Cabaret Capezzone

Parigi, si dice, val bene una messa, ma un caffè al bar mi è costato un euro più la visione e l’ascolto di Daniele Capezzone, ex radicale e oggi – come peggiora il mondo! – portavoce del Popolo della Libertà, intervistato da una conduttrice del Tg4 della quale ignoro il nome.

«Ciò di cui il Paese ha bisogno», ha detto Capezzone, con riferimento alla difficile situazione economica, «è serietà». Serietà da parte del mondo della politica, naturalmente, al che uno si aspetta un annuncio clamoroso, tipo che il peggior governo degli ultimi 150 anni abbia scelto, responsabilmente, di dimettersi; che si andrà, come in Spagna, le elezioni anticipate.

Invece no. Parlare di «serietà», secondo Capezzone, non è in contraddizione con l’elogiare l’esecutivo di Berlusconi, Bossi, Brunetta, Calderoli, Maroni, Tremonti e compagnia (se ne salvasse uno!); governo che anzi – anche la sinistra dovrebbe ammetterlo, secondo Capezzone – da tre anni a questa parte ha sostenuto il Paese, alle prese con una crisi economica di dimensioni mondiali!

Per colpa di un caffè, insomma, mi ritrovo ad ammirare Capezzone! Siamo onesti: bisogna essere in gamba per dire certe cose senza mettersi a ridere neppure una volta… Anni di esercizio allo specchio, immagino, ripetendo frasi tipo: «La legge è uguale per tutti» oppure: «In Italia la sovranità appartiene al popolo», sforzandosi di rimanere serio.

In questo Capezzone ha dimostrato di essere bravissimo, esattamente il portavoce di cui il Pdl aveva bisogno.

>>> L’immagine di questo articolo, a rigore, dovrebbe essere una foto di Daniele Capezzone ma, non volendo scendere al di sotto di certi standard, ho optato per la Tour Eiffel (in fin dei conti il post si apre con Parigi).

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Unità nazionale, caro Presidente

Riprendo la mia vecchia abitudine (certi vizi sono duri a morire) di scrivere alle più alte cariche istituzionali dello Stato, nella convinzione che – proprio perché tali – debbano farsi carico di ascoltare i cittadini.

So che la mia lettera non cambierà le cose, ma avverto l’urgenza di “mettere in guardia” il Capo dello Stato contro i pericoli dell’unità di tutti contro la crisi.

Tutti uniti per chi? – Lettera aperta al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

Gentile Presidente,

negli anni mi è capitato altre volte di scriverLe, talora con tono equilibrato, talora in modo decisamente polemico, per esprimere, come semplice cittadino, il mio disappunto per alcuni decreti e leggi da Lei firmati, che io – nel mio piccolo – avrei rispedito al mittente. In realtà, sono consapevole dei limiti che la Costituzione impone all’agire del Presidente della Repubblica e non intendo alimentare qui nuove polemiche. Anzi, mi sembra che di fronte all’aggravarsi della situazione economica e sociale italiana, Lei stia cercando con determinazione di far uscire il Paese dalla palude rappresentata da un governo senza politica e in crisi internazionale di credibilità.

Ciò detto, vengo al motivo di questa lettera.

Signor Presidente, la mia impressione è che, nei Suoi sforzi per superare l’impasse del berlusconismo cadente, Lei dia credito all’equivoco per cui – usciti di scena i protagonisti politici degli ultimi anni – sarà possibile tornare alla normalità, uno stato che dovrebbe coincidere, secondo le speranze di alcuni, con un ritorno alla buona programmazione economica, alla crescita del Pil e magari a una più diffusa legalità. Dai Suoi inviti alla «responsabilità» per una manovra “lacrime e sangue” o all’«unità» di tutti contro la crisi, mi pare di intuire che vanno cambiate le persone (certe persone), ma le politiche devono restare le stesse: le regole dell’euro non sono rinegoziabili, bisogna aiutare i responsabili della crisi a rimettersi in piedi, l’economia si cura con i tagli al welfare e con le grandi opere, mentre ritirare i soldati dall’Afghanistan sarebbe “tradire” i nostri alleati e venir meno alle «responsabilità internazionali» dell’Italia.

