Parte oggi, 18 settembre, da Londra, da Casablanca e da Dhoa (Qatar) la spedizione «Viva Palestina», tre convogli di terra che cercheranno di raggiungere Gaza per contribuire a spezzare l’assedio della Striscia iposto da Israele.
Giovedì sera, all’espace populaire di Aosta, l’iniziativa è stata presentata da Alfredo Tradardi dell’International Solidarity Movement (ISM), che si è trattenuto pochissimo, perché alle prese con gli ultimi problemi organizzativi per i mezzi che devono partire dall’Italia.
Alfredo ci ha quindi lasciati alla visione del documentario «To shoot an elephant», girato dall’attivista spagnolo per i diritti umani Alberto Arce, appartenente anche lui all’ISM, e da Mohammad Rujeilah, l’«aggancio» palestinese del gruppo.
La presentazione di Alfredo è stata breve, dunque, ma d’impatto, a partire dall’analisi della storia palestinese, caratterizzata da politicidio, sociocidio e genocidio, le tre linee guida della politica israeliana. Si tratta rispettivamente del tentativo di impedire la vita politica del popolo palestinese (si pensi ad Arafat prigioniero a Ramallah, escluso da qualsiasi colloquio di pace oppure, aggiungo io, al rifiuto di accettare la vittoria di Hamas a seguito di elezioni perfettamente regolari), la sua organizzazione sociale (Gaza e Cisgiordania divise, le colonie ebraiche che impediscono la coesione territoriale) e la stessa esistenza dei suoi membri, attraverso le uccisioni mirate e le azioni di guerra.
La pulizia etnica, del resto, è una caratteristica del movimento sionista fin dalla sua teorizzazione, come denuncia un israeliano, quell’Ilan Pappe autore del fondamentale La pulizia etnica della Palestina, e coincide con l’obiettivo di eliminare dalla Palestina tutti i nativi.
Alfredo ci ricorda che noi occidentali siamo complici e che, se tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 gli Stati europei avevano in generale una posizione filopalestinese, oggi c’è invece complicità con i governi di Tel Aviv. Un atteggiamento che riguarda i governi di tutte le tendenze politiche, quelli di destra come quelli di sinitra. E Alfredo invita a guardare il video dell’incontro tra Prodi, allora presidente del consiglio italiano, e Olmert, allora capo del governo israeliano, con il secondo che istruisce il primo su cosa dire in conferenza stampa e Prodi che ripete diligentemente la lezioncina.
Come cittadini, allora, e come persone di coscienza, abbiamo il dovere di cercare di rispondere, ad esempio attraverso il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), applicando così verso lo Stato di Israele le misure di boicottaggio economico, ma anche accademico-culturale, che furono determinanti per la fine dell’Apartheid in Sudafrica.
Per la carovana che parte oggi erano previsti 500 veicoli. Ne sono stati trovati fra i 150 e i 200, 6 dei quali in Italia. Il convoglio sarà a Torino il 21, con manifestazione in piazza Castello. Si spera di giungere a Gaza tra il 10 e il 15 ottobre. Contemporaneamente alla carovana via terra era prevista la partenza di una nuova flottiglia d’imbarcazioni, più grande della precedente. Problemi organizzativi hanno impedito la sincronia e la Gaza Flotilla partirà in ritardo.
L’obiettivo dei convogli è raggiungere Gaza, spezzando così l’embargo. Un secondo obiettivo è lanciare una sfida a quei Paesi arabi «moderati» che saranno attraversati durante il tragitto, per sollecitarne l’impegno in favore di Gaza e della Palestina. Durante il viaggio, spiega ancora Alfredo, è necessario che chi rimane in occidente contribuisca alla riuscita dell’iniziativa: la campagna BDS deve avere un crescendo e sulla carovana devono essere mantenuti accesi i riflettori della società civile.
È quindi il momento del documentario e, come ho scritto altrove, ho visto il cadavere di bambine e bambini. Nulla può giustificare questo, come nulla può giustificare il trauma subito dagli altri bambini, i sopravvissuti, compagni di sorte – senza poterlo sospettare – di quei loro coetanei israeliani che nell’estate del 2006 mettevano la loro firma sui missili destinati a colpire il Libano.
