Non credo nelle patrie o nei nazionalismi e penso che tutti dovremmo scoprirci parte di un’unica comunità umana, evitando tifoserie e divisioni, perché alla fine a questo si riduce tanta retorica sull’Unità d’Italia, sul 17 marzo Festa nazionale e via discorrendo.
Non credo negli “eroi” del Risorgimento, che forse hanno creduto, ma di sicuro hanno imposto, ciò che hanno portato a compimento: l’annessione di altri Stati al regno dei Savoia, coronando così l’antico sogno di espansione della dinastia piemontese.
Credo poi che l’Italia abbia fatto qualche cosa buona, soprattutto tra la fine della seconda guerra mondiale e quegli anni ’70 che Mariastella Gelmini vorrebbe cancellare dalla scuola e Marcegaglia e Marchionne dal mondo del lavoro, ma che sia ridotta – oggi – a una condizione miserevole che rende patetica l’idea di qualsiasi festeggiamento.
E credo che non basti – e non sia neppure necessario – esporre il tricolore alla finestra, per esprimere la propria condanna dell’egosimo leghista, del razzismo da “piccolo imprenditore padano”, dell’ipocrisia di chi da anni fa la bella vita a Roma per poi riversarle addosso l’epiteto di «ladrona»; quelli che da 15 anni a questa parte condizionano la vita politica del Paese, insomma, e ci hanno portati a fondo.
Non canterò il 17 l’Inno di Mameli, la cui musica, brutta, pure mi smuove (perché a certa retorica sono stato esposto sin dalla prima infanzia), ma il cui testo non può comunicarmi assolutamente nulla. Non mi piace e non intendo cantarlo, ma non posso pensare senza rabbia al figlio di Bossi, pluribocciato a scuola e (perciò?) eletto assessore regionale della Lombardia con il partito di papà, che esce dall’aula del Consiglio per protesta contro l’esecuzione dell’Inno.
L’Italia oggi esiste. Dividere l’esistente non ha senso. Esiste, ma non è un bello spettacolo: dev’essere aggiustata, dev’essere riscattata dall’egoismo e dalla grattezza di una classe dominante che ci vuole sudditi, pronti ad applaudire ogni trovata becera che esce dai cilindri di lorsignori. E se per cambiare occorre un po’ d’orgoglio nazionale, a salvarci non sarà certo quello «alla Larussa», il ministro che chiede di esporre la bandiera e, per dimostrare che davvero «siam pronti alla morte» come recita l’Inno, manda gli alpini a morire in Afghanistan, dove, sia detto per inciso, assieme alla loro vita metteranno a repentaglio anche quella di qualche autoctono, colpevole soltanto di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.
L’Italia esiste, ma tutto ciò che penso al riguardo ritengo lo esprima meravigliosamente la canzone «Io non mi sento italiano» di Giorgio Gaber, che invito a (ri)ascoltare con attenzione e il cui video pubblico in testa all’articolo.
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