La gru e la carriola dovrebbero essere promossi a simbolo di questo sfortunato Paese. Potremmo aggiungerli alla bandiera italiana, forse lasciata bianca apposta tra il verde e il rosso.
La gru simboleggia i lavori, eternamente in corso, nei nostri quartieri e sulle nostre strade. La gru rappresenta il potere delle lobby del cemento, gli abusi edilizi, i piani-cas(s)a cari al peggior governo degli ultimi 150 anni (e certo anche a qualcuno dei precedenti). La gru svetta sui cantieri delle grandi opere, 9 volte su 10 inutili e impattanti.
La carriola lavora più in basso, resta «con la ruota per terra», porta materiale da costruzione per un Paese che bisognerebbe rifare, ristrutturandone gli edifici (risparmio energetico) come la coscienza civile; la carriola è simbolo di ricostruzione dal basso, come all’Aquila, dimenticata dallo Stato.
Questo Paese si trova, una volta di più e più di altre volte, prossimo allo “scontro finale” tra i custodi di quell’insieme di diritti conquistato con grande fatica contro gli orrori del fascismo e della seconda guerra mondiale – diritti scritti nella Costituzione, nello Statuto dei lavoratori, in tante leggi dello Stato – e coloro i quali vorrebbero mettere tutto in discussione nel nome del profitto, della «flessibilità» lavorativa, della deregolamentazione.
Alle pretese di un esecutivo che vacilla a causa di una maggioranza parlamentare non più sicura, ma che ritiene di dover andare avanti comunque sulla strada del presidenzialismo e della riforma della giustizia, e che fonda il diritto al governo su un’«unzione» dell’eletto attraverso il «rito» elettorale interpretato come lasciapassare per qualunque cosa, anche contro le leggi dello Stato, Carta costituzionale compresa, a tutto questo si sommano i diktat del «padronato», la cui punta più estrema è incarnata oggi dalla Fiat di Marchionne.
Tre operai sono stati licenziati «ingiustamente». Preso atto dell’infondatezza del licenziamento, una sentenza del giuduce del lavoro ne ha preteso il reintegro. Fiat ha in parte, bontà sua, “accettato” la sentenza (ai tre operai sarà corrisposto lo stipendio) e in parte no, perché ne ha impedito il ritorno alle proprie mansioni.
Fiat si permette oggi di decidere se e come ottemperare alla sentenza di un tribunale dello Stato.
Qualcun altro, in virtù della posizione che occupa, si permette di decidere se e quando presentarsi alle udienze dei processi che lo coinvolgono e cerca di riformare la giustizia italiana nonostante i molti procedimenti che gli pendono sul capo.
Il Presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, ha risposto pubblicamente alla lettera inviatagli dai 3 lavoratori di Melfi, ricordando… l’esistenza(!) della Costituzione e dei diritti e il ruolo che la Carta assegna al lavoro come mezzo di promozione umana e sociale («Comprendo molto bene come consideriate lesivo della vostra dignità percepire la retribuzione senza lavorare»).
La Fiat che decide come ottemperare a una sentenza è un po’ come l’automobilista multato per eccesso di velocità che “decidesse” di pagare il dovuto, ma “rifiutasse” di perdere i punti della patente. Però Marchionne non sembra impensierito, né dalle sentenze né dalle parole del Capo dello Stato, perché può sempre minacciare di spostare la produzione fuori dall’Italia, accelerando il processo di delocalizzazione già in atto.
Siamo all’intimidazione, dunque, utilizzata come arma contro il diritto. Berlusconi minaccia chi vuole strappargli lo scranno conquistato attraverso il voto (e quindi irrevocabile, benché la Costituzione di quella che è – e per il momento rimane – una repubblica parlamentare preveda ben altro); Marchionne minaccia di licenziamento e di esclusione chi non accetta di rinunciare ai propri diritti in cambio di lavoro.
L’intimidazione è forse la cifra più significativa del degrado italiano, riassumibile nella parola «berlusconismo» solo a patto di considerare il termine, in senso molto lato, come un insieme di relazioni, connivenze, incultura, amicizie e potere che va oltre la sola persona del (poco) Cavaliere. Perché la spettacolarizzazione della politica, l’inciucio affarista, la “cultura” maschilista e per più versi retrograda, l’incuria per la questione ambientale, le collusioni con le mafie e la promozione della forma a sostanza riguardano purtroppo il piddì con la elle, come il piddì senza elle.
Allo stesso modo, tanto a destra quanto nel (sedicente) centrosinistra domina incontrastata l’ideologia liberista, per la quale è normale, ad esempio, fare la guerra alle comunità locali per imporre un’opera sgradita (Berlusconi, Prodi, tutti), bruciare rifiuti in impianti privati pagati con i soldi dei cittadini (Bersani, Berlusconi), calpestare l’articolo 11 della Costituzione per fare i soldi con la guerra (Berlusconi, Prodi, D’Alema, Parisi, La Russa).
Sul manifesto è in corso un interessante dibattito sul «che fare» ora che la maggioranza è in crisi. Alberto Asor Rosa, partendo dalla premessa per cui il «bubbone» più infetto oggi in Italia è Berlusconi, propone un «governo di ricostruzione democratica», da realizzare in questa legislatura mettendo insieme tutte le persone e le forze contrarie al premier, dall’estrema sinistra ai finiani.
Un esecutivo che avrebbe il compito di ripristinare le condizioni necessarie per la democrazia, affrontando un elenco di questioni irrimandabili (fra le quali, registro con piacere, il celebre conflitto d’interessi e non solo la riforma della legge elettorale).
Non credo che la proposta di Asor Rosa sia realizzabile; non solo perché persone così diverse non si metteranno mai d’accordo (per di più nei tempi brevi auspicati da Asor), ma soprattutto perché mi domando quanto questo accordo sarebbe positivo. Non si tratterebbe, in fin dei conti, di riproporre una versione allargata – e sempre più centrista – dell’Unione di Prodi, quella che diede origine a uno fra i governi più confindustriali che si ricordi, dichiarò guerra ai diritti civili e continuò quella ai civili afgani?
Nel mio piccolo, penso piuttosto che la ricostruzione sociale e politica del Paese possa avvenire solo dal basso – carriola alla mano – attraverso l’opera culturale e la cittadinanza attiva dei singoli e soprattutto dei movimenti, cui il manifesto farebbe bene a chiedere un parere e un’analisi, nel dibattito in corso.
Si arriverà, prima o dopo, alle elezioni. Che cosa faranno a Montecitorio nel frattempo dipende poco da noi. Cosiglio, quando sarà, di partecipare all’appuntamento elettorale, almeno per limitare il danno; ma non saranno le forze attualmente presenti in Parlamento a portarci fuori dal berlusconismo e a restituire la democrazia a questo Paese.
Dobbiamo lavorare tutti, dal basso, per costruire una proposta culturale e le conseguenti modalità d’azione, perché la salvezza non viene dal piddì, e tantomeno dai finiani.