Eppure, il Capo dello Stato non può non sapere che negli ultimi anni la società italiana è diventata meno giusta, che la forbice tra gli immensamente ricchi e i sempre più poveri si è divaricata continuamente, che i beni pubblici sono stati depredati, i privilegi di alcuni consolidati, lo Stato sociale aggredito, i territori devastati dal cemento, dall’inquinamento, da un senso diffuso di accettazione dell’illegalità. Questi di cui parlo non sono eventi natuarali, grandinate o tsunami, ma il prodotto di politiche di stretta osservanza liberista: le stesse politiche che Washington, Bruxelles e le famose agenzie di rating vogliono imporre agli Stati, sulla pelle dei cittadini.

Occorre cambiare strada, signor Presidente. Occorre ribadire, in sede europea, che i singoli Stati devono poter intervenire di più in economia, anche gestendo direttamente i servizi essenziali per la vita del cittadino. Occorre ribadire che lo Stato deve fornire istruzione, assistenza medica e persino pensioni, non utilizzare i fondi pubblici per finanziare scuole private, ospedali privati, fondi pensione privati! Occorre ribadire antichi principi che trasudano buon senso: che «chi rompe paga», ad esempio; perché non c’è ragione per cui ai vertici di banche, di aziende o dell’economia restino gli stessi individui o le stesse imprese che hanno speculato, rovinato migliaia di esseri umani, provocato la crisi.

E qui vengo al cuore della mia lettera. In questi giorni si parla di continuo di «governo del Presidente», di «governo tecnico», di «unità nazionale contro la crisi»; formule che vorrebbero mettere insieme tutti i “volenterosi”, al nobile scopo di superare uno dei momenti più difficili del Paese. In una sorta di ricomposizione obbligata del conflitto sociale, si vorrebbe mettere insieme i lavoratori e i sindacati con gli imprenditori, categorie portatrici di interessi spesso fra loro opposti e non accomunabili per possibilità di contrattazione. «Responsabile» è stato definito, in questo senso, l’accordo della Cgil con Confindustria, Cisl e Uil dello scorso 28 giugno, che di fatto mette in mora il diritto di sciopero e permette deroghe infinite ai contratti nazionali. «Responsabili» sono stati definiti quegli operai della Fiat che hanno accettato i diktat di Marchionne non per convinzione, ma pur di conservare il lavoro. «Responsabili» sono anche quei cinquantenni licenziati che magari si riciclano consegnando surgelati a domicilio con una laurea e tanti anni di lavoro alle spalle.

Io trovo, signor Presidente, che avallare questa visione dell’economia e della società con inviti all’«unità» sia poco «responsabile».

Occorre, signor Presidente, pensare un altro modello economico. Perché quand’anche la «crescita» fosse per forza un concetto positivo, non lo sarebbe in ogni caso una crescita qualunque: in pieno XXI secolo abbiamo territori avvelenati dal carbone, sondiamo il mare delle isole Tremiti o della Sicilia alla ricerca di petrolio, ci ammaliamo sempre più spesso di cancro e permettiamo che i nostri bambini siano fumatori passivi dell’equivalente di centinaia di sigarette all’anno, se solo hanno la sfortuna di venire al mondo in certi quartieri, per permettere alle industrie di violare gli stessi limiti imposti dalla legge per le emissioni di inquinanti.

Quand’anche si creda davvero che l’indispensabile sia «tornare a crescere», chi lo deve fare? Le stesse persone che sono responsabili della situazione descritta qui sopra? Perché dovrebbe essere moralmente legittimo dialogare con Confindustria senza prima aver preteso il rispetto delle leggi italiane sull’inquinamento? È proprio sicuro, signor Presidente, che è con quella gente lì che ci dobbiamo “unire”, «responsabilmente»?

Silvio Berlusconi, signor Presidente, non è che uno dei problemi di questo Paese. Passato lui, restano gli altri e per risolverli occorrono un modello di sviluppo nuovo e alleanze meno screditate. Occorrerebbe forse, in certi casi, il semplice rispetto delle leggi, a partire dai principi e dai valori della Carta costituzionale.

Grazie per l’attenzione,

Mario Badino
Cittadino italiano

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Curriculum vitae

Alla c.a. del Direttore Ufficio Reclami c/o Repubblica Italiana S.p.A., Ministero per i Rapporti con il Cittadino Consumatore.

Oggetto: Sforzi non premiati.

