Crisi e manovra (I) – un articolo di Guido Viale

Mi propongo di pubblicare, a partire da oggi, alcuni interventi sulla crisi e sulla manovra delle «lacrime e sangue», quella che, secondo alcuni, dovrebbe aiutare l’Italia a non finire come la Grecia, Paese oggi in vendita per aver perduto la propria sovranità economica e per volontà delle agenzie di rating internazionali.

Per evitare di finire come la Grecia, ci assicurano, occorre tagliare i servizi, penalizzare lavoratori e famiglie, liberalizzare (=privatizzare =svendere) quei servizi che ancora sono gestiti da società pubbliche (in barba a quanto i cittadini italiani hanno voluto esprimere attraverso i referendum), magari dare in concessione la torre di Pisa per farne un bell’albergo pendente per ricchi; tutte ricette accomunate dalla perfetta osservanza dei dogmi ultraliberisti che hanno causato la crisi e ora pretendono di risolverla.

Quello che segue è un articolo di Guido Viale, che ri-pubblico con il consenso dell’autore, comparso sul manifesto del 12 luglio e, online, sul blog dell’autore.

Uragano in arrivo
di Guido Viale

Tanto tuonò che piovve. Messa a confronto con la potenza della finanza internazionale, la situazione dell’Italia si rivela ormai ben poco differente da quella della Grecia. Non importa che i cosiddetti “fondamentali” dell’economia siano differenti; o che lo siano i rispettivi tessuti industriali (o quel che ne resta: venerdì scorso la Fiat si è sbarazzata di un altro impianto: Irisbus, l’unica sua fabbrica italiana di autobus). La finanza internazionale ha ormai la forza e gli strumenti, se lo volesse, per mettere alle corde persino la Germania. È da mesi che gli economisti lo sanno (o lo temono). Ma non lo dicono; per scaramanzia. Al massimo lo accennano: ma solo per chiedere più lacrime (le loro: di coccodrillo) e più sangue (quello di chi non ne ha quasi più). Il problema è che non sanno che altro dire. Mario Draghi, per esempio, ha affermato che non ci sono precedenti di fallimento (default) di uno Stato da cui trarre insegnamenti. Intanto non è vero e, vista la posizione che andrà a occupare, sarebbe meglio che anche lui – e non solo lui – studiasse meglio il problema. Perché non c’è solo la Grecia, né solo gli Stati membri più deboli – i cosiddetti PIGS, a cui ora si è aggiunta anche l’Italia: PIIGS – a essere a rischio. Persino Obama teme il default: e non ha solo il problema, anche lui, dei tagli di bilancio: tra un po’ deve rinegoziare una fetta di debito e potrebbe non trovar più sottoscrittori disponibili come un tempo; poi deve confermare l’ultimo stock di moneta creata dal nulla: una cosa (che adesso si chiama quantitave easing) con cui gli Stati Uniti hanno dominato l’economia mondiale per sessant’anni, ma che non è detto gli riesca ancora. Neanche la Francia naviga in buone acque. E la Germania, la locomotiva d’Europa, vive di export verso il resto del continente e verso la Cina. Ma se metà dei paesi membri dell’UE sarà messa alle strette la bonanza tedesca potrebbe finire. E neanche la Cina va più tanto bene: scioperi, rivolte, aumenti salariali vertiginosi, inflazione, “bolle” finanziarie. «Ben scavato vecchia talpa!» direbbe Marx; se sullo sfondo non ci fosse una crisi ambientale di dimensioni planetarie. Insomma: non c’è “aria di crisi”. C’è un urgano in arrivo.

Per mesi gli economisti hanno trattato Tremonti come un baluardo contro il default del paese: solo perché lui sostiene di esserlo. Ma è un ministro – il secondo della serie – che non si accorge nemmeno che la casa dove abita viene pagata, vendendo cariche pubbliche a suon di tangenti, da una persona con cui (e con la cui compagna) lui lavora da anni gomito a gomito. Affidereste a quest’uomo i vostri risparmi? Povero Brunetta! È toccato solo a lui fare la parte del cretino. Ma si informino, diceva Totò (e ce lo ricorda Moni Ovadia).

Qualcuno però ha trovato la soluzione: azzerare tutto il deficit pubblico subito. «Lacrime e sangue» ora e non tra due anni: così Perotti e Zingales sul ilsole24ore di sabato scorso. Tagliare subito pensioni, sussidi alle imprese, costi della politica (anche; ma è solo fumo per gli allocchi, ci assicurano); e giù con le privatizzazioni. Che originalità! Segue un bell’elenco di “roba” – aziende e servizi pubblici – da vendere subito (per decenza non hanno citato anche l’acqua). Per le manovre “intelligenti”, aggiungono gli autori, non c’è tempo. Infatti la loro proposta non è una manovra intelligente. Intanto, in queste condizioni, vendere vuol dire svendere. E azzerare il deficit non è possibile, perché poi, anche se non si emettono nuovi titoli, bisognerà rinegoziare quelli in scadenza; i tassi li farà la finanza con le sue società di rating; e non saranno certo quelli di prima. Così il deficit si ricrea di continuo, in una rincorsa senza fine. Prima o dopo il default arriva. Naturalmente, per mettere alle corde pensionati, lavoratori e welfare, e svendere il paese, ci vuole il “consenso”, ci avvertono gli autori. Per loro il consenso è il «coinvolgimento dell’opposizione». Forse ci sarà; ma non servirà a niente.

