In merito alla questione del judoka egiziano che si è rifiutato di stringere la mano al collega israeliano, ed è per questo stato cacciato dalle olimpiadi, faccio mie le parole di Maria Elena Delia, che “rubo” da Facebook.
Le condivido per intero, e sono oltretutto contento di contribuire – per quanto posso – a diffondere la notizia dell’altro gesto antisportivo, quello commesso dallo Stato di Israele, «che senza alcun valido motivo ha bloccato tutti i bagagli degli atleti palestinesi in aeroporto».
Il post.
Tornata dal mio rigenerante breve viaggio sardo, durante il quale vi confesso di aver scelto di ridurre al minimo indispensabile la lettura delle notizie, sono rimasta sbigottita dall’analisi delle riflessioni che accompagnavano il gesto del judoka egiziano che si è rifiutato di stringere la mano a fine incontro al judoka israeliano. Avrà fatto bene? Avrà fatto male? In un contesto come quello delle olimpiadi non si dovrebbero superare certi muri all’insegna di un olimpionico volemose tutti bene? E ancora, il judoka israeliano non rappresenta la politica di Israele, ma solo se stesso e lo sport che pratica. E, inoltre, per quanto possa essere stato un gesto forte e simbolico, alla fine si è rivelato un boomerang, non compreso dai più e che non porterà nulla di buono alla Palestina (invece non farlo avrebbe portato esattamente cosa alla Palestina???). Solo per citarne alcune.
Io credo, invece, che il judoka egiziano sapesse benissimo che agli occhi di quella platea mondiale lui, in quel momento, rappresentava, suo malgrado, l’Egitto di Al Sisi e il suo avversario (magari anche lui suo malgrado) l’Israele di Netanyahu, perché quello non era un incontro da oratorio o da palestra di periferia, ma perché erano – appunto – le Olimpiadi. E scegliere di compiere quel gesto così forte, così scomodo, così antisportivo, «contrario alle norme del fair play e contro lo spirito di amicizia presenti nei valori olimpici» (come ha recitato il Cio prima di rispedire El Shahaby a casa, dove certamente Al Sisi non l’avrà accolto con la banda e il tappeto rosso), è stata semplicemente una scelta politica. Utile? Non lo so, ma posso comprenderla, emotivamente e anche razionalmente. Non cerchiamo, forse, occasioni che ci diano la possibilità di sollevare il velo di omertà che nasconde agli occhi della maggior parte delle persone la realtà quotidiana della Palestina sotto occupazione? Non ci lamentiamo continuamente della mancanza di coraggio, dell’incapacità di tanti di metterci la faccia, dell’assenza di prese di posizione chiare a sostegno del popolo palestinese? El Shahaby non sarà stato, forse, finemente strategico, ma ha preso una posizione chiara e ci ha messo la faccia, eccome se ce l’ha messa. E io sto con lui, senza se e senza ma. Quanto al fair play che dovrebbe permeare lo spirito dei giochi olimpici, aggiungo solo che mi sarebbe tanto piaciuto leggere almeno un comunicato ufficiale di condanna nei confronti di Israele, che senza alcun valido motivo ha bloccato tutti i bagagli degli atleti palestinesi in aeroporto, lasciandoli partire solo con il loro orgoglio, quello che non potranno mai rubargli e nemmeno sperare di poterne vantare anche solo una infinitesima parte.