Basta un libro di storia del ‘900, non ci vuole la Treccani.
La guerra è guerra fra poveri. I contadini e i piccoli artigiani arruolati negli eserciti del primo conflitto mondiale non sapevano dove fossero Trento e Trieste, oppure l’Alsazia-Lorena, ma sapevano che «lo straniero» era il «maledetto straniero», che «ci» odiava, che non doveva «passare».
Sapeva, perché glielo avevano detto a scuola, al militare, perché lo ripetevano il capo del governo, il sindaco e il padrone della fabbrica (di armi, magari, o di automezzi), che «noi» eravamo, che noi siamo meglio di «loro». Ed è sempre così facile trovare un «loro» da contrapporre al «noi».
La guerra è guerra fra poveri. Negli inutili assalti alla trincea nemica (correre con la baionetta innestata sotto il fuoco della mitragliatrice) come per strada. La guerra è tra poveri: quelli italiani, occidentali, nostrani, e quelli immigrati, stranieri, non più umani, derubricati a semplici «clandestini».
Aumenta il livello di razzismo nella nostra società, man mano che la crisi avanza. La crisi avanza apposta.
«Non è razzismo, per carità, è che loro…».
Per carità.
E invece va sopita l’altra guerra, quella verticale, quella tra ricchi e poveri (e non viceversa, ché l’iniziativa è prerogativa dei piani superiori), quella tra l’imprenditore che delocalizza o distrugge le garanzie e i diritti, e l’operaio, l’impiegato, il piccolo imprenditore che, invece di coalizzarsi con chi si trava nella stessa condizione, pensa a fare le scarpe a qualcun altro.
Pensa a togliere le tutele anche a chi ce le ha ancora, invece che reclamarle per tutti.
Pensa a linciare il «diverso», invece di fare la rivoluzione.
La guerra orizzontale è consentita, favorita, cercata da chi comanda, come antidoto all’altra, quella verticale, più naturale, più utile. Meno cretina.
Sia detto con tutta la nonviolenza possibile.
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