La morte del caporal maggiore David Tobini, paracadutista romano, quarantunesima vittima italiana nell’operazione Isaf (International Security Assistance Force), la terza solo nel mese di luglio, rinfocola una volta di più le polemiche suscitate in Italia dalla nostra presenza militare in Afghanistan. I «nostri» ragazzi vanno a morire, dice la Lega, e sembra che la questione sia tutta lì: quante vittime siamo disposti ad accettare per tener fede ai nostri impegni internazionali? O, peggio: quanti soldi siamo disposti a spendere in un momento di crisi per missioni che ci vedono impegnati lontano da casa?
Domande apparentemente lucide, che in realtà denotano egoismo e ruffianeria politica, ma che non sono di per sé eludibili, perché senz’altro chi comanda una missione è responsabile della vita dei propri soldati e chi governa un Paese deve rendere conto ai cittadini di come gestisce i soldi pubblici.
L’egoismo risiede nel presentare i 41 caduti italiani – magari insieme al numero più grande, ma imprecisato, dei soldati occidentali uccisi – come le uniche vittime di 9 anni di guerra. Un alone di mistero – e un imbarazzante silenzio mediatico – circonda invece i dati relativi alle vittime afghane, civili e combattenti, che non meritano gli onori della cronaca e possono essere più facilmente nascoste al pubblico italiano.
La ruffianeria consiste nel cavalcare l’onda dei sentimenti popolari: di fronte a un lutto si ricorre alle consuete formule magiche, come «negoziare una exit strategy», o «gaduale disimpegno a partire dal (segue in genere la data dell’anno successivo o di quello dopo)»; di fronte a una situazione economica grave tutto ad un tratto ci si accorge – correttamente, si badi – che le spese militari sono fra le più ingenti e vanno tagliate.
Eppure, la domanda più logica sarebbe questa: qual è il senso della presenza italiana in Afghanistan, in Libia e negli altri teatri di guerra? Che cosa stanno facendo i nostri soldati? A che tipo di avventura partecipano? Sono missioni moralmente accettabili o no? E ancora: esistono prospettive di successo o siamo impantanati in un clamoroso fallimento?
Perché, se veramente si dovessero condividere le finalità e le modalità di gestione delle varie missioni, allora certo non basterebbe una serie di lutti a metterne in disussione la prosecuzione. Le vittime, purtroppo, fanno parte di ogni guerra. Ho scritto però una parola scomoda: «guerra»; scomoda non solo perché la nostra Costituzione la vieta (vieta la guerra, non la parola), ma anche perché nascondersi dietro la foglia di fico di un’espressione attenuativa («missione di pace», «missione umanitaria») genera problemi inattesi. Perché a un certo punto devi dimostrare che il tuo intervento non è una guerra. Così tocca mandare i caccia bombardieri a portare la morte dal cielo (e le bombe possono essere tecnologiche quanto si vuole, ma “intelligenti” mai), al fine più o meno dichiarato di evitare troppe vittime fra le proprie truppe, e con il bel risultato di procurarne molte di più presso la popolazione civile del Paese che si è andati ad «aiutare».
La gente che per nove anni ha votato questo tipo di missione è oggi in “crisi di risultato”, perché la missione è ben lontana dal conseguire i suoi obiettivi e non gode neppure dell’appoggio delle popolazioni locali (non in Afghanistan, almeno, e non in tutta la Libia). Ci si domanda allora come rispettare i famosi «accordi internazionali» senza scontentare troppo la popolazione, cioè l’elettorato. Un trucco è fare la voce grossa – in questo la Lega è maestra. Con il paradosso di un Calderoli che dichiara: «in questo momento provo tanta rabbia verso una missione che non comprendo e non condivido», e poi garantisce il voto favorevole del proprio partito.
Un secondo trucco è assecondare l’opinione pubblica, spaventata dalla crisi, operando un po’ di tagli qua e là – ma senza toccare le missioni “vere” (quelle, cioè, nelle quali non si può dispiacere a Washington). I 9.250 militari italiani impiegati in missioni internazionali nel primo semestre del 2011 sono destinati a scendere a 7.222, con una differenza di – 2.028 unità. Ma come sono distribuiti i tagli?
Il lettore perdonerà se cito per intero la tabella pubblicata sul manifesto del 26 luglio, contenente i dati dei tagli effettuati alle 16 (!) missioni internazionali cui le forze armate italiane prendono parte.
Nel primo semestre del 2011 i soldati italiani in Afghanistan erano 4.200 e 4.200 resteranno anche nella seconda parte dell’anno. Differenza: zero. Il nostro contingente in Libano sarà ridotto dalle attuali 1.780 alle 1.080 unità. Differenza: – 700. Balcani: da 650 a 379. Differenza: – 271. Bosnia: 5 erano e 5 rimarranno. Differenza: zero. Mediterraneo: da 114 a 17. Differenza: – 97. Hebron: 13 erano e 13 rimarranno. Differenza: zero. Rafah: 1 era e 1 rimarrà. Differenza: zero. Darfur: 3 erano e 3 rimarranno. Differenza: zero. Congo: 4 erano e torneranno tutti a casa. Differenza: – 4. Cipro: 4 erano e 4 rimarranno. Differenza: zero. Georgia: 15 erano e torneranno tutti a casa. Differenza: – 15. Missione antipirateria: da 274 a 270. Differenza: – 4. Iraq (Iraq? ma non ci eravamo ritirati??): da 73 a 60. Differenza: – 13. Emirati Arabi Uniti-Tampa-Barhein: da 125 a 93. Differenza: – 32. Somalia Uganda: da 19 a 11. Differenza: – 8. Libia (qui il rifinanziamento vale solo tre mesi): da 1.970 a 1.086. Differenza: – 884.
Ho citato per intero questi dati per sottolineare tre aspetti. Primo: ancora una volta le lacrime di coccodrillo sulla guerra in Afghanistan si piegano alle esigenze dell’alleanza militare. Secondo: le missioni del nostro esercito nel mondo sono molte di più di quelle che il normale telespettatore cittadino conosce. Terzo: continuiamo non solo a tenere un importante contingente in Afghanistan, ma abbiamo lasciato 73 uomini in Iraq, continuando così a sostenere, almeno da un punto di vista simbolico, l’altra guerra di Bush, poi di Obama.
>>> Il disegno di questo articolo è di Danilo Cavallo. Il fotomontaggio è di Paolo Rey.