La manovra che sta per abbattersi sul Paese non è il frutto di una “perturbazione economica” prossima a superare l’Atlantico e a riversarsi, fatalmente, sulle nostre coste. Non è, intendo, ineluttabile, e non è estranea al volere degli Stati.
Sforziamoci di non confondere la crisi economica e la cattiva finanza con le presunte cure escogitate per superare il momento difficile e favorire la «ripresa», in vista di quella nuova «crescita» da molti auspicata come salvifica.
Da un lato c’è una situazione di oggettiva difficoltà, causata da un modello economico – quello liberista – le cui incongruenze e la cui pericolosità sociale e ambientale sono sempre più evidenti. Dall’altro lato c’è il tentativo di rispondere a questa crisi del mercato con un irrigidimento dell’ortodossia economica che lo sostiene, vale a dire ancora più mercato.
Nonostante sprechi e difetti che possono e devono essere eliminati, la gestione pubblica di molti servizi dimostra, oggi come nel passato, che non necessariamente il bene gestito dai privati funziona meglio. Appena due mesi fa 27 milioni di cittadini italiani hanno scelto, con il loro voto, di rifiutare la gestione privata dei servizi fondamentali, quei «beni comuni» che non devono essere lasciati all’appetito di chi – logicamente, dal suo punto di vista – vuole realizzarci un guadagno (e, meno logicamente, briga per mutilare la Costituzione dell’articolo 41, che impone vincoli sociali all’«iniziativa economica privata»).
La manovra del governo approfitta della sensazione di pericolo generale per andare nella direzione opposta e svendere quanto di pubblico ancora sopravvive in Italia. Per impoverire il Paese di risorse, a ben guardare, se consideriamo che – al di là della nazionalità delle aziende e dei loro manager – le imprese private sono oggi competitrici in un mercato globale all’interno del quale i governi, se anche lo volessero, dovrebbero faticare non poco per imporre regole di interesse sociale, come dimostra il sempre più frequente ricorso alle delocalizzazioni.
Oltre le privatizzazioni, la manovra si compone di tagli. Tagli a un welfare che – se fosse invece potenziato – farebbe almeno da paracadute sociale in un Paese in cui la forbice tra gli ultraricchi e il resto della popolazione è ogni giorno più ampia. A partire dai prossimi mesi, insomma, staremo peggio non per gli effetti della crisi, ma per quelli della “cura”, perché le varie forme di agevolazione previste per le categorie sociali deboli saranno tutte limitate. Ai più ricchi, invece, non si chiede altrettanto, le grandi opere necessarie a imprenditori e criminalità non sono in discussione, i soldati in guerra contro l’articolo 11 della Costituzione stanno bene dove stanno.
L’alternativa alla visione del governo – puramente ideologica – circa le misure necessarie per intervenire sul debito pubblico (il cui contenimento appare comunque auspicabile) esiste, e corrisponde a proposte che sono state avanzate da più parti e che recentemente Rifondazione comunista ha organizzato in una proposta politica concreta, per sostenere la quale i cittadini sono chiamati a firmare attraverso iniziative portate avanti nelle varie città.
È necessaria, anzitutto, una «tassa sui grandi patrimoni al di sopra del milione di euro», da affiancare alla lotta all’evasione fiscale («facendo pagare per intero le tasse a chi ha usato lo scudo fiscale»), al dimezzamento delle spese militari («Basta con la guerra in Afghanistan e in Libia»), a quello degli «stipendi delle caste», all’imposizione di «un tetto agli stipendi dei manager». «Le aziende che delocalizzano devono restituire i finanziamenti pubblici», mentre bisogna «bloccare le grandi opere inutili come la TAV e il Ponte sullo Stretto e usare quelle risorse per un grande piano di sviluppo delle energie alternative e di riassetto idrogeologico del territorio».
Si tratta di proposte condivisibili, che consentirebbero di intervenire sul debito senza colpire i cittadini e senza mortificare l’economia e la dignità del Paese e, anzi, ne rilancerebbero un “vivere migliore” (che è cosa diversa dal semplice aspetto economico).
Occorre infatti fare un salto di qualità e riflettere sulla natura del sistema economico che ci viene spacciato come l’unico possibile. Prendiamo un punto per tanti versi minore della manovra, l’accorpamento delle festività laiche del primo maggio, 25 aprile e 2 giugno alla domenica più vicina. L’idea è che troppe feste danneggino l’economia e siccome non si possono toccare quelle religiose senza modificare il concordato con la Chiesa cattolica, tanto vale cancellare con un colpo di spugna la storia migliore del Paese, rinnegandone, nel nome del guadagno, l’identità morale. Al di là del valore delle singole festività che, di fatto, verrebbero soppresse (l’Italia non festeggerebbe più neppure se stessa e la Liberazione dal nazifascismo) c’è da chiedersi quale sia il significato di un modello di economia che trova eccessivi tre giorni di festa all’anno. C’è da chiedersi, come già tante volte è stato fatto, se è l’economia a dover servire l’umanità o viceversa.
Colpire le persone per curare i mercati non è una buona idea. Chi pensa non vi sia alternativa possibile rifletta almeno sul fatto che non si tratta di un sacrificio una tantum. La spinta a inserire nella Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio (ora lo chiedono anche Francia e Germania) renderebbe perpetua l’esigenza di uno stato sociale ridotto all’osso e di politiche di tassazione consistente del reddito.
>>> Per pretendere la conservazione delle festività del 25 aprile, 1° maggio e 2 giugno è stata approntata una petizione online.
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