L’incontenibile voglia di potere e un articolo di Thomas Heams

Domenica scorsa, le elezioni francesi hanno premiato un candidato forte, aggressivo,  che si è proposto ai suoi concittadini come l’uomo della provvidenza. Questo è accaduto più volte negli ultimi anni. È successo con Silvio Berlusconi in Italia e in Gran Bretagna con Tony Blair. Ma, al di là del personalismo dei governanti, oggi più che mai la politica dei vertici dell’esecutivo appare improntata all’accentramento di gran parte del potere nelle proprie mani. Il caso più eclatante è quello di George W. Bush, eletto a dire il vero non esattamente a furor di popolo e poco credibile nel ruolo di uomo della salvezza. Fidando nella forza delle armi, il Presidente americano non ha esitato a trascinare il suo Paese e il mondo in una guerra permanente, di cui non s’intravede ancora la fine. Senza speranza di poter vincere sul campo, oggi Bush rifiuta di piegarsi al proprio Parlamento, che cerca d’imporgli una data per il ritiro delle truppe dall’Iraq. L’ostinazione di Bush, come del resto la cocciutaggine di un Prodi, incapace di fare marcia indietro su questioni d’importanza capitale per intere comunità (in Val di Susa come a Vicenza) sono fenomeni importanti, rivelatori dell’annacquamento in atto del livello di democraticità delle nazioni e della funzione di rappresentatività dei governanti.In Italia, fino all’anno scorso, sembrava imminente una riforma del sistema istituzionale in senso presidenziale. Giusto un anno fa, tuttavia, i cittadini si sono detti indisponibili, bocciando il tentativo di riforma costituzionale voluto dalla Casa delle Libertà. I  pericoli non sono per questo finiti. Oggi si parla troppo di governance e troppo poco di programmi e di idee. Si scrivono e riscrivono le leggi elettorali e sembra che anche il Capo dello Stato vedrebbe di buon occhio una riforma della Costituzione. Anche la nascita di un guscio vuoto come il Partito Democratico sembra andare nell’ottica di una ricerca spasmodica del governo, a prescindere dalle identità e dai programmi. Stiamo rischiando di vivere l’epoca politica del governo per il governo, del potere fine a se stesso. Nella parte estesa di questo post pubblico la traduzione di un articolo di Thomas Heams, amministratore della Convenzione per la Sesta Repubblica in Francia. Si tratta di un testo incentrato sulla proposta di rinunciare al presidenzialismo alla francese, per trasformare la République assegnando più importanza al Parlamento e al Primo ministro, e meno al Capo dello Stato. Si tratterebbe di una riforma delle istituzioni in senso democratico, che permetterebbe di confrontarsi maggiormente sui programmi, evitando di perdersi in uno scontro di personalità troppo spesso fine a se stesso.Ho deciso di pubblicare questo articolo dopo la vittoria di Nicolas Sarkozy alle elezioni presidenziali francesi, come antidoto contro pericolose voglie d’imitazione. Anche in Italia, infatti, si è discusso spesso circa l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Qualche anno fa chi non era d’accordo diceva che gli italiani avrebbero votato per Celentano o per Cicciolina. Gli ultimi anni, però, hanno dato corpo a ombre più cupe. L’articolo che segue è pubblicato su gentile concessione del sito dell’Altra Campagna, movimento nato in occasione delle elezioni presidenziali francesi, che riunisce intellettuali, politici, sindacalisti e militanti, animatori di una rete trasversale di dibattito e azione politica all’interno della quale s’incontrano diverse esperienze e culture della sinistra. La traduzione – si prega di avere pazienza – è opera mia.

