Il villaggio abbandonato di Barmaz

Ripubblico un articolo del maggio 2007. Si tratta di una mia passeggiata al villaggio abbandonato di Barmaz, appoggiato sul fianco della montagna, al sole, tra i paesi di Chambave e Châtillon, in Valle d’Aosta. L’articolo fa parte della sezione Camminante, della quale parlo QUI.

Barmaz


Più che un sentiero
è una traccia, quella che sale al villaggio, un passaggio appena accennato, coperto talora, e nascosto dall’erba. Poi la via diventa più nitida e in terra compare una rozza pavimentazione di pietra. Sul lato a monte del sentiero, inizia una serie di muriccioli a secco, cui sembra spetti il compito (davvero sproporzionato per così piccole forze) di tener su la montagna.

Le case abbandonate esercitano un fascino impenetrabile che, a volte, si traduce in paura. Paura dei crolli, spavento delle vipere e timori meno razionali, di spiriti in attesa fra le pietre, ricordi conservati nelle mura e nei viottoli di luoghi un tempo vivi, ormai disabitati.

Le costruzioni si tengono addossate l’una all’altra, come a difendersi dal freddo, e procedono in salita, lungo il fianco della montagna. L’erba ha invaso tutto; un albero è cresciuto in mezzo alle case. Osservo una cimice dei campi aggrappata a una pianta d’assenzio, poi alzo lo sguardo ad abbracciare il piccolo paese. A sinistra, un edificio ancora in buone condizioni conserva intatto il tetto di lose e il fienile, un soppalco esterno, di legno, con la scala a pioli ancora appoggiata e, dentro, un po’ di fieno. Più a destra, proprio nel centro del mio campo visivo, i resti di una casa completamente diroccata. Tra i due edifici si apre il viottolo che, poco più in su, con una curva, conduce in centro al villaggio.

Mi giro verso valle e, per un attimo, ammiro il panorama che altri occhi, un tempo, dovevano osservare quotidianamente: la Dora, i prati del fondovalle, i boschi di castagni e, più oltre, la montagna, dietro la quale il cielo oggi è appesantito di grossi nuvoloni bianchi. M’ingegno per guardare con gli occhi di chi fu, trascurando così la statale e l’autostrada, concentrandomi invece sui boschi, sul filo di fumo che s’alza da un paese lontano.

Faccio un giro tra le case. Breve. Mi sento inquieto, è come se dai vani delle porte dovesse sgusciare fuori all’improvviso qualcuno, uomo o spirito. Del resto, i paesi abbandonati non lo sono mai del tutto: sotto il fienile c’è una bottiglia vuota, dimenticata; più in là trovo un ombrello.

Ma so che il mio stato d’animo è condizionato da qualcosa che è accaduto prima, mentre salivo lungo il sentiero che porta al villaggio. Dopo una svolta, all’improvviso, ho visto in terra un uomo. Girato su un fianco, sembrava addormentato. Era, però, completamente immobile, tanto che dapprincipio ho pensato a un cadavere. Ho tirato dritto, dicendomi che non era possibile. Tornando indietro, avrei verificato se il corpo si era mosso o meno. Non sapevo se dovevo chiamarlo, se dovevo toccarlo. Trovavo strano che dormisse coricato proprio sul ciglio del sentiero, anche se quel sentiero non è molto frequentato. E poi era davvero immobile. Così, durante la visita, il mio umore è stato sempre teso.

Dall’aspetto, l’uomo poteva essere un immigrato. Chissà, magari un clandestino che aveva scelto quelle case per ripararsi dalla notte. Ho immaginato la sua vita: la ricerca di un lavoro, il bisogno di un posto in cui andare… Ormai un alone fantastico aveva circondato il piccolo villaggio. Per un istante ho visto le pietre rianimarsi, trasformando quelle rovine in una sorta di città libera, il rifugio sicuro di molti irregolari.

Quando sono ridisceso, tossendo e facendo rumore per annunciare il mio passaggio, l’uomo non c’era più. Era scappato, spaventato dalla mia presenza? Rimasto infastidito perché avevo violato la sua solitudine? In ogni caso era vivo, e questo mi pareva un buon inizio.

Appendice poetica.

Delle poesie che seguono, entrambe mie, la prima precede il testo riportato qui sopra, ed è stata inserita nella raccolta «Cianfrusaglia» (Edizioni END, 2013); la seconda è invece il tentativo di raccontare nuovamente il villaggio di Barmaz attraverso i versi, ed contenuta in «Barricate!» (END, 2014).

Lo straniero

Ragioni non ne avete per fermarmi:
perché impedirmi il passo?
O negherete a chi cammina
di mettere la terra sotto i piedi?
Esito ancora un poco,
poi mi decido e varco la frontiera;
forse per ciò mi verrà meno l’aria?
o il vostro cibo non mi sazierà la bocca?
Non è vostra la scelta:
percorrerò queste strade ordinate,
fatte di passi, d’asfalto, di case,
mangerò i piatti della tradizione
e amerò le vostre donne, alla fine,
se loro lo vorranno.
«Di chi sono, domando, queste terre?»
E di rimando voi mi rispondete:
le terre sono vostre, e ve le lascio;
ma di chi è la strada?
Come puoi dire: «Non è tuo»
del metro su cui appoggio il passo,
del sasso dove poso il culo?
Sono padrone almeno del mio corpo,
di tutto ciò che abbracciano i miei occhi.

Mi tiro su dall’erba del giaciglio,
fresca la mente e tersa
come i campi gualciti del mattino.

Barmaz

Muri, non mura,
che tacciono e dicono il tempo
vuoto di passi, di voci,
la vita quotidiana
portata avanti tra le pietre,
pareti che contornano
strade fatte non per partire.

Il lavoro, il paese;
davanti, la montagna eterna.

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