Gentile Direttore,

scrivo per sporgere reclamo contro la sfortuna che mi ha impedito, finora, di farmi una posizione nel mondo dello spettacolo. Eppure, ho seguito tutte le tappe del CV ideale, quello consigliato dalla pubblicità delle principali reti televisive e dal Manuale del Buon Cittadino distribuito a tutte le famiglie italiane a cura del Ministero della Pubblica Istruzione, congiuntamente con il Ministero del Lavoro.

Ma andiamo con ordine.

Ho cominciato dalla gavetta, offrendo sempre il mio sorriso migliore, facendo palestra e pagando i migliori fotografi per realizzare più di un book.

Ho aggiornato costantemente il mio profilo Facebook con immagini e frasi spiritose e ho organizzato eventi nei quali potessi essere protagonista. Rompendo i coglioni a destra e a manca, anche ai più perfetti sconosciuti, ho raggiunto i 5mila amici e ho aperto una pagina pubblica. Ho qualche migliaio di fans.

Ho fatto i provini per il «Grande Fratello» ma non ho avuto fortuna.

Ho fatto le selezioni per «Amici» ma non ho avuto fortuna.

Sono entrato a far parte del pubblico fisso, però, e in due o tre occasioni ho avuto il microfono in trasmissione per criticare i ballerini e i cantanti.

Come consigliato dal Manuale, ho anche criticato la Commissione, e mi sono ricordato di venerare Maria.

Ho fatto il provino per «Uomini e Donne» ma non ho avuto fortuna. Inizio a ipotizzare un complotto contro di me. La gente è invidiosa.

Qualche popolarità l’ho avuta grazie al video su YouTube nel quale mi si vede mentre prendo il sole sul balcone di casa senza il costume.

Un altro video che ha avuto fortuna è quello in cui gioco a calcio con un melone.

Voto il partito di governo. Mi piacerebbe fare politica ma finora non ho avuto fortuna.

Ho partecipato come concorrente a due trasmissioni televisive. La prima non conta, perché va in onda su una piccola TV regionale; la seconda è stata su RaiUno, ma non ho avuto fortuna e non ho vinto niente.

Non so più dove sbattere la testa. Ho ricercato attivamente le giuste amicizie, come suggerito dal Manuale, ma sempre senza fortuna. Che altro mi resta?

Direttore, sono nelle sue mani.

La ringrazio per l’attenzione e porgo i più distinti saluti.

Risposta del Direttore Ufficio Reclami c/o Repubblica Italiana S.p.A., Ministero per i Rapporti con il Cittadino Consumatore.

Non desista! È convinzione di questo Ministero che tutti abbiano diritto al successo e alla fama. Qualcosa per lei troveremo, anche in virtù del suo invidiabile curriculum vitae… Magari, un posto nella prossima edizione dell’«Isola dei Famosi». Ne abbiamo piazzati tanti più sconosciuti di lei! Mi raccomando, però, le prossime elezioni: facciamo funzionare come si deve l’Azienda Italia!

Cordiali saluti,

Dott. Comm. Eusebio Trinciagrulli
Direttore Ufficio Reclami c/o Repubblica Italiana S.p.A., Ministero per i Rapporti con il Cittadino Consumatore

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Guerre umanitarie, l’Italia non demorde

La morte del caporal maggiore David Tobini, paracadutista romano, quarantunesima vittima italiana nell’operazione Isaf (International Security Assistance Force), la terza solo nel mese di luglio, rinfocola una volta di più le polemiche suscitate in Italia dalla nostra presenza militare in Afghanistan. I «nostri» ragazzi vanno a morire, dice la Lega, e sembra che la questione sia tutta lì: quante vittime siamo disposti ad accettare per tener fede ai nostri impegni internazionali? O, peggio: quanti soldi siamo disposti a spendere in un momento di crisi per missioni che ci vedono impegnati lontano da casa?

Domande apparentemente lucide, che in realtà denotano egoismo e ruffianeria politica, ma che non sono di per sé eludibili, perché senz’altro chi comanda una missione è responsabile della vita dei propri soldati e chi governa un Paese deve rendere conto ai cittadini di come gestisce i soldi pubblici.

L’egoismo risiede nel presentare i 41 caduti italianimagari insieme al numero più grande, ma imprecisato, dei soldati occidentali uccisicome le uniche vittime di 9 anni di guerra. Un alone di mistero – e un imbarazzante silenzio mediatico – circonda invece i dati relativi alle vittime afghane, civili e combattenti, che non meritano gli onori della cronaca e possono essere più facilmente nascoste al pubblico italiano.

