo indispensabile a ognuno, indipendentemente dal quanto e dal come lavora? È solo un lampo, la mia riflessione, dura appena un attimo: per cui prendetela com’è venuta.”
Ciao,
la retorica che non sta in cielo e per terra del:”Se si dimentica L’Olocau$sto, si ripeteranno i stessi errori” è una retorica che lascia il tempo che trova.
Ti consiglio di essere più obbiettivo sull’analisi storica. 🙂
Ah, ovviamente senza mandare in carcere le persone dato che si vuol avere così ragione – Mastella docet.
Un saluto
HH
“È solo un lampo, la mia riflessione, dura appena un attimo: per cui prendetela com’è venuta.” Con i suoi limiti, eccetera eccetera. Però penso davvero che sia un’infamia che in una Repubblica democratica fondata sul lavoro (l’Italia) per avere il minimo indispensabile a volte sia necessario massacrarsi di fatica, in balia di contratti capestro, pensati per mantenere precari e togliere i diritti. Tutto ciò non ha nulla a che vedere col nazismo, naturalmente, e infatti si tratta solo di una riflessione “lampo”. Per questo non capisco che cosa c’entri il fatto che se si dimenticherà l’olocausto si ripeteranno gli stessi errori… Che non è per forza retorica, dipende da come s’intende la frase. Insomma, qualcosa la storia dovrà pure insegnare. Oggi mi sembra di poter dire che né le democrazie occidentali, né lo Stato di Israele abbiano imparato molto, per quanto oggi né le democrazie occidentali né lo Stato d’Israele siano nazisti…
ha teresin i bambini vengono uccisi