Oggi, 1°
settembre, è stato il settantesimo anniversario dell’aggressione nazista alla
Polonia, il primo vagito della seconda guerra mondiale, probabilmente l’esperienza
bellica più devastante dell’intera storia del genere umano, non solo per
l’altissimo numero di morti, militari e soprattutto civili, ma per la
tipologia, la natura, la quantità dei massacri, degli eccidi, dei crimini
contro l’umanità.
La seconda guerra mondiale ha
coinciso con l’accelerazione dei progetti di sterminio del popolo ebraico da
parte di Hitler. Ha visto affermarsi l’uso su larga scala dei bombardamenti a
tappeto contro obiettivi civili, una pratica inaugurata nel ’36 in Spagna dai
nazifascisti e replicata negli anni ’40 tanto dall’aviazione tedesca, quanto da
quella alleata. Ha visto succedersi gli eccidi di civili, passati per le armi
in risposta alle azioni dei partigiani. Si è conclusa, infine, con gli unici
bombardamenti atomici mai condotti, nella storia, contro bersagli umani.
La seconda guerra mondiale, che
pure non raggruppa tutti i buoni da una parte e i cattivi dall’altra
(molteplici furono gli interessi di parte dei “buoni”, le cui intenzioni vanno
spogliate di un’eccessiva retorica), non fu una casualità, bensì la
conseguenza ineluttabile delle ideologie fascista e nazista, che ne
contenevano, sin dall’inizio, i germi. L’Italia di Mussolini doveva «tornare» a
costruire un impero, come al tempo degli antichi romani, e il Duce aveva
bisogno «di qualche migliaio di morti» per sedere «al tavolo di pace», una volta
finita la guerra.
L’intera educazione del cittadino
durante il periodo fascista, la maniera in cui era concepita una società
rigidamente gerarchica, stretta intorno al corpo del capo, altro non era che
preparazione alla guerra. Le nascite dovevano aumentare perché Mussolini aveva
bisogno di soldati. Per garantire un maggior numero di figli, alle donne furono
imposti canoni fisici ed estetici precisi. Una volta nati, i giovani italiani
crescevano nel culto del Duce, inquadrati in organizzazioni paramilitari.
Intanto, l’Italia si lanciava in avventure coloniali; nel ’36 aggrediva la
Repubblica spagnola insieme alla Germania, nel ’38 introduceva le leggi
razziali nel proprio ordinamento.
Allo stesso modo, anche il nazismo
nasceva razzista e disposto all’omicidio dei propri avversari, mentre Hitler
non faceva un mistero delle proprie ambizioni di espansione territoriale alla
ricerca di quello che chiamava lo «spazio vitale» necessario per il popolo
tedesco.
Ricordare la seconda guerra
mondiale, oggi, significa fare memoria del fascismo e del nazismo, oltre che
delle distruzioni e dei milioni di esseri umani trasformati in carne per i
cannoni o in cenere passata oltre i camini dei forni crematori. Eppure,
nonostante la retorica delle cerimonie ufficiali, è elevato il rischio che la
più grande tragedia bellica vissuta dal genere umano non sia interiorizzata e
non costituisca uno strumento per leggere il presente, né il necessario monito a non ripetere gli
errori del passato.
Che cosa c’impedisce di trarre un
insegnamento da ciò che è stato e che non dovrà ripetersi?
In parte, l’appropriazione della
categoria di «male assoluto» che alcuni hanno perseguito, ergendo se stessi a
vittime per antonomasia, in una specie di lotta a chi ha sofferto di più che li
autorizzerebbe a vantare una specie di diritto d’autore, fondato
sull’originalità della propria sofferenza; una peculiarità talmente assoluta da
rendere legittimo qualunque comportamento, a mo’ di risarcimento per i torti
subiti.
Sarebbe difficile, diversamente,
comprendere perché alcuni fra i discendenti di quel popolo che più di tutti ha subito le
conseguenze del razzismo nazifascista giungano a macchiarsi di comportamenti
che ricordano quelli della Wehrmacht
hitleriana. Senza voler sovrapporre due esperienze diverse (lo Stato d’Israele
non è nazista), non si capisce perché susciti sempre tanta indignazione il
semplice fatto di rilevare le analogie esistenti tra determinati comportamenti dell’Idf
(Israel Defense Forces) e quelli dei soldati tedeschi durante la seconda
guerra mondiale.
Tra il dicembre del 2008 e il
gennaio dell’anno in corso, durante l’operazione militare «Piombo fuso»,
Israele ha bombardato a Gaza edifici nei quali erano costretti esseri umani,
anche civili, anche minori, impossibilitati a fuggire altrove. Onestamente, non
vedo quale sia la differenza rispetto al celebre episodio raccontato da Simon
Wiesenthal nel libro Il girasole, quando una SS moribonda gli domanda il suo
perdono di ebreo per il terribile crimine commesso contro centinaia di ebrei,
rinchiusi in un edificio poi dato alle fiamme.
Riconoscere l’affinità tra due
situazioni analoghe (esseri umani costretti in trappola e poi deliberatamente
sterminati col fuoco o con le bombe) dovrebbe fornire a uno Stato che si
proclama democratico l’idea esatta del significato reale dell’attuale gestione dei
rapporti con i palestinesi. Il che permetterebbe di trarre dalla Storia un
insegnamento, senza condannarsi a ripetere gli errori del passato.
Nei giorni scorsi, l’indifferenza
dell’opinione pubblica italiana per la politica del nostro governo nei confronti
dei migranti (i respingimenti e le morti in mare che ne derivano) è stata
paragonata sul quotidiano Avvenire al silenzio della popolazione d’Europa che,
durante il nazismo, fu testimone muta dei convogli ferroviari che trasportavano
gli ebrei nei campi di sterminio.
Si sono levate voci d’indignazione
per un paragone che, negando la “specialità” della Shoah, l’avrebbe
banalizzata. Ritengo viceversa che sarebbe banalizzante (e delittuoso) prendere
la Shoah, insieme con aspetti singoli che la riguardano (ad esempio il silenzio
delle popolazioni europee), e confinarla sopra un altare, dietro una teca
appannata che non permette di vedere le analogie che uniscono un passato
terribile a un presente certo non pacificato. Se l’indifferenza, o la
connivenza, dei cittadini di quei Paesi dai quali partivano, o dove giungevano,
i treni della morte non serve oggi almeno per scuoterci dalle nostre indifferenze e
apatie, si potrà dire, a buon diritto, che dall’immane tragedia della Shoah non
siamo stati in grado d’imparare nulla e che tutte quelle morti sono state invano.
Che la storia è destinata a
ripetersi.
Un altro segnale del mancato
apprendimento della lezione costituita dai totalitarismi nazista e fascista
(nonché dall’esperienza della guerra mondiale) è il proliferare, oggi, di gruppi,
movimenti e partiti di estrema destra, che si distinguono talvolta per il loro
richiamarsi a personaggi, simboli e parole d’ordine del passato, talaltra
invece per un comportamento violento, simile a quello degli antichi squadristi, e certo non in linea con il diritto di tutti a vivere in sicurezza in società.
Lo scorso mese di luglio, nella
mia città, Aosta, è “sbarcata” CasaPound, associazione che fa richiamo, nei
propri simboli, all’esperienza fascista. Bene: l’esperienza fascista è quella
di cui si è parlato qui sopra, quella che ha portato alla guerra, alle leggi
razziali, alla morte di molti milioni di persone.
Tornerò a parlare di CasaPound. In
questo articolo, si converrà, non è rimasto lo spazio.
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