La ruffianeria consiste nel cavalcare l’onda dei sentimenti popolari: di fronte a un lutto si ricorre alle consuete formule magiche, come «negoziare una exit strategy», o «gaduale disimpegno a partire dal (segue in genere la data dell’anno successivo o di quello dopo)»; di fronte a una situazione economica grave tutto ad un tratto ci si accorge – correttamente, si badi – che le spese militari sono fra le più ingenti e vanno tagliate.

Eppure, la domanda più logica sarebbe questa: qual è il senso della presenza italiana in Afghanistan, in Libia e negli altri teatri di guerra? Che cosa stanno facendo i nostri soldati? A che tipo di avventura partecipano? Sono missioni moralmente accettabili o no? E ancora: esistono prospettive di successo o siamo impantanati in un clamoroso fallimento?

Perché, se veramente si dovessero condividere le finalità e le modalità di gestione delle varie missioni, allora certo non basterebbe una serie di lutti a metterne in disussione la prosecuzione. Le vittime, purtroppo, fanno parte di ogni guerra. Ho scritto però una parola scomoda: «guerra»; scomoda non solo perché la nostra Costituzione la vieta (vieta la guerra, non la parola), ma anche perché nascondersi dietro la foglia di fico di un’espressione attenuativa («missione di pace», «missione umanitaria») genera problemi inattesi. Perché a un certo punto devi dimostrare che il tuo intervento non è una guerra. Così tocca mandare i caccia bombardieri a portare la morte dal cielo (e le bombe possono essere tecnologiche quanto si vuole, ma “intelligenti” mai), al fine più o meno dichiarato di evitare troppe vittime fra le proprie truppe, e con il bel risultato di procurarne molte di più presso la popolazione civile del Paese che si è andati ad «aiutare».

La gente che per nove anni ha votato questo tipo di missione è oggi in “crisi di risultato”, perché la missione è ben lontana dal conseguire i suoi obiettivi e non gode neppure dell’appoggio delle popolazioni locali (non in Afghanistan, almeno, e non in tutta la Libia). Ci si domanda allora come rispettare i famosi «accordi internazionali» senza scontentare troppo la popolazione, cioè l’elettorato. Un trucco è fare la voce grossain questo la Lega è maestra. Con il paradosso di un Calderoli che dichiara: «in questo momento provo tanta rabbia verso una missione che non comprendo e non condivido», e poi garantisce il voto favorevole del proprio partito.

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Discorso di fine anno del presidente Berlusconi

Il racconto che segue è soltanto un racconto. L’evento di cui parlo non si è mai prodotto e sono consapevole che l’attuale presidente del consiglio italiano non pronuncerebbe mai le parole che gli “presto”. Potremmo immaginare, al limite, che non si tratti neanche del vero presidente, ma di un suo omonimo. Quella che segue, comunque vogliate metterla, è un’opera di fantasia e, come ogni opera di fantasia, insieme a cose false può dire, accidentalmente, anche cose vere.

Ciò precisato, l’autore non accetta querele e, in proposito, ricorda due cose:

1. Che chi se la prende dimostra di avere la coda di paglia;

2. Che, come disse un altro: «L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti [] Qui ho appreso la passione per la libertà». A cominciare da quella di parola.

Il testo è liberamente riproducibile alle condizioni previste dalla licenza Creative Commons 3.0. Se ne incoraggia pertanto la libera diffusione.

Discorso di fine anno del Presidente Berlusconi

Ieri sera, mentre guardavo il bel programma Lo Show dei Recod su Canale 5, improvvisamente la trasmissione è stata interrotta da un comunicato del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Incuriosito per l’insolito avvenimento, ho verificato se la stessa cosa stesse capitando sugli altri canali: da Mediaset, alla Rai, alla “riottosa” La 7, e fino alle reti locali, tutte le trasmissioni erano sospese, a beneficio del premier, che sorrideva benevolo alla telecamera, con alle spalle la libreria del suo studio e le foto di famiglia (allargata), come nel celebre discorso della Discesa in Campo.

