Dal Manifesto della razza al Manifesto di Verona. Leggi razziali e deportazione degli ebrei dalla provincia di Aosta (Paolo Momigliano Levi)

 Aosta, espace populaire. Silvia Berruto e Paolo Momigliano Levi
 Prima le immagini televisive, le note e le parole di Fabrizio eseguite da Roberto Vecchioni: il «potere» è il mostro che genera la guerra, «la guerra di Piero», quella che strappa il «campo di grano» alla pace e ne fa un cimitero. Le voci degli alunni dell’Istituto statale Fabrizio De André di Peschiera Borromeo risuonano in Girotondo, fiaba di guerra e dell’amore per gli altri, al tempo stesso pessimista e capace di speranza, perché intanto «l’aeroplano vola […] se getterà la bomba chi ci salverà? / Ci salva l’aviatore che non lo farà / ci salva l’aviatore che la bomba non getterà». Di qui la figura del refusenik: il video di un’intervista a un militare israeliano che è stato richiamato due volte in servizio e per due volte ha detto no. «Bombardare un’area così densamente popolata è qualcosa che difficilmente può essere giustificato», dice: perciò la scelta è fatta, anche di fronte alla prospettiva del carcere. Per spezzare la spirale del consenso verso la guerra, grande è il valore dell’«obiezione», come nel 2006 in Libano. «Se vado in prigione avrò tanto tempo per leggere», confida il refusenik: un altro modo di concepire la vita, il tempo, le opportunità.
 Segue la presentazione del percorso Collettivamente Memoria 2009: «È in corso una guerra planetaria», spiega Silvia Berruto, curatrice dell’iniziativa, «e noi non siamo qui per fare salotto». Per questo la memoria della Shoah prende le mosse dall’oggi, da Gaza insanguinata, e dal passato recente, Mostar 1995, ricordato con due bossoli raccolti durante la guerra nell’ex Yugoslavia.
 La guerra è la guerra dei grandi, ma i piccoli ne fanno le spese. «Non avevo mai riflettuto sui bambini morti d’infarto», dice Berruto, che insiste sul ruolo della scuola, della didattica. Per questo Collettivamente Memoria si apre con gli studenti che cantano De André e si conclude con il cortometraggio Il principe e la strega, prodotto da Parallelo 41/Arcimovie Napoli/70° Circolo Didattico di Napoli. Nel tentativo d’indicare, tra la guerra guerreggiata e la non-guerra senza pace, la strada della nonviolenza.
 È il turno di Paolo Momigliano Levi, insegnante, ex direttore dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta, che mette al centro del proprio discorso il «silenzio assordante» che accolse l’introduzione delle leggi razziali nell’Italia del 1938. Se qualcuno avesse espresso il proprio disaccordo, forse la storia sarebbe stata diversa e la vita di tantissime persone più facile. C’è continuità, ma anche evoluzione del concetto di razza, tra il Manifesto del 1938 e quello di Verona del ’43. Gli articoli del primo Manifesto servivano tutti a “dimostrare” l’estraneità degli ebrei alla «razza italiana». Nel secondo, invece, dal concetto di «estraneità» si è passati a quello di «ostilità», perché agli ebrei viene assegnata la condizione di appartenenti a «nazionalità nemica».
 Una volta deciso che il Paese avrebbe avuto una politica razziale, si rivelò necessario censire gli ebrei. L’intento del governo era quello di verificare se vi fossero casi di matrimoni misti o di conversioni, elementi che sarebbero stati considerati nelle leggi. Nella provincia di Aosta gli uffici pubblici furono incaricati delle stesse mansioni delle altre province, nonostante gli ebrei valdostani fossero pochissimi. Una lettera scritta dall’Abbé Trèves durante il censimento, il 23 agosto 1938, racconta di come «da qualche giorno» due guardie fossero andate a chiedere a sua insaputa alla portinaia se lui fosse ebreo. Trèves commenta che nella sua famiglia c’erano tanti preti e suore, ma che se ci fosse stato anche un po’ di sangue ebraico ne sarebbe stato onorato.
 L’applicazione delle leggi razziali implicava aspetti macroscopici, come l’espulsione dalle scuole di tutti gli insegnanti e gli alunni ebrei, insieme ad aspetti più minuti: gli ebrei, ad esempio, «non possono avere in casa una radio» e neppure «piccioni viaggiatori». Dimostrare che qualcuno era ebreo era relativamente facile: più difficilie dimostrare la sua “arianità”. C’è il caso dell’ufficiale che scrive alla Regia Prefettura di Aosta per ottenere un certificato che attesti la propria appartenenza alla razza ariana. Ne ha bisogno per un concorso, ma il comune a cui si è rivolto non ha voluto rilasciarglielo, negando l’esistenza di un simile documento. Allo stesso modo, 17 valdostani sono in cerca di quel certificato per poter avere una presa d’acqua, mentre un impiegato scrive al prefetto per sapere se può acquistare una macchina da scrivere Olivetti, considerata l’appartenenza di questa famiglia alla “razza” ebraica. Si provi a moltiplicare i casi indicati per il numero dei comuni italiani (ogni podestà, vale a dire ogni sindaco, aveva il dovere di applicare le leggi razziali) e si toccherà con mano l’assoluta idiozia della legislazione antisemita, il disagio e la perdita di tempo che essa comportò per migliaia di cittadini.
 Gli aspetti più gravi della discriminazione sono naturalmente quelli tragici dell’esclusione e della persecuzione vera e propria, fino alla deportazione in Germania e alla soluzione finale. Come sarebbe cambiata la storia se chi era sotto le gerarchie del regime avesse detto no? L’esempio danese dimostra l’efficacia della resistenza nonviolenta all’occupazione nazista e alla sua politica antisemita.
 Momigliano Levi riserva un’attenzione particolare all’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei. All’epoca del censimento, i responsabili del Ministero degli Interni avevano proposto di sostituire la parola «ebreo» con la parola «giudeo» perché per la stragrande maggioranza delle persone la parola «ebreo» voleva dire pochissimo, mentre tutti avevano presente i «perfidi giudei» che avevano ucciso Cristo, perché questa espressione era contenuta nella liturgia del Venerdì Santo. Sotto il papato di Pio XI, in realtà, il Vaticano espresse con forza la condanna del razzismo: papa Ratti giunse ad affermare che «l’umanità è un fatto unico». Non tutti, però, all’interno della gerarchia romana, nutrivano le stesse convinzioni del pontefice. Di fronte all’introduzione delle leggi razziali vi fu anche chi disse: «questa politica razziale ci sembra eccessiva», per poi aggiungere: «Meglio sarebbe fare fuori gli ebrei che danno più fastidio». La rivista gesuita «Civiltà Cattolica», invece, invitava a evitare i matrimoni misti (anche in relazione al "problema" costituito dalle colonie africane). All’aperta condanna del razzismo espressa dal papa corrispondeva insomma una serie di atteggiamenti di segno contrario da parte della Chiesa, che si accentuarono con l’elezione