Malasanità: lettera aperta al Presidente Vendola e all’Assessore Fiore

 Quella che segue è una lettera aperta indirizzata al presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, e all’assessore pugliese alla Sanità, professor Tommaso Fiore. La pubblico con l’autorizzazione dell’autrice, Alessandra Solimeo, che conosco personalmente. La lettera tratta di un caso di malasanità conclusosi con la morte del padre della scrivente, Carmelo Solimeo, affetto da epatite C, a seguito del trapianto di fegato presso il reparto Chirurgia e trapianti del Policlinico di Bari, centro comunemente ritenuto «d’eccellenza».

 Il fegato trapiantato era un «fegato marginale di seconda scelta», affetto dal virus dell’epatite B, un organo che può essere utilizzato in casi d’emergenza, ma solo con il consenso informato del paziente e attivando in seguito la terapia a base di antivirali e anticorpi necessaria a impedirgli di contrarre la malattia.

 Carmelo Solimeo non è stato informato della «qualità» del fegato che riceveva, né gli è stata somministrata alcuna terapia.

 Nella sua lettera, Alessandra Solimeo chiede al presidente della Regione e all’assessore competente di intervenire per appurare le responsabilità mediante un’«indagine interna», «essenziale per il buon funzionamento della sanità pugliese», come «per la stessa legalità dell’azione di questa e di tutte le altre Pubbliche Amministrazioni dipendenti dall’ente Regione».
 Tale indagine dovrà affiancarsi all’azione investigativa e giudicante della procura e del tribunale di Bari (il pubblico ministero ha già richiesto il rinvio a giudizio dei medici che hanno seguito il caso clinico, quindi un processo sarà celebrato), se si vorrà davvero intraprendere il «coraggioso viaggio» che «prova a stanare i fantasmi delle vergogne e i segreti inconfessabili, cercando di non affondare mai nel pantano del cinismo e dell’acquiescenza, dove operano le lobbies, le corporazioni, le caste».

 Se davvero si intende far vivere la «buona politica» di cui parla il Presidente Vendola e dare «diritto ai diritti» dei cittadini.

 
 [NB: i corsivi e i grassetti nella lettera sono miei]
 

 Onorevole Presidente Vendola, Ill.mo Prof. Fiore,

 
 mi chiamo Alessandra Solimeo, e reputo fondamentale inviarVi la mia breve testimonianza in merito alla tragica vicenda che ha coinvolto la mia famiglia in seguito al trapianto di fegato subito da mio padre, Carmelo Solimeo, il 5 Maggio del 2008 presso il reparto di chirurgia e trapianti del Policlinico di Bari.
 
 A distanza di 19 mesi dal decesso del nostro congiunto, avvenuto il 2 novembre del 2008, avverto la necessità di porre importanti e inquietanti interrogativi, che meritano la giusta attenzione anche e soprattutto da parte di chi, istituzionalmente, ha l’onere, oltre che l’onore, di governare la nostra Regione.
 
 Voglio poter credere anch’io – e prendo in prestito le sue stesse parole, Presidente – che esista la buona politica, che si nutre di segni che danno sollievo al dolore, che danno diritto ai diritti, che cerca di capire per cercare di cambiare. Vorrei intraprendere con Voi quel coraggioso viaggio che, latu sensu, prova a stanare i fantasmi delle vergogne e i segreti inconfessabili, cercando di non affondare mai nel pantano del cinismo e dell’acquiescenza, dove operano le lobbies, le corporazioni, le caste.
 
 Su una di queste caste desidero, oggi, porre l’attenzione, e mi riferisco a quella dei medici che avrebbero dovuto salvare la vita di mio padre che, affetto da epatite C, necessitava di un organo nuovo. I mesi che precedono l’inserimento nella lista d’attesa, e il tempo che inesorabilmente scandisce le giornate del paziente e della sua famiglia nell’attesa che sia possibile effettuare l’intervento logorano l’esistenza, tra attesa e speranza da un lato, e dall’altro angoscia e paura che quell’organo non arrivi mai. Perché è della sacralità della vita che si parla, e del rispetto della dignità di chi soffre.
 
 Mio padre è stato calpestato sotto l’uno e l’altro aspetto: con il delirio di onnipotenza tipico del medico che si fa beffa di ogni senso di responsabilità, competenza e merito, oltre che dell’attitudine all’ascolto e alla solidarietà umana, gli è stato trapiantato, in regime di totale disinformazione e, dunque, senza il suo doveroso consenso informato, un cosiddetto «fegato marginale di seconda scelta», affetto dal virus dell’epatite B, che esponeva il soggetto ricevente al rischio di contrarre la malattia. Rischio che i trapiantologi sanno diventare quasi certezza in assenza della terapia antivirale e anticorpale che, in base a protocolli internazionalmente riconosciuti e adottati, deve necessariamente somministrarsi. A mio padre tale terapia è stata inspiegabilmente negata, sebbene tutti i medici che avrebbero dovuto occuparsi del post-operatorio fossero a conoscenza delle caratteristiche di quel fegato marginale: ogni foglio del diario clinico giornaliero attinente al periodo di ricovero ne evidenziava le “qualità”.
 