Siccome ho subito intuito che quello che stavo vivendo, comodamente spaparanzato sul divano di casa, era un momento che passerà alla storia, ho pigiato il tasto REC del telecomando e oggi sono in grado di fornire la traslitterazione dell’intervento di Berlusconi, in favore dei posteri e di quei pochi fra i contemporanei che se lo sono perso. Come ogni buon testimone storico, aspiro alla massima oggettività possibile, perciò, in questa sede, mi asterrò da qualsiasi commento.

Buona lettura.

Silvio Berlusconi: «L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore; da Craxi e Licio Gelli, quello di politico.

«Qui ho appreso la passione per la libertà, quella che da 15 anni stanno tentando di togliermi, mandandomi in prigione. Così mi sono inventato tutte quelle bugie sulle toghe rosse e mi fa ridere ancora, anche in un momento per me così difficile come quello presente, pensare a tutte le persone che ci hanno creduto davvero. Del resto, sono pur sempre io che, da decenni, trasmetto Beautiful invece di mandare in onda qualcosa di decente.

«Se ho scelto, a suo tempo, di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica è stato perché non volevo essere rinchiuso in carcere e neppure finire spiantato, dopo tutta la fatica fatta per diventare miliardario. Per colpa mia, da 15 anni a questa parte il Paese è governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato-presente politicamente ed economicamente fallimentare, che aumenta le disparità sociali e produce devastazione ambientale, svende le ricchezze comuni a lobby d’interesse e non disdegna, a fini di guadagno, di accordarsi con la criminalità organizzata.

«Ma ora il governo ha i giorni contati e quel che è successo al collega Papa mi fa capire che nessuno è intoccabile. Così, per meglio preservare la mia libertà, ho rassegnato oggi stesso le mie dimissioni da Presidente del Consiglio e da Parlamentare.  Sembra infatti inopportuno, per il leader di una grande democrazia, fuggire ad Antigua con l’aereo della Presidenza del Consiglio e, da latitante, conservare le proprie cariche. Ammetto di essere stato tentato dall’idea di continuare a governare online, attraverso Facebook (quali opportunità le nuove tecnologie!), ma alla fine è prevalsa la paura che gli elettori potessero togliermi l’amicizia, perciò non se ne farà niente…

«Inseguito dall’ombra dei processi, dal peso del debito pubblico e dall’aver gozzovigliato troppo a lungo alle spalle degli altri, in combutta con Confindustria e altri poteri forti, oggi me la svigno e lascio il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento. Mai come in questo momento l’Italia, che da sempre si affida a profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata, creative e innovative, capaci di darle una mano, di far funzionare lo Stato. Io, naturalmente, non c’entro proprio nulla!

«Il movimento referendario ha fatto emergere la scelta popolare per un nuovo sistema economico, attento alla salvaguardia dei beni comuni. È indispensabile che al potere consortile della casta si opponga l’azione delle persone oneste, dei movimenti nati dal basso, capaci di attrarre a sé il meglio di un Paese pulito, ragionevole, moderno.

«Io non ho altro da proporre se non inceneritori, centrali nucleari, rigassificatori, grandi opere inutili che fanno gola a mafie e imprenditori: la Tav, i prefabbricati all’Aquila, l’insulso Ponte sullo Stretto, la militarizzazione dei territori… Io amo imporre la mia idea di sviluppo, non desidero affatto condividere con la popolazione le responsabilità delle scelte. Che me ne frega a me se si tratta del loro futuro?

«L’importante è proporre anche ai cittadini italiani gli stessi obiettivi e gli stessi valori che hanno fin qui consentito lo sfruttamento del Terzo Mondo: per far ciò, occorre impoverire la maggioranza degli italiani e disgregare il tessuto sociale del Paese. In questo, devo dire, me la sono cavata piuttosto bene.

«Ma, cribbio! Non vi siete mai accorti, in 15 anni, di quante volte vi ho preso per il sedere, promettendovi il taglio delle tasse, la crescita dell’economia, la mano di mio figlio? E non vi fa salire sulle barricate l’idea che mentre faticavate per arrivare alla fine del mese io ballavo il bunga bunga con qualche graziosa signorina?

«Ho tagliato i servizi; favorito i più abbienti; ho messo la Gelmini all’istruzione, la Carfagna alle pari opportunità e Sandro Bondi alla cultura; con l’ultima manovra penalizzo le famiglie e i più deboli e, nonostante ciò, intendo continuare a spendere i soldi del contribuente per giocare alla guerra in Libia o in Afghanistan. Che cosa devo fare ancora per farvi arrabbiare?