 Sopprimere l’elezione del Presidente della Repubblica a suffragio universale

 Come farlo e perché 

 Thomas Heams* 

 A lungo la stabilità della Quinta Repubblica è stata invocata per giustificarne tutti gli aspetti istituzionali, in primo luogo il più simbolico, l’onnipotenza del Presidente della Repubblica. I critici storici delle nostre istituzioni hanno attraversato alti e bassi, sia quando la loro voce coraggiosa, come quella di Pierre Mendès-France, si è spenta senza poter cambiare le cose, sia quando si siano integrati, come François Mitterand, in quel sistema che avevano saputo denunciare così bene.Ma che cosa rimproverare, esattamente, alla madre di tutte le elezioni? In questa sede, muoveremo principalmente due critiche.La prima riguarda, paradossalmente, il suo carattere arcaico. Infatti, questa elezione fornisce un abito democratico e fintamente moderno a una reminiscenza monarchica profondamente retrograda: quella di un individuo provvidenziale, investito di un potere esorbitante, al di fuori di qualsiasi principio di responsabilità e di controllo. Di conseguenza, il popolo è convocato periodicamente in occasione di un formidabile scontro di personalità, che assume le sembianze di una campagna elettorale, ma che di fatto non è altro se non un’occasione per giocare a chi recluta, un florilegio di promesse patetiche o pericolose e un’esasperazione isterica del dibattito democratico attraverso una personalizzazione caricaturale e infantile delle poste in gioco. L’elezione diretta, in teoria al di sopra dei partiti, in realtà è ben inquadrata in essi ed costituisce, in filigrana, una critica permanente della democrazia rappresentativa. Nell’illusione di un rapporto immediato tra il capo e il suo popolo, è sempre accennata l’espressione di una sfiducia verso quell’intermediario che è il Parlamento.Gli altri Paesi europei lo hanno capito bene, poiché hanno scelto tutti di fare delle legislative il loro appuntamento elettorale fondamentale. Intrinsecamente, queste elezioni collettive costituiscono il luogo legittimo per un dibattito «programma contro programma», che permette evidentemente di fare scelte più illuminate di quando l’essenza di una campagna consiste nel sapere chi ormai è «usurato» e chi invece appare «sprovveduto». Infine, precisazione importante, queste elezioni collettive non impediscono ai destini individuali di compiersi, giacché ne esce un capo dell’esecutivo, il Primo ministro, capo della maggioranza e responsabile davanti al Parlamento.La seconda critica riguarda la diluizione del principio di responsabilità. Le istituzioni, è vero, non sono assolutamente rigide e la comparsa del fenomeno della coabitazione ha rivelato fino a che punto la Presidenza della Repubblica può essere proteiforme. Nelle fasi di coabitazione, il Primo ministro ha una fortissima legittimazione e governa, ma il Presidente conserva il suo potere di interferire, determinando una tensione permanente al vertice dello Stato, propizia perché i due capi dell’esecutivo si attribuiscano l’un l’altro la responsabilità di una sconfitta o rivendichino la paternità dei successi, abituando l’elettorato a una visione cinica del potere. Quando la maggioranza parlamentare e quella presidenziale coincidono, il primo ministro è nel migliore dei casi un aiutante di campo malleabile e nel peggiore, e molto spesso, un delfino pericoloso. Esiste dunque una concorrenza, non un equilibrio, tra i poteri al vertice dello Stato, là dove tutto dovrebbe concorrere alla chiarezza e all’efficacia nell’esercizio delle responsabilità. Invece, la confusione regna e si diffonde, minando sempre più la fiducia che gli elettori sono disposti ad accordare ai loro dirigenti. Anche in questo caso, sembrerebbe più semplice accontentarsi di un solo capo dell’esecutivo. Per le ragioni evocate qui sopra, la semplicità e l’efficacia sostengono la causa di un capo unico dell’esecutivo. Dal momento che dirige quotidianamente il governo, siccome deve rendere conto della sua politica davanti al Parlamento, questo capo dev’essere il Primo ministro.Ripensare l’elezione del Presidente della Repubblica a suffragio universale diretto e dunque togliergli il principale dei suoi poteri significa andare nella direzione di una riorganizzazione dei poteri pubblici attorno al principio di responsabilità, significa rifiutare le chimere dell’uomo della provvidenza, significa infine avvicinarsi agli standard europei, perché non siamo mica obbligati ad essere indefinitamente convinti di avere ragione contro tutti i nostri vicini. Si tratta dunque di un atto di vivificazione democratica. Questa misura istituzionale non avrebbe senso presa da sola, ma va di pari passo con una serie di proposte, che vanno dalla rivalutazione del ruolo del Parlamento all’istituzione del mandato unico, passando attraverso tutta una serie di modalità.Spesso si contesta a questa proposta la sua inattuabilità.Da un lato, gli elettori sarebbero poco propensi a vedersi togliere questa «conquista democratica». L’argomento, a guardare più da vicino, non regge. Quando si considerano i tassi di astensionismo sempre crescenti in occasione delle ultime tornate di elezioni presidenziali, che hanno avuto il culmine nel 2002 con le conseguenze che tutti conoscono, si ha il diritto d’interrogarsi con serietà sul presunto affetto dei cittadini per questo istituto. Del resto, se ci si concede che questa è una misura necessaria, si vorrà poi pretendere che i francesi non siano in grado di comprendere?Sarebbe però improbabile immaginare un candidato alla Presidenza che spieghi che il suo programma è sopprimere la carica per la quale si presenta. Questo argomento è certamente il più forte, ma è ora opportuno proporre alcuni esempi di possibili soluzioni.Perché non immaginare un candidato coraggioso, atteso dai francesi, che annunci, alla vigilia dell’elezione presidenziale, la sua candidatura… a Matignon! [residenza ufficiale del Primo ministro francese, NdT] Costui proporrebbe agli elettori di votare per un presidente simbolico, un’autorità morale (ad esempio una Simone Veil, un Jacques Delors) che s’impegnerebbe a sua volta a nominarlo Primo ministro, a non interferire nei suoi poteri, in attesa che una modifica costituzionale sia redatta e votata.Un’altra ipotesi, più graduale, sarebbe di mantenere ancora per una volta l’elezione a suffragio universale diretto, ma di approfittare del quinquennio per trasferire i poteri principali al Primo ministro attraverso un referendum costituente e constatare rapidamente che l’elezione presidenziale nella sua forma attuale è priva di grandi vantaggi e non merita più la corrente mobilitazione nazionale.Sarebbe possibile criticare queste proposte, o sfumarle. Non servono ad altro che a fornire un quadro e a provare che con un po’ di volontà e il rispetto degli elettori non è fatalmente necessario restare prigionieri di un sistema ormai senza più fiato. Oggi il coraggio consiste nel formulare una diagnosi. Poi avremo la cura a portata di mano.

 Thomas Heams*

 *Amministratore della C6R-Paris (Convention pour la 6ème République) 

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2 risposte a L’incontenibile voglia di potere e un articolo di Thomas Heams

  1. sara scrive:

    che pensi della politica?

  2. Mario scrive:

    In che senso che cosa penso della politica? Cercherò di rispondere in un prossimo articolo, ma è una domanda enorme…

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