 Ma v’è di più.
 
 I sanitari del Centro Trapianti di Bari non hanno solo commesso un manifesto e intollerabile abuso all’inizio, con la plateale violazione in danno di mio padre del loro obbligo di acquisire un consenso informato dal paziente.
 
 Non hanno solo commesso un’omissione terapeutica tanto indecentemente grossolana per un medico trapiantologo da risultare inverosimile come errore, poi risultata esiziale per mio padre.
 
 Si sono anche fregiati di un’ultima perla finale, che ha ulteriormente impreziosito la collana di scempi perpetrati sulla persona di Carmelo Solimeo.
 
 Nei 35 giorni, dal 29 settembre al 2 novembre 2008, data della sua morte, in cui è stato ricoverato al Centro Trapianti di Bari, quando ormai l’epatite B, evidentemente, era esplosa nel corpo di mio padre, tra i millanta esami, accertamenti, analisi, i più invasivi e dolorosi, cui egli è stato sottoposto per individuare la causa del male “oscuro”, secondo la vulgata corrente tra i sanitari che lo avevano “in cura”, il primo specificamente mirato all’individuazione del virus in questione venne effettuato solo il 16 ottobre 2008 e i relativi risultati pervennero, a quel che risulta, il 27 ottobre 2008.
 
 Ciò poiché, come venne riferito reiteratamente a noi familiari, le ricerche diagnostiche furono principalmente rivolte, per lungo tempo, a un’ipotesi leucemica.
 
 Stante la perfetta consapevolezza che la gran parte di quei medici aveva della “qualità” dell’organo impiantato a mio padre nel maggio precedente, nonché l’altrettanto verosimile coscienza che essi dovevano aver ormai maturato della marchiana omissione terapeutica che essi stessi avevano consumato su quello sventurato paziente, la pervicace, inverosimile indagine in direzione di una fantomatica leucemia si mostra a chi scrive in tutte le sue invereconde sembianze di una vera e propria manovra diversiva.
 
 Estremo oltraggio inferto a un corpo, quello di mio padre, che ormai era stato colonizzato da una malattia indotta principalmente dalle opere e dalle omissioni di quegli stessi ineffabili epigoni di Ippocrate.
 
 L’epilogo della vicenda si è rivelato, pertanto, quello già annunciato: la morte del paziente Carmelo Solimeo per epatite B necrotizzante (come accertato da perizia dei CTU incaricati dalla procura di Bari, che ha condotto le indagini).
 
 Alla luce di quanto ho sommariamente esposto, ritengo sia assolutamente necessario illuminare gli angoli bui di tale vicenda. Al fine dell’accertamento delle responsabilità penali dei medici che hanno seguito mio padre, e nei confronti dei quali il PM della procura di Bari ha già richiesto il rinvio a giudizio, sarà celebrato un processo, e sarà in quella sede che emergeranno le attese verità e finalmente giustizia sarà fatta.
 
 Ma oggi chiedo a voi, Onorevole Vendola e Assessore prof. Fiore, di condurre una indagine interna, parallela all’attività investigativa della Procura e giudicante del Tribunale di Bari, e non meno essenziale per il buon funzionamento della sanità pugliese, nonché per la stessa legalità dell’azione di questa e di tutte le altre Pubbliche Amministrazioni dipendenti dall’ente Regione da Voi governato.
 
 Mi rivolgo a lei, Presidente, al fine di disincentivare con i fatti il ricorso, spesso obbligato (mi consenta di aggiungere), ai tanto chiacchierati viaggi della speranza nel nord Italia, che tanto costano, è vero, al bilancio della nostra Regione; ma, mi creda, il prezzo di gran lunga più gravoso lo pagano i pazienti che, già duramente provati dalla propria malattia, devono affrontare altre fatiche e umiliazioni. Perché è un’umiliazione essere respinti da un centro d’eccellenza del nord (magari quel nord di Bossi) sulla motivazione che «Lei un centro trapianti lo ha nella sua Regione, perché viene a ingolfare le nostre liste d’attesa?». Motivazione potenzialmente condivisibile, se non fosse che purtroppo il nostro centro d’eccellenza ha molte e troppe pecche da farsi perdonare.
 
 Al di là della questione dolente di un trapianto con fegato marginale infetto effettuato senza il consenso del paziente (a cui non è concessa la libertà di scelta in ordine alla propria salute e, in questo caso, in ordine alla propria vita), episodio in ordine al quale bisognerebbe chiedersi se e fino a che punto ci sia stata una svista, o se invece è, questa, una prassi consolidata sul presupposto che al paziente non è dato decidere e autodeterminarsi, essendo tutto rimesso alla onniscienza del chirurgo (per sintetizzare, è questa la motivazione che fu addotta a noi familiari); premesso tale aspetto, il nostro centro di eccellenza, che oggi coordina la rete interregionale dei trapianti… è gestito nei fatti solo da medici specializzandi.
 