«Per questo ho deciso di anticipare il mio discorso di fine anno. Perché sapevo che il governo alla fine dell’anno non ci sarebbe arrivato. Così, ancora una volta, la storia d’Italia è a una svolta e io vi dico che è possibile realizzare insieme un grande sogno: quello di un’Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno, più prospera e serena; in altre parole, un’Italia senza di me.

«Quando vi sveglierete dall’ipnosi collettiva che le mie televisioni hanno saputo generare, vi dico che potrete, vi dico che dovrete, finalmente, costruire insieme, per voi e per i vostri figli, un nuovo miracolo italiano. Io sarò lontano, nella mia villa di Antigua. In fondo è dal referendum che dico di voler andare al mare…».

[Il discorso del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è stato trasmesso a reti unificate nella prima serata di domenica 24 luglio 2011. Il giorno successivo, lunedì 25, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, prendendo atto della gravità della situazione, ha sciolto le Camere e posto fine alla XVI legislatura]

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Comunicato di un gruppo di detenuti del Cie di Ponte Galeria – da Radio Ondarossa

Il comunicato che segue è stato scritto da alcuni detenuti del Cie di Ponte Galeria (Roma) e inviato alla redazione di Radio Ondarossa, dal cui sito copio e incollo.

Dobbiamo tutt@ lottare per «una visione alternativa della frontiera e del diritto alla libertà di circolazione», come scrive Fortress Europe, che per domani, lunedì 25 luglio, ha lanciato l’iniziativa LasciateCIEntrare, una serie di visite parlamentari contro la censura voluta dal ministro Maroni (quello che il “compagno” Fini vorrebbe premier) che ha vietato con una circolare l’ingresso di stampa e associazioni nei Centri di identificazione ed espulsione a partire dallo scorso 1° aprile.

Dobbiamo lottare ma, per farlo, non possiamo prescindere dall’ascoltare le parole di chi subisce in prima persona, sulla propria pelle, un sistema ingiusto che strozza i poveri a vantaggio dei ricchi e li costringe a rischiare la vita in mare per poi finire magari dietro le sbarre senz’aver commesso alcun reato, se non quello di non avere i documenti a posto.

Comunicato di un gruppo di detenuti del Cie di Ponte Galeria
Roma, 13 luglio 2011

Scrivo a nome di cinque persone che sono detenute qua nel centro di Ponte Galeria a Roma.

Siamo quasi 200 uomini e 50 donne detenuti al centro di Ponte Galeria.

Qua siamo detenuti come colpevoli, come persone che hanno commesso un reato.

Perché sei mesi? è un periodo troppo lungo.

E ora vogliono aumentare a diciotto mesi.

Ma quelli che fannno queste leggi non sanno niente della nostra situazione e della nostra sofferenza.

Soprattutto quel partito della Lega Nord, quello del ministro Maroni.

La corte europea ha tolto l’articolo 14 della legge Bossi-Fini e questa è una sconfitta per Maroni.

E allora lui vuole fare una rivincita con un’altra legge che ammazza la gente: vuole convincere gli italiani che è per motivi di sicurezza ma è una legge fatta per un motivo fascista e basta.

Qua c’è gente per bene e gente per male, come in tutto il mondo.

Anche in Veneto, da dove viene lui, ci sono tanti stranieri che lavorano nell’agricoltura e nelle fabbriche.

A Milano e a Brescia il lavoro duro lo fanno gli stranieri.

Noi non siamo venuti qua dalla Tunisia per fare i delinquenti.

Una volta gli italiani hanno fatto per primi l’immigrazione in America.

Dicono che gli italiani sono mafiosi ma ci sono anche italiani per bene che hanno fatto la storia in America.

Noi crediamo all’Italia e all’Europa.

Noi non siamo venuti per fare male.

Io sono tunisino e sono scappato da una situazione disumana.

Dopo la caduta del nostro presidente Ben Alì non è cambiato niente, tutti i giorni ci sono manifestazioni e la gente muore per strada.

Abbiamo sentito che Maroni ha fatto un accordo col nuovo governo della Tunisia e rimandano lì la gente che arriva in Italia.