Perché il consenso è un’altra cosa: è il coinvolgimento delle donne e degli uomini che hanno animato l’ultima annata di resistenza nelle fabbriche, di mobilitazioni nelle piazze, di occupazione di scuole e università, di campagne referendarie, di elezioni amministrative, di processi molecolari per ricostruire una solidarietà distrutta dal liberismo e dal degrado politico, morale e culturale del paese. È il popolo degli indignados, che ormai, con i nomi e le proposte più diverse, ha invaso la scena anche in Italia: forse con una solidità persino maggiore, dovuta a una storia più lunga, che risale indietro nel tempo, fino al G8 di Genova; e forse anche a prima. Un popolo che quel consenso non lo darà mai.

Se per Perotti e Zingales il problema è «far presto», per altri economisti continua invece a essere la crescita: non quella che permette di ricostituire redditi e occupazione strangolati; ma quella necessaria per ricostituire un «avanzo primario» nei conti pubblici, con cui azzerare il deficit e cominciare a ripagare il debito ai pescecani della finanza internazionale; ben nascosti dietro chi ha investito in bot qualche migliaia di euro. Questi economisti li rappresenta tutti Paolo Guerrieri sull’Unità del 10.7: «Il paese è fragile – spiega – ma la ricetta per la crescita la conosciamo tutti». E qual è? «Concorrenza, nuove infrastrutture [il TAV?], ricerca [de che?], liberalizzazione [forse voleva dire «privatizzazione»] dei servizi [anche dell’acqua?]. Cose che sappiamo – aggiunge – ce l’hanno consigliate tutti». Paolo Guerrieri ha appreso questa ricetta dall’economia mainstream e probabilmente continuerà a insegnarla ai suoi allievi per tutto il resto della sua vita. Pensa che per tornare alla crescita, che per lui è la “normalità”, basti premere un bottone; perché il disastro attuale è solo una sua momentanea interruzione: non si sa se dovuta agli “eccessi” della finanza o all’inettitudine di Berlusconi.

Ma le cose non stanno così. In un mondo al cappio, è la finanza internazionale che fa le “politiche economiche” la fa lei. Quelle che vedete. Gli Stati non ne fanno più; o ne fanno solo più quel poco che la finanza gli permette di fare; a condizione di poter continuare a speculare e a mandare in malora il pianeta. Anche “la crescita”, ormai, le interessa solo fino a un certo punto; se non c’è, poco male: per lo meno finché restano pensioni, salari, welfare, servizi pubblici e beni comuni da saccheggiare. Non è la prima volta nella storia che questo succede. Anche Luigi XIV, il Re Sole, diceva: dopo di me, il diluvio.

Adesso sta a noia tutti gli “indignati” che non accettano questo stato di cose e questo futuro – ricostruire dal basso quello che Stati e Governi non sono più in grado di promuovere; e nemmeno di concepire. Cioè il progetto di una società, di un sistema produttivo e di modelli di consumo condivisi, più equi, più sobri, più efficienti, più onesti; ma soprattutto le strade da percorrere – itinerari mai tracciati – per realizzarli. E tutto in un mondo che sarà sempre più – e a breve – cosparso di macerie: sociali, ambientali e morali. Ma anche di reazioni furibonde – come quella di Marina Berlusconi di fronte all’«esproprio proletario» (sic!) subito a beneficio di Carlo De Benedetti – e, verosimilmente, violente (basta pensare all’occupazione militare della Valle di Susa per imporre il “loro” modello di crescita; o a quella della Campania per imporre la “loro” gestione dei rifiuti). Non sarà una passeggiata per nessuno.

Un programma per realizzare quel progetto oggi non c’è; e non c’è il “soggetto” – per usare un’espressione ormai logora – per elaborarlo e portarlo avanti. Non a caso. Perché è un programma irrinunciabilmente plurale; che può nascere solo dal concorso di mille iniziative dal basso, se saranno in grado di tradursi in proposte che consentano un coordinamento e se avranno la capacità di imporsi con la forza della ragione e dei numeri. Ci aiuta il fatto che per ciascuno di noi l’agire locale è sempre orientato da un pensiero globale. L’opposto di quello che fanno i Governi e le forze che li sorreggono. Provocano disastri globali in nome di convenienze dettate da un meschino pensiero locale. La disfatta delle cosiddetta governance europea non è altro.

Tra i criteri ispiratori della nostra progettualità c’è innanzitutto un salto concettuale: nell’era industriale lo “sviluppo” economico è stato promosso e diretto dall’aumento della produttività del lavoro. Che è andata talmente avanti che oggi è praticamente impossibile misurare il valore di un bene con la quantità di lavoro che esso contiene, anche se ci sono ancora – e sono tanti – dinosauri come Marchionne che lasciano credere di poter battere la concorrenza tedesca o cinese rubando agli operai dieci minuti di pausa, qualche ora di straordinario, o qualche giorno di malattia. Tutto ciò è avvenuto a scapito dell’ambiente e delle sue risorse, saccheggiate come se non avessero mai fine. Da ora in poi, invece, si tratta di valorizzare le risorse ambientali e renderle sempre più produttive: con la condivisione, la sobrietà, l’efficienza, il riciclo, le fonti rinnovabili, la biodiversità (ecco un modo di distinguere la ricerca che vogliamo dalle vuote declamazioni in suo favore). Perché è dall’uso più accorto delle risorse che dipenderà anche la produttività del lavoro, che non può più essere misurata in giorni, ore, minuti e secondi; ma solo con il grado di cooperazione e condivisione che quell’uso saprà sviluppare.

>>> Leggi l’articolo Crisi e manovra (II) – Il referendum ha detto no al saccheggio – di Ugo Mattei.

Questa voce è stata pubblicata in Orwell (fascismi, sessismi, controllo, censura), Piazzetta della cittadinanza attiva e contrassegnata con , , , , , . Contrassegna il permalink.