 Nella delicatissima fase del post-trapianto, che richiede un’altissima professionalità e conoscenze specifiche atte a fronteggiare tutte le possibili complicazioni ed emergenze a cui va incontro il paziente trapiantato, questi non ha alcun punto di riferimento serio e affidabile, da cui ricevere le giuste informazioni e rassicurazioni, e a cui riferire l’andamento del proprio decorso successivo all’intervento, confidando di ricevere le cure appropriate e adeguate.
 
 Mio padre non è mai stato seriamente visitato durante i controlli effettuati anche due volte la settimana: le sette ore di attesa nei corridoi antistanti l’ambulatorio di chirurgia (tempo di attesa che avrebbe debilitato anche un soggetto perfettamente sano) erano e continuano a essere finalizzate unicamente alla lettura dei risultati degli esami ematologici di routine. In cinque mesi il chirurgo che ha operato mio padre non si è mai visto! I medici specializzandi asserivano che fosse lui (nella sua stanza privata sita chissà dove, considerando che nessuno di noi l’ha mai potuta vedere) a controllare le analisi: ma credo che non siano solo dei valori clinici che vadano monitorati (per questo basterebbe un computer): è il paziente che dovrebbe essere visitato, ascoltato, incoraggiato, perché è una persona che soffre, non è un numero di cartella clinica! Mio padre è stato abbandonato a sé stesso, ma soprattutto a un destino che altri avevano scelto per lui: è morto tra atroci sofferenze, devastato dall’epatite “donatagli” assieme a quel fegato che tutto il personale medico, fin dopo il suo decesso, ha sempre qualificato ottimo. Sarebbe bastato, per averlo ancora qui con noi, che qualcuno si fosse ricordato che era necessario effettuare una terapia con antivirali e anticorpi. I medici del nostro centro trapianti di Bari hanno avuto sei mesi per richiamarlo alla memoria, ma forse erano «in altre faccende affaccendati».
 
 Mi permetto, a chiusura di queste personalissime osservazioni, di fare una considerazione sulla “strategia difensiva” adottata dall’allora assessore alla sanità Alberto Tedesco, e dal direttore generale del Policlinico di Bari dott. Vitangelo Dattoli, all’indomani del decesso di mio padre: le conferenze stampa da essi indette hanno avuto la palese finalità di una intimidazione nei confronti della mia famiglia, minacciandoci di querela per diffamazione.
 
 Quanta fondatezza avessero la pressoché totalità delle affermazioni, la ricostruzione dei “fatti”, poste dai soggetti su citati a base di quei preavvisi di querela, dunque quanta decenza avessero questi ultimi nei confronti di una famiglia che aveva appena perso un suo caro in quel modo e per quelle responsabilità, si è rivelato chiaramente dalla citata decisione del PM di esercitare l’azione penale, cioè di chiedere il dibattimento, nei confronti dei medici del Policlinico.
 
 Ci aspettiamo, a questo punto, una querela del direttore generale del Policlinico nei confronti del PM per diffamazione del “suo” ente.
 
 Ad ogni buon conto, ancora una volta ci siamo sentiti abbandonati e calpestati. Ci aspettavamo di ascoltare dichiarazioni di vicinanza al nostro dolore; confidavamo nel fatto che entrambi sarebbero stati pronti ad avviare indagini interne per comprendere cosa fosse successo durante i sei mesi successivi al trapianto. Ma nulla di tutto questo è avvenuto. La logica del corporativismo e del potere di casta ha avuto il sopravvento.
 
 Confidando che il vento della buona politica possa spazzare via le vergogne da una parte, e le nostre amarezze dall’altra, porgo i miei distinti saluti.
 
 Alessandra Solimeo

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Una risposta a Malasanità: lettera aperta al Presidente Vendola e all’Assessore Fiore

  1. Alessandro Milo scrive:

    Buongiorno a tutti, sono il presidente di un’Associazione che tutela, gratuitamente, i pazienti vittime della malasanità. L’associazione si chiama O.DI.S.SE.A. “onlus per il diritto alla salute al servizio dell’ammalato” e lo staff della stessa è composto da medici, psicologi, volontari ed avvocati che tuetelano le vittime della malsanità in maniera totalmente gratuita. CHIAMATEMI e vi aiuteremo a risolvere i vostri problemi . RIBELLIAMOCI ALLA MALASANITà E ALLA MALAPOLITICA . NON RINUNCIAMO A FAR VALERE I NOSTRI DIRITTI……………..Alessandro Milo 333/8691671

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