Bruno Maida – Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi

 Bruno Maida e Silvana Presa
 Il percorso Collettivamente Memoria 2009 è dedicato a Ida Désandré,
deportata politica nei campi di sterminio di Ravensbrück, Salzgitter,
Bergen-Belsen. Ida era presente mercoledì 21 gennaio all’espace populaire di Aosta, in occasione della presentazione del libro dello storico Bruno Maida «Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi». All’inizio della serata sono state lette alcune parole di Roberto Contardo, il figlio di Ida, scritte in occasione dell’inaugurazione del nuovo museo Memorial Bergen-Belsen:
«Non avrei mai pensato che […] il mio coinvolgimento emotivo arrivasse
al punto di osservare tutto ciò che mi capitava e di non vederlo più
con i miei occhi», dice Contardo, «ma con i suoi, dentro ai quali la
fotografia di quanto si realizzò è più che mai nitidamente presente». E
ancora: «mi sono lasciato assalire dall’orrore, in maniera di
immergermi spiritualmente nella dolorosa e tragica vicenda che
coinvolse quella moltitudine di persone».
 È Silvana Presa, direttore scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta,
a fornire alcuni spunti per la lettura dell’opera, mettendo in
evidenza, fra i temi centrali del libro, la questione di genere e il
rapporto dell’ex deportato o ex deportata con la società, dopo la
liberazione e il ritorno. Nell’Italia dell’immediato dopoguerra non c’è
spazio per il racconto della deportazione: a Lidia Rolfi, che
vorrebbe raccontare la propria esperienza, viene replicato che gli eroi
sono quelli che muoiono combattendo, non quelli che si fanno prendere
prigionieri.
 È quindi il turno dell’autore del libro, Bruno Maida, che spiega di non aver voluto tracciare un resoconto della deportazione, ma una compiuta biografia di Lidia Rolfi, a partire dalla sua giovinezza, per concludere con il periodo successivo al ritorno in Italia.
 
Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria RolfiLidia Rolfi nasce a Mondovì (Cuneo) in una famiglia non antifascista, ma infastidita dagli aspetti più rozzi del fascismo. Il primo schiaffo
della sua vita lo riceve dal padre, quando torna a casa tutta eccitata
per aver ascoltato il discorso di Mussolini che annuncia l’entrata in
guerra dell’Italia contro la Francia. Lidia è entusiasta, ma il padre
sa cos’è la guerra per aver fatto la prima e sa che porta solo lutti.
Dopo una breve esperienza nella Resistenza, Lidia è deportata a Ravensbrück. Definisce il lager come una sorta di università, un’esperienza alla luce della quale rileggere la sua vita precedente. È nel lager che impara che cos’è la cittadinanza. Lo apprende da una detenuta francese, comunista, che le dà il secondo schiaffo
importante, il giorno in cui lei cerca di saltare la fila. Il messaggio
è che è giusto ribellarsi al campo, ma non quando a rimetterci sono le
compagne di prigionia. Nel lager le comuniste francesi sono
fortemente unite e Lidia impara da loro. È troppo libertaria per
diventare comunista (non è d’accordo con le compagne, ad esempio,
quando dicono che, se si dovesse salvare qualcuna, bisognerebbe
cominciare dalle comuniste).
 Di ritorno in Italia, anche Lidia vive il conflitto, che lacera tutti i testimoni, tra la parola e il silenzio.
Alla fine diventa testimone, ma dopo aver vissuto il silenzio
quotidianamente: rispetto ad altri lager più famosi, infatti,
Ravensbrück è, all’inizio, un nome poco noto, che non si trova nelle
carte geografiche; soltanto nel ’55 Lidia lo vedrà scritto in un libro.
Ma il silenzio è soprattutto quello della società, perché l’Italia del
dopoguerra non ha voglia di ascoltare ciò che dicono i reduci dei
campi, e ancor meno interessa la deportazione femminile, perché la Resistenza è quella delle armi. E invece il problema non è sparare sul
nemico, ma opporsi, anche inconsapevolmente, al sistema. Lidia
diventerà poi un personaggio pubblico dopo la pubblicazione del libro
«Le donne di Ravensbrück».
 Un aspetto sul quale Maida insiste è il corpo umano, che non può
essere espunto da una storia di deportazione. Ma lo storico deve
entrare, da uomo, in un’esperienza femminile, che una donna avrebbe
raccontato in un’altra maniera. Maida si sofferma sull’imbarazzo della
ragazza di provincia costretta a spogliarsi in pubblico, sull’orrore di
«becera moralista» provato di fronte a una deportata tedesca rasata e
incinta («Che orrore! Sembri Mussolini!»). Cerca di individuare gli
elementi di uno specifico femminile, in relazione al tema della
deportazione; fattori che alcuni individuano nel sentimento della
solidarietà. Secondo Liliana Segre, deportata ad Auschwitz, questo non
è vero. Ma forse bisogna semplicemente accordarsi sul significato del
termine «solidarietà»: per noi essa implica una relazione, il concetto
della fisicità. Nel lager, però, è solidarietà anche il fatto di
rivolgere la parola, restituendo in tal modo un po’ d’umanità. Ma forse
l’elemento specifico potrebbe essere il concetto di «maternità»: figli
che diventano genitori per madri e padri troppo vecchi. Il materno come
solidarietà.
 La storia di Lidia pone la questione della deportazione come storia
dei deportati
. A volte si mettono al centro i temi, non le
persone. Raccontando una biografia, invece, Maida costringe il lettore
a mettersi davanti a una persona, alla soggettività.

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