E non ci dovevamo indignare?


L’indignazione
, lo abbiamo detto, non basta. Occorre un progetto. Però indignarsi è qualcosa. Riusciva più facile con Berlusconi al timone. Ci feriva la vista, lui con i nani e le ballerine. Ora è in pieno atto la farsa, pilotata dal Quirinale (può darsi in buona fede), da Berlino, Parigi, Washington e Bruxelles (certo con fede meno buona), dalle agenzie di rating e gli altri poteri forti (la buona fede qui non c’entra per niente), la farsa – dicevo – dell’unità nazionale (in fondo è ancora il centocinquantenario), per evitare il fallimento del Paese.

E per impedire che fallisca il Paesemai come oggi un termine astratto, fatto di numeri inventati dalle borse – si fanno fallire le persone in carne e ossa, si colpiscono le classi che hanno già pagato, pur di non toccare neppure un poco quelle privilegiate.

Il problema più grave, comunque, non è l’esborso, come non è la Chiesa che non paga l’Ici e neppure la mancata introduzione della patrimoniale. Evidentemente non sono nemmeno i costi, vergognosi, di una politica che non funziona (anche se poi quando Mario Monti dice di voler rinunciare al proprio stipendio mi sento preso per i fondelli esattamente come davanti alle lacrime della Fornero – «Se me lo potessi permettere le comprerei un pacchetto di kleenex» le risponde amaro un pensionato in una vignetta di Vauro). Il problema di fondo è come si usano i soldi.

Il problema di fondo è che è passata l’idea, a destra, a sinistra e in ogni luogo, che lo stato sociale è un peso, che la via da percorrere è una sola, che a decidere della vita delle persone possono essere entità astratte – e cui nessuno ha delegato la propria sovranità – come i mercati, che privato è meglio che pubblico (sui giornali, almeno, e nei salotti televisivi, perché nelle cabine elettorali, a giugno, 27 milioni di italiani avevano detto chiaramente di pensare il contrario), che ciò che non produce reddito – o Pil – è inutile. Il problema di fondo è che continuano a proporci l’adagio tatcheriano secondo il quale, semplicemente, «Non c’è alternativa» (T.I.N.A. nell’acronimo inglese, dall’espressione «There Is No Alternative»).

A questo attacco, che potrebbe rivelarsi mortale, alla democrazia e ai diritti, allo stesso carattere umano del vivere comune, possiamo resistere continuando a indignarci, a patto di impegnarci, nel contempo, in una battaglia culturale capace di smascherare la truffa e mostrare le alternative, (ri)scoprendo molteplici forme di associazione e di sovranità popolare e dimostrando di considerare davvero irrinunciabili certi diritti. L’acronimo T.I.N.A. dovrà lasciare il campo a T.A.M.A («There Are Many Alternatives», ci sono un sacco di alternative – il futuro non è scritto a Wall Street).

Sfoderiamo la nostra creatività, qualche volta ciò che luccica è per davvero oro: impegnamoci nella proposta di reti popolari di sostegno e aiuto, gruppi di studio, case popolari sopontanee, movimenti per la difesa del territorio e delle conquiste civili e del lavoro; troviamoci a leggere la costituzione; riappropriamoci delle piazze – spazio pubblico per eccellenza, prima dell’avvento del centro commerciale – sedendoci per terra, da soli e in gruppo, con una chitarra, con un libro, con una bottiglia (non intendo incendiaria, è meglio precisarlo).

E mettiamo al lavoro la nostra creatività e fantasia per produrre musica, immagini, testi, senza licenza, diritti d’autore, liberi di circolare, senza scambio di denaro. Facciamo arte per sopravvivere, arte per prenderli per il culo, arte per il gusto dell’arte. Le immagini di questo post sono del mio amico Ronnie Bonomelli che si è messo lì, un giorno, e ha fatto un po’ di satira sul nuovo governo “tecnico”. Poi ha preso la chitarra e ha composto «La canzone di Monti Mario». Chiunque può cantarla, chiunque può inventarsi un testo.

Teniamo alta la testa, non facciamo mancare la nostra voce!

>>> Clicca sulle immagini per ingrandirle. Vignette e canzone sono pubblicate con licenza Creative Commons 3.0.

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