Quelle ritratte nell’immagine sono le cascate di Lillaz, situate vicino a Cogne (Aosta). Diversi anni fa avevo pubblicato in una rivista locale un breve racconto nel quale un oste apriva un chiosco all’altezza del ponte sopra le cascate; il mio “lavoro” aveva suscitato una polemica inattesa, perché il proprietario del ponte si era visto riconosciuto in quelle poche righe, il che assolutamente era estraneo alle mie intenzioni, anche perché avevo sempre ignorato che quel ponte avesse un proprietario.
Fu quell’episodio a farmi riflettere sul fatto che ciò che avevo sempre immaginato di tutti – una montagna, un bosco, un ponte-cioè-un-pezzo-del-sentiero – non è per forza pubblico. Del resto, da che mondo è mondo, i prati che offrono spettacolo di sé al camminante e al turista sono poi i pascoli utilizzati dagli allevatori, che non dobbiamo calpestare, «Sennò io cosa mangio?», come dicono le mucche nei cartelli, oppure perché, come recitava un’altra iscrizione più diretta, i prati «son fonte di reddito».
Eppure, che una montagna possa appartenere a qualcuno mi sembrava e continua a sembrarmi strano, tanto che per un pezzo, raccogliendo castagne nei boschi, non ho avuto il minimo sentore di stare “rubando” qualcosa al proprietario di un “fondo”. Dove ancora la natura è selvaggia, mi dicevo e mi dico, come fanno gli alberi a essere “miei” o “tuoi”, quand’è ovvio che sono di tutti, e soprattutto degli scoiattoli, degli insetti, degli uccelli che li abitano, degli animali che vi si nascondono e ne fanno la propria casa?
Insomma, senza voler fare per forza la rivoluzione del proletariato, senza ambire a socializzare ogni cosa e a ridurre sul lastrico tanti “padroni” che in fondo nulla obiettano se passeggio per i “loro” boschi, devo ammettere che mi dà fastidio l’idea che sempre più il concetto di «proprietà privata» sia considerato normale in ogni ambito.
Qua non si parla della casa. Non si parla neppure della propria attività, se una persona decide di c(r)edere alle lusinghe del mercato e trasformarsi in imprenditore. Parlo piuttosto di quella terra della quale siamo tutti ospiti, forse non sempre i migliori ospiti possibili, dell’aria che ci circonda, della strada che porta il viaggiatore dall’orizzonte che ha dietro le spalle a quello che lo attende… all’orizzonte.
Una terra – la Terra – nella quale forse non tutto può essere di tutti, ma neppure tutto dev’essere di qualcuno.
Mi sono trovato a riflettere sul concetto di «bene comune» – l’acqua da bere, l’aria, il paesaggio, l’ambiente, ma anche l’accesso al lavoro, i diritti – in un’epoca che tutto va privatizzando (la gestione dell’acqua, la qualità dell’aria, il paesaggio, l’ambiente, e anche l’accesso al lavoro, i diritti), come se l’interesse di pochi dovesse prevalere sulla necessità collettiva. Come se quella fosse la via, l’unica via possibile.
Sul referendum per l’acqua pubblica è stato scritto tutto lo scrivibile, per cui mi sono dilungato nel racconto personal-poetico del mio approccio al tema anziché entrare nel dettaglio ma, sintetizzando per chi si fosse messo solo ora all’ascolto, è possibile dire che oggi in Italia, dopo 15 anni di privatizzazioni, l’acqua pubblica, quella del rubinetto, può essere almeno in parte gestita da privati, con finalità di lucro. Dove questo è accaduto la bolletta dell’acqua è aumentata, non necessariamente è migliorato il servizio.
Il referendum che si terrà, probabilmente, a giugno chiede che sia riconosciuto il valore dell’acqua come bene comune, impedendo che vi si possa lucrare sopra e imponendo, conseguentemente, un ritorno alla gestione pubblica della sua distribuzione. Si tratta di un referendum importante, che non possiamo permetterci il lusso di lasciar fallire, magari per non aver raggiunto, l’ennesima volta, il quorum. Sta a noi adoperarci per la riuscita dell’appuntamento referendario.
Che cosa pensi in proposito il governo lo ha riassunto molto bene Ugo Mattei sul manifesto del 5 febbraio, con un incipit brillante che mi permetto di “rubare” (in cambio invito pubblicamente tutti a leggere «il manifesto», che non ha padroni né – conseguentemente – denari):
«Il ministro degli interni della Repubblica di Bunga Bunga ha comunicato ieri che il referendum contro la privatizzazione dell’acqua si terrà il più tardi possibile, ossia domenica 12 giugno. La motivazione è che quel giorno una gran parte delle laboriose popolazioni della Repubblica si troveranno al mare o imbottigliate in coda nei loro grandi Suv e che quindi non potranno raggiungere le urne, facendo così saltare il quorum. L’annuncio costituisce il solito schiaffo in faccia al Presidente della Repubblica che, non consultato, si troverà a firmare un decreto che costerà ai pochi fra i cittadini che pagano le tasse una cifra vicina ai 10 milioni».
Perché ovviamente la privatizzazione dell’acqua è un business enorme e il governo, si sa, è dalla parte degli affari. Perché ovviamente questo, si sa, non è il primo referendum che si cerca di far fallire “mandando” tutti al mare, che almeno ci pagassero la sdraio.