Tagliare i costi della politica non è fare la rivoluzione

Non prendiamoci in giro. Tagliare i costi della politica è cosa buona e giusta, ma del tutto insufficiente (e, se fatto male, perfino controproducente). Parliamo di spese ingenti, è vero, spese che possono e devono essere contenute; ciò detto, non illudiamoci di aver trovato la soluzione ai nostri mali. Anzi, a concentrarsi troppo sulla “casta” e sui suoi schifosi privilegi, c’è il rischio di finire, da un lato, con il favorire l’azione di un governo che tenta di modificare a proprio vantaggio l’equilibrio istituzionale tra i poteri dello Stato e, dall’altro, di perdere d’occhio i veri “poteri forti”, le lobby che contano davvero, dalla Confindustria alle mafie.

Sembrerà paradossale, ma di fronte all’alleanza tra imprenditoria e politica (con la seconda impegnata a facilitare il campo alla prima legiferando in suo favore contro la salute pubblica e contro la guardia di finanza), non bisogna colpire il Parlamento, bensì restituirgli la dignità perduta. L’Italia è – deve tornare a essere – una democrazia parlamentare, una forma di Stato in cui le decisioni che si trasformano in legge costituiscono, il più possibile, la mediazione tra istanze diverse portate (e rappresentate) da soggetti politici diversi, caratterizzati ognuno dalla propria visione del mondo e dal proprio approccio ai temi civili, etici, economici. La grandezza della Costutuzione italiana, per non fare che un esempio, deriva anche dal fatto che per scriverla e approvarla fu necessario mettere d’accordo partiti fra loro agli antipodi, come quello comunista, quello liberale e la Democrazia cristiana.

La priorità non mi sembra dunque tagliare dalla spesa pubblica qualche centinaio di migliaia di euro: lo si potrà fare (anch’io mi indigno leggendo il bilancio del Senato, con le sue folli spese per il ristorante e i tendaggi; anch’io sono contrario ai vitalizi facili e a quelle agevolazioni che nulla hanno a che vedere con il ruolo svolto), ma facendo attenzione a non peggiorare le cose. Mi ha molto colpito sentire il ragionamento per cui per dimezzare la spesa occorre dimezzare il numero dei parlamentari. Perché non dimezzare il loro stipendio, invece? Numericamente, i deputati e i senatori italiani sono all’incirca gli stessi che si trovano nei vari Paesi europei; il problema è che guadagnano mediamente di più e – dico io – valgono mediamente di meno. Tagliamo la paga, dunque, e lasciamo invariato il numero: se vogliamo restituire dignità al Parlamento è solo controproducente costringere il singolo deputato a far parte di troppe commissioni, finendo così per fare ancora peggio il proprio lavoro.

Quanto allo scarso valore dei nostri parlamentari, mi piace credere che esso sia la conseguenza di una legge elettorale iniqua, che di fatto priva i cittadini del diritto di scegliere il proprio rappresentante – lasciando tale compito alle segreterie dei partiti – e, attraverso sbarramenti e premi di maggioranza, riserva l’accesso in Parlamento ai partiti più grandi, che normalmente hanno ricette molto simili per l’economia e la società. L’appiattimento delle differenze, che è stato più volte elogiato perché permetterebbe una maggiore “governabilità” del Paese, impedisce – di fatto – la proposta e la discussione di idee altre, come ha ampiamente dimostrato la manovra di Ferragosto.

I partiti di opposizione sono sì impegnati a contestare (giustamente) singoli aspetti della macelleria sociale approntata dal governo, ma, per il resto, non hanno da offrire un’idea economica diversa, impermeabile ai diktat di Confindustria, della Banca centrale europea o del Fondo monetario internazionale.

Sulle barricate, alla fine, bisognerà salire (preciso, per l’intelligenza del censore, che mi riferisco a barricate simboliche e nonviolente). Dobbiamo scendere in strada (anche in senso proprio, stavolta) per chiedere una legge elettorale nuova che, oltre alle preferenze, reintroduca il criterio della proporzionalità, perché le Camere non devono ospitare soltanto i cultori del pensiero unico liberista. Dobbiamo ribadire che tra il welfare e le spese militari, preferiamo tagliare le spese militari. Dobbiamo proclamare lo sciopero generale ogni 25 aprile, 1° maggio e 2 giugno, finché non ci saranno restituite le feste civili. Dobbiamo ricercare attivamente (lo dico, ad esempio, al “popolo viola” e ai “grillini”) un modello alternativo a quello che ha generato crisi economica e crisi democratica perché, lo ha già detto qualcuno, indignarsi non basta.

>>> Su Facebook, partecipa all’evento 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno sciopero generale.

>>> Nella foto, Montecitorio, sede della Camera Deputati.

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2 risposte a Tagliare i costi della politica non è fare la rivoluzione

  1. Fabrizio Spano scrive:

    Sono d’accordo.

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