Niente crocifisso in
classe.
Lautsi, di Abano Teme (Padova), la Corte europea dei diritti umani ha
stabilito che l’esposizione del crocifisso in classe «è contraria al diritto
dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e con il
diritto dei bambini alla libertà di religione». Parole interamente
condivisibili, a patto di aver interiorizzato il principio democratico che
sostiene l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Non stupisce, perciò,
che il governo italiano abbia immediatamente presentato ricorso contro la
sentenza, né che il nuovo leader del principale partito d’opposizione (ah ah),
quello che non aveva avuto paura di pronunciare la parola «sinistra» in
campagna elettorale, si sia affrettato a dichiarare che il crocifisso «non
offende nessuno». Come se fosse questa la questione.
Il punto, come ha rilevato la Corte, è che «l’esposizione
obbligatoria di un simbolo di una data confessione in luoghi che sono utilizzati
dalle autorità pubbliche, e specialmente in classe, limita il diritto dei
genitori di educare i loro figli in conformità con le proprie convinzioni»; che
«la presenza del crocifisso […] potrebbe essere facilmente interpretata dagli
studenti di tutte le età come un simbolo religioso, che avvertirebbero così di
essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data
religione»; che non si capisce come «come l’esposizione […] di un simbolo che
può essere ragionevolmente associato con il cattolicesimo, possa servire al
pluralismo educativo che è essenziale per la conservazione di una ‘società
democratica’ […] un pluralismo che è riconosciuto dalla Corte costituzionale
italiana».
Come insegnante di lettere nella scuola media inferiore
(secondaria di primo grado, se vi piacciono le definizioni nuove), comprendo
benissimo l’importanza della religione cattolica come chiave di lettura
privilegiata della cultura e della storia d’Italia. Tutti i giorni "andiamo a
sbattere" nel cattolicesimo durante le ore di storia, o leggendo testi letterari
che sicuramente non sono soltanto medievali, fino ai casi emblematici della
Commedia di Dante e dei Promessi Sposi. Del rapporto tra essere umano e
religione parliamo in geografia, in educazione civica e ancora in storia e letteratura.
Non ho mai rifiutato, perché laico, di affrontare tematiche religiose; solo, ho
sempre premesso che non si trattava di un insegnamento religioso, ma
dell’esposizione del pensiero di tizio o caio, di ciò che gli esseri umani
scrivevano o pensavano un tempo, pensano o scrivono oggi. Non ho mai rifiutato
il confronto, e neppure la cooperazione con l’insegnante di religione, che mi è stata preziosa nell’affrontare determinati periodi o figure storiche. Non ho mai
impedito agli alunni di esprimere, come pare a loro, la propria fede o assenza di fede. Nessuno potrà seriamente pensare di vietare che una
catenina con la croce circondi il collo di un alunno, o contestare un
cartellone fatto dalla classe in cui campeggi un simbolo religioso, perché si
tratta di scelte personali, private, e sacrosanto è il diritto di espressione.
Eppure, un velo sul capo dell’alunna musulmana scatena talvolta fiumi di polemiche,
anche quando sia possibile appurare la volontà dell’interessata (non della
famiglia) di indossarlo. Un simbolo esposto all’attenzione di tutti su
decisione dello Stato, invece, non può essere contestato, o suscitare
polemiche, il che è paradossale, considerando la natura pubblica, non privata,
di una scelta imposta per legge.
«Il Crocifisso», ha dichiarato commentando la sentenza della Corte
europea padre Federico Lombardi, direttore
della Sala stampa vaticana, «è stato sempre un segno di offerta di amore di Dio e di unione e
accoglienza per tutta l’umanità». «Dispiace che venga considerato come un segno
di divisione, di esclusione o di limitazione della libertà. Non è questo, e non
lo è nel sentire comune della nostra gente». Ma se questo è vero, sarà allora
innanzitutto interesse della Chiesa evitare che il crocifisso – simbolo di «unione
e accoglienza» – sia interpretato come «segno di divisione». Forse,
direttamente, quei brutti crocifissi prodotti in serie appesi sopra le lavagne non
offendono nessuno, ma testimoniano di una scelta di campo da parte dello Stato e della
scuola pubblica, che non possono e non devono essere percepiti come
confessionali. La laicità, che non pregiudica in alcun modo la possibilità di
credere, o di professare pubblicamente la propria fede, è un valore che va
riscoperto come premessa per un sano esercizio della propria libertà, anche di
culto.
[Come succede nei peggiori siti commerciali, mi viene la
tentazione di aggiungere: «Di’ la tua lasciando un commento»]
Carissimo prof.,mi permetto di esprimere il mio pensiero, lungamente meditato e maturato nel corso della preparazione e svolgimento di una tesi di laurea che che aveva proprio ad oggetto la libertà di esercitare il proprio culto religioso.Credo che la c.d.”Laicità all’italiana”, che si contrappone a quella francese che vorrebbe la totale assenza di simboli religiosi in ambienti pubblici,si caratterizza proprio per il suo tendere ad assicurare a tutti la libera manifestazione del proprio credo o non credo religioso.Sarebbe allora veramente bello vedere da una parte il crocifisso su una parete,e dall’altra il velo sul capo di una eventuale alunna islamica. Solo così i nostri figli si abituerebbero veramente e con convinzione a vivere in una società varia e multietnica. Laicità E’ INCLUSIONE E NON ESCLUSIONE.Grazie per lo spazio
Carissima dottoressa, innanzitutto hai fatto bene a permetterti. Naturalmente sono d’accordo con te sulla reciprocità dei diritti tra religioni e culture diverse, ma trovo che il sistema di “laicità all’italiana”, così come lo descrivi, abbia qualche pecca. Se è vero che il modello francese può risultare troppo prescrittivo, perché impone non solo l’assenza di simboli religiosi provvisti dallo Stato, quindi pubblici, ma anche simboli personali (di qui la polemica sul “divieto di velo”), è anche vero che un velo sul capo non “riequilibra” la presenza di un crocifisso esposto per legge in tutte le aule del Regno (mi è venuta così…). Due sono gli ambiti, quello pubblico e quello privato: il crocifisso è esposto per decisione pubblica, il velo è una scelta personale. Il corrispettivo cristiano del velo può essere sì la croce, ma la croce che un individuo decide di portare al collo. Le convinzioni personali possono essere manifestate, nei limiti della legge, e non contrastano con il principio di laicità dello Stato. Il crocifisso a scuola non è questione di convinzioni personali. Immagino bene, invece, cartelloni realizzati dalle classi, nei quali può campeggiare tutto ciò che gli alunni ritengono rappresentativo, dal pallone da calcio, all’abito, al crocifisso, alla menorah, ecc, perché lì sono loro e soltanto loro che scelgono. Questa mi sembra sarebbe una buona “laicità all’italiana”!