Nella tua città c’è un lager: che fai, chiedi le elezioni anticipate o il governo dei tecnici?

 Nella tua città c'è un lager
 Nella tua città c’è un lager; che cosa fai? Pieghi la testa e ti guardi
le scarpe, ti arrampichi sui muri del campo e cerchi di far scappare
tutt@, scrivi a Napolitano o sogghigni soddisfatto? Senza aggiungere
altre cazzate, forse è già qualcosa saperlo che c’è un lager, farlo
sapere, diffondere quelle notizie che i media non vogliono pubblicare.
 Il lager di cui parlo sono i CIE (Centri di identificazione ed
espulsione), strutture d’internamento preventivo, detenzione senza
processo
e senza difesa per migranti senza documenti. Strutture
nelle quali capita che i migranti siano picchiati, le donne stuprate, la qualità
della detenzione
di gran lunga inferiore agli standard di un Paese
democratico, ma anche rispetto a quelli delle carceri italiane. Strutture
dalle quali, spesso, uomini e donne scampati nei loro Paesi d’origine a
violenze e persecuzioni sono rispediti indietro, incontro a una morte
probabile
.
 Chi frequenta NoBlogs sa bene di cosa parlo. Ma (l’ex) Belpaese è pieno
di persone che hanno votato Berlusconi o che sono convinte che il Regime non sia ancora arrivato. Allora consiglio il sito Macerie, nel quale è
possibile trovare aggiornamenti sui casi più eclatanti di mancato
rispetto dei diritti umani e il giornale Nella tua città c’è un lager,
scaricabile online, con l’eloquente occhiello: «Perché nessuno dica che
non sapeva».
 I CIE (ex CPT, centri di permanenza temporanea) sono stati inventati
dal centrosinistra nel 1998 e in seguito "perfezionati" dai governi di
destra
. Questo a riprova del fatto che – come diceva qualcuno, forse con
intento diverso dal mio
– «la sicurezza non è né di destra né di
sinistra», ma trasversale agli schieramenti. Unica incognita: non si
capisce che cosa c’entri la sicurezza con il mettere in gabbia poveri
cristi, spesso colpevoli soltanto di non avere documenti.
 I CIE, in ogni caso, appartengono al centrosinistra tanto quanto alla
destra e costituiscono un esempio di quella detestabile convergenza di
idee
che rende gli schieramenti simili e ben poco alternativi l’uno
all’altro.
 Sono partito dai CIE, ma il "comune sentire" a cui mi riferisco interessa
molti temi cruciali dell’agenda politica. Ecco un elenco
incompleto di argomenti intorno ai quali la destra e il centrosinistra
la pensano allo stesso modo, o quasi:
 
 – bipolarismo e maggior potere per il governo;
 – acquiescenza verso imprese e mercato;
 – tagli selvaggi alla spesa pubblica e demolizione del welfare;
 – precarietà del lavoro;
 – privatizzazione dei servizi al cittadino;
 – finanziamento pubblico alle scuole private;
 – rapporti con la Chiesa cattolica;
 – grandi opere e cementificazione;
 – incenerimento dei rifiuti;
 – basi militari, armi e missioni di guerra;
 – limitazione della libertà del web.
 
 Di fronte alla situazione odierna, che vede il nostro Paese promulgare
nuove leggi razziali, stavolta contro i migranti, imporre i dogmi del
liberismo
, violare i diritti umani a casa propria e all’estero (le
suddette missioni di guerra
), il centrostinistra e la destra sono
corresponsabili
e condividono troppo spesso la medesima visione delle cose.
 In questi giorni il peggior governo degli ultimi 150 anni sembra
vacillare e di questo occorre rendere grazie al Cielo, per chi crede,
e forse – storcendo il naso – allo stesso presidente senza consiglio,
perché certo il merito non va alle opposizioni parlamentari. In questi
giorni i giornali si interrogano sul prossimo futuro. Sono meglio le elezioni anticipate o un bel governo tecnico, magari di
coalizione, per fare una nuova legge elettorale (effettivamente quella
attuale fa schifo
) e affrontare la crisi economica (qualcuno spieghi
anche, per esempio, come
)? O è preferibile stare a guardare e lasciare che
Berlusconi si consumi da solo?
 Sembrano tentennamenti assurdi e l’unica possibilità, onestamente, mi
sembra quella di andare al voto. Eppure, la situazione è difficile, non
solo perché l’esito elettorale non sarebbe scontato, ma perché, come ho
cercato di lasciar intravedere qui sopra, il problema non è soltanto
mandare a casa Berlusconi, ma deberlusconizzare l’Italia.
 Nel 1994 il primo governo del (poco) cavaliere cadde sulla riforma
delle pensioni
. Il governo Dini che gli subentrò come «tecnico» finì per
fare una riforma molto simile. Nel 2006 Prodi vinse le elezioni contro
Berlusconi. Il suo, più di tutti, fu il governo di Confindustria.
 Che si scelga di andare al voto o di formare il governo dei tecnici, o di unità
(magari, pensa un po’, con la destra di Fini e l’Udc!), il rischio è quello di
non ottenere cambiamenti reali, se non il fatto di aver sfrattato da
palazzo Chigi (ma non, e non è una battuta, da palazzo Grazioli) chi,
per via del suo enorme conflitto di interessi e delle sue discutibili
amicizie (mi riferisco a quelle politiche), è oggi
fra
tutte,
in
Italia, la persona meno adatta a governare.
 In un caso come nell’altro, il Paese non sarà stato deberlusconizzato e
gli schieramenti saranno ancora vittime del pensiero unico liberista.
In un caso come nell’altro, dunque, indipendentemente da ciò che si
pensa del voto (per me – l’ho già detto – 5 minuti in cabina sono forse
poco utili, ma per quel che costa tanto vale provarci
), dobbiamo
attrezzarci per la battaglia più dura, quella culturale: per proporre un
mondo senza gabbie, senza CIE, senza diritti sacrificati agli affari.


 PS: Ho letto i
comunicati stampa di due diverse
sezioni dell’associazione fascista
CasaPound
, volti a negare la matrice neofascista dell’attentato della
stazione di Bologna
di cui ieri, 2 agosto, cadeva il trentennale.
 Senza
elementi nuovi, e
dunque senza poter provare nulla, i neofascisti hano chiesto la
scarcerazione del terrorista Luigi Ciavardini (a loro dire – ma in base a che? – innocente),
condannato definitivamente dalla magistratura in seguito a regolare
processo. Striscioni di solidarietà a uno dei responsabili della morte
di 85 persone
e del ferimento di altre 200 sono comparsi in varie città d’Italia.
 A me sembra un segnale fin troppo eloquente della necessità d’impegnarsi anima e corpo nella battaglia culturale di cui sopra.

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