Il sole lascia il posto al vento, che percorre con violenza la main street di Rosarno. Piccoli cespugli tondi rotolano sull’asfalto, sorpassano il saloon «da Morabito» e proseguono fino all’ufficio dello sceriffo, a un passo dalla Chiesa Madre. Nessun rumore oltre al vento. Dopo il trambusto dei giorni precedenti, quando i negri hanno alzato per un istante la testa dal lavoro, la situazione è di nuovo sotto controllo.
«Ci vediamo stasera a casa del maniscalco» dice la voce.
Una voce che fa più volte il giro della città.
La notte è buia. Qua e là, come falene attratte dalla luce, alcuni capannelli di persone, armate di spranghe e fucili, si radunano sotto i lampioni del corso. Poi i gruppi confluiscono in un unico corteo silenzioso, che raggiunge l’edificio e si ferma in attesa. Il maniscalco esce dal portone, con la tranquillità di chi va a farsi un goccio di liquore al saloon di Morabito. La corda che ha in mano, però, sembra indicare altri programmi.
Ciccio, il postino, apre la porta della rimessa. Il negro è legato a un pilastro, la faccia premuta contro l’intonaco.
Lo staccano e lo portano fuori. La notte non è fredda, perché il vento ha smesso di soffiare, ma a giudicare dall’umidità si prepara la pioggia. Farebbe comodo un bel cappuccio sul viso, come si usava una volta! Il negro viene spinto in avanti e il corteo si dirige verso la villa comunale.
Qual è l’albero più adatto? I convenuti si consultano a vicenda, poi il maniscalco sceglie e si fa issare fino al ramo adatto per fissare la corda.
Un cerchio silenzioso di persone si dispone a osservare la scena.
L’impiccagione dà sempre un brivido a chi guarda e in fondo l’agonia non è neppure troppo lunga.
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