Ma nei nostri paesi c’è la guerra civile e i rifugiati che arrivano dalla Libia sono tutti qui.

Lì per noi non c’è niente da mangiare.

Ma noi amiamo l’Italia.

Nei nostri paesi guardiamo RaiUno e tifiamo per le squadre italiane.

Io sono nato nella città dove è nata Claudia Cardinale.

Non abbiamo problemi con voi italiani.

Noi veniamo perché sognamo la libertà, come voi una volta sognavate l’America.

È il nostro sogno e invece veniamo qua e troviamo un centro come questo a Ponte Galeria.

Perché? noi non abbiamo commesso niente.

Ti dicono che dopo sei mesi esci, ma io sono venuto qua per migliorare, per cambiare, per guadagnare qualcosa per i nostri figli e per le nostre famiglie perché nel nostro paese c’è la povertà.

E invece una mattina ti svegliano alle sei del mattino e entrano 20 persone coi guanti, ti portano in una stanza e ti tolgono tutta la tua roba e ti rimandano a casa.

Qua c’è gente che dell’Italia non ha visto niente, solo questo centro, e non parla nemmeno una parola d’italiano e la rimandano al paese suo senza il telefono e senza le sue cose.

Noi li chiamiamo al telefono e loro non rispondono perché il telefono è qua.

Ma poi quando ci chiamano, ci dicono che li hanno riportati al paese senza niente.

Noi siamo detenuti qua, in una situazione proprio disumana: otto persone in una stanza di quattro metri per quattro.

Viviamo uno attaccato al letto dell’altro.

Chi si alza dopo le otto del mattino non prende la sua colazione.

Chi arriva ultimo per la fila non arriva a prendere il pranzo e la cena perché noi facciamo la fila in 200 persone per prendere il nostro mangiare.

Chi arriva ultimo non arriva a prendere il suo pasto.

Ti danno un buono di 3 euro e 50 al giorno per comprare sigarette, shampoo, merendine, però non bastano, è troppo poco.

Anche per fare la doccia, l’acqua non c’è tutti giorni e nemmeno shampoo, asciugamano e dentifricio.

La gente scappata dalla morte non ha portato lo shampoo e la roba per fare la doccia dal suo paese.

Anche le pulizie non le fanno abbastanza perché i dipendenti della Auxilium si lamentano che li pagano poco e che il loro stipendio è basso.

Quelli della Auxilium ti ridono in faccia e ti accoltellano alle spalle, buttano le pietre e nascondono la mano.

Li chiami e non viene nessuno, sono troppo furbi.

Dei poliziotti non ne parliamo proprio, se dici «buongiorno» non ti rispondono.

Quando rimandano le persone al loro paese le legano come un pacco postale, legano mani e piedi e mettono una fascia sulla bocca per non farle gridare, per non farle sentire al pilota.

Ti fanno salire per ultimo così nessuno ti vede.

I poliziotti sono pronti per intervenire e dare botte come in un mattatoio.

I detenuti spesso si sentono male, hanno fatto il viaggio in mare, vengono dal loro paese e non sanno palrare, nessuno li capisce e la polizia li mena per farli calmare, così quelli dormono e basta.

Gente venuta da un’altra cultura, un altro mondo diverso dall’Italia.

Gente che non ha paralto con nessuno e non ha visto niente dell’Italia e si sente presa in giro, incompresa.

Le persone qui vorrebbero parlare ma nessuno li capisce, non hanno lingua per parlare e nessuno li ascolta, quindi per questo si ribellano e la polizia li picchia con i manganelli, con calci, pugni e tutto.

Un altro problema: la gente è venuta dal mare, fanno viaggi della morte per arrivare qua.
Quando arrivano sentono sei mesi e gridano tutta la notte, non hanno la testa normale e chiedono al medico tranquillanti perché hanno solo paura del domani, non dormono la notte e cercano un modo nelle medicine.

Gli infermieri ti danno le terapie per drogati e la gente dorme tutto il giorno, hanno la faccia gonfia come drogati e la notte urlano e gridano, sono disperati.

Prendono le gocce e se il giorno dopo devi partire te ne danno di più, così quando ti vengono a prendere non capisci nulla, è per evitare che ti ribelli alla deportazione.