Bambini segnati dalla guerra.
Il resto è noto, o per scoprirlo basta guardare il film, o leggere la cronaca di un altro testimone del «Piombo fuso» israeliano, anche lui attivista dell’ISM, quel Vittorio Arrigoni che ha avuto la forza di intitolare Restiamo Umani il suo racconto dall’inferno.
Il resto è noto, o dovrebbe esserlo, ed è difficile evitare di ripetere cose già dette. Fa impressione ricordare le assicurazioni israeliane di saper condurre la guerra entro confini morali precisi, colpendo chirurgicamente i guerriglieri e risparmiando la popolazione civile (come se fosse possibile a Gaza, un “formicaio” di un milione e mezzo di umani, che non han luogo in cui scappare!) e confrontarle con le scene in cui i soldati prendono di mira le ambulanze della Mezzaluna rossa e colpiscono deliberatamente un paramedico che esce allo scoperto per raccogliere un cadavere.
Fa impressione vedere la voglia di vivere, e di ridere, degli abitanti di Gaza, il loro coraggio e quello dei volontari rimasti, la disperazione che non impedisce di raccogliere le prove che quello subito è un crimine di guerra, che Israele usa armi illegali, che la sostanza raccolta tra le macerie delle case che continua a bruciare a giorni di distanza è il fosforo bianco.
Ma fa impressione anche vedere quelle facce, belle in alcuni casi come quelle di attori degli anni d’oro di Hollywood, facce pulite e fiere. Fa impressione perché ci dice, al di là di ogni possibile dubbio, che noi e loro siamo esseri umani, appartenenti alla stessa, litigiosa, famiglia. Che non c’è un noi e un loro, a ben vedere, se anche gli attivisti occidentali riescono a esprimersi in arabo e se i palestinesi di Gaza, che spesso la propaganda dipinge come invasati da Hamas, trovano il tempo di scherzare tra le bombe e di spiegare come si fa il caffè o si maneggia il peperoncino.
A me – non sembri stupido – ha fatto impressione la segnaletica stradale per le vie della città, in tutto e per tutto uguale, dall’altra parte del Mediterraneo, a quella della mia regione di montagna incastonata nelle Alpi. Come si fa a essere diversi se ci accomunano persino gli stessi segni convenzionali?
Quello di Alberto Arce e Mohammad Rujeilah, in ogni caso, è un documento vero, non un film di propaganda. L’obiettivo non è mostrare come perfetto il popolo di Gaza, vittima dell’attacco israeliano. Così assistiamo con fastidio, quasi ci avessero snaturato gli eroi, a un funerale durante il quale tutti rispondono «Amen» alle preghiere dell’imam che chiede a Dio di distruggere Israele e tutti i suoi abitanti, anzi tutti gli ebrei.
Da qui è facile condannare la sete di vendetta, esattamente come è facile mostrarsi comprensivi, spiegando i toni e le parole con il fatto che i morti pianti durante il funerale erano stati assassinati dai soldati dell’esercito di Israele. In realtà non c’è nulla da spiegare, solo da registrare come l’attacco insensato, con gli aerei, i droni, le navi e i carri armati, contro una popolazione che in gran parte si sposta ancora a piedi o con i carri, non potrà altro se non produrre insieme ai lutti odio e violenza.
Anche tra le persone che dicevano «Amen» al funerale c’erano molti bambini; bimbi cresciuti alla scuola della guerra. E anche di questo la sedicente «sola democrazia del Medioriente» non può non sentirsi responsabile, insieme alle sue bombe.
Verso la fine del film si vede il magazzino centrale di Gaza, quello con le scorte degli aiuti umanitari internazionali, incendiato dalle bombe israeliane. «D’ora in poi non darò la colpa a Israele perché è inutile», commenta amaro Mohammad Rujeilah, coautore del documentario. «Darò la colpa alla comunità internazionale». Quella che accetta di vedere i propri aiuti annientati dalle bombe senza muovere un dito per fermare distruzione e massacri.
>>> La vignetta che correda questo articolo è opera di Carlos Latuff ed è pubblicata con il permesso dell’autore.