Le nostre richieste sono:

Vogliamo che tutti i cittadini italiani sentano la nostra voce, che vicino a Roma ci sono 250 persone che soffrono di brutto, tutti giovani, donne e uomini, gente che è venuta qua in Italia perchè sogna la libertà, la democrazia. Perchè non abbiamo vissuto la democrazia, abbiamo sentito quella parola ma non l’abbiamo mai vissuta.

Noi chiediamo l’aiuto della gente fuori, aiutateci e dovete capire che qua c’è gente che non ha fatto male a nessuno e che sta soffrendo.

Noi soffriamo già 6 mesi, figurati 18 mesi. Se passa la legge qui c’è gente che fa la corda perchè già così, con i sei mesi, c’è gente che si è tagliata le mani, figurati con diciotto mesi, la gente si ammazza, la gente esce fuori di testa.

Chiediamo che la gente là fuori, tutti, anche i partiti politici, faccia di tutto per non far passare quella legge.

Chiediamo che la gente fuori, ogni giovedì mattina, vada a vedere a Fiumicino le persone portate via con la forza, che vada a fermare il massacro.

Un gruppo di detenuti del Cie di Ponte Galeria.

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Crisi e manovra (V) – Tra 28 giugno e manovra finanziaria

Il testo che segue è dell’amico Alessandro Pascale, membro di Rifondazione comunista e aderente a «La Cgil che vogliamo», area interna al primo sindacato italiano, fortemente critica – come me – con l’accordo firmato dal segretario generale, Susanna Camusso, con Confindustria e con le altre confederazioni sindacali. Lo pubblico dopo averlo richiesto espressamente, perché – come recita la Settimana enigmistica – «Forse non tutti sanno che» l’accordo dello scorso 28 giugno necessita dell’approvazione dei lavoratori iscritti alla Cgil per risultare valido.

A settembre, in tutta Italia, sarà possibile votare presso le sedi Cgil, per dire no – mi auguro – a un accordo che cancella il diritto di sciopero e permette deroghe infinite ai contratti di lavoro nazionali.

Tra 28 giugno e manovra finanziaria
di Alessandro Pascale

Siamo in una situazione paradossale: tre anni di Governo Berlusconi e di devastazione continua hanno risvegliato parte della società italiana dal torpore, facendola esplodere in movimenti che hanno visto un’ingente partecipazione popolare. Questo periodo ha visto emergere la FIOM di Landini che più di altri soggetti riesce a incarnare oggi la resistenza quotidiana a questi attacchi, rifiutando l’idea malsana del TINA (There is no alternative – non c’è alternativa), predicato 30 anni fa dalla reazionaria Thatcher e ormai accettato anche in “illustri” ambienti dei progressisti. Purtroppo dobbiamo constatare che la FIOM viene abbandonata a se stessa e che a livello politico la situazione è ancora più drammatica. Con le mobilitazioni di società civile, associazioni e partiti (pochi ma buoni) si è riusciti addirittura a portare a casa elezioni amministrative e referendum, dando segnali forti che chiedono la costruzione di una vera alternativa politica e culturale al berlusconismo.

Ma andiamo con ordine, cominciando dalla constatazione che in brevissimo tempo (neanche un mese) sono piovute dal cielo due mazzate terrificanti: da un lato l’accordo interconfederale del 28 giugno tra Confindustria, i sindacati “complici” CISL e UIL e la CGIL; dall’altro la terrificante manovra finanziaria (definita “classista” in un impeto di lucidità addirittura da Bersani, e quello del PD, non di Attac…). Manovra voluta da Tremonti per rispettare gli ordini di Bruxelles e appoggiata apertamente (purtroppo) da Napolitano e (parole a parte) nella sostanza dalla stessa opposizione parlamentare, che non ha trovato niente di meglio da fare che essere “responsabile” (come il buon Scilipoti?) e far passare la manovra nel giro di due giorni senza fare nessuna ostruzione di sorta.
Non c’è da stupirsi che tutto ciò sia avvenuto d’estate, nel torrido mese di luglio, sfruttando l’apatia dei vacanzieri intenti ad aprire gli ombrelloni piuttosto che a leggere giornali e costruire rivolte.

La cosa paradossale è la tragica mancanza di comprensione della situazione attuale da parte di un ampio gruppo di “progressisti” che si ostinano a cercare compromessi al ribasso (la Camusso) o mancano totalmente di autocritica rispetto alle scelte strategiche degli ultimi 20 anni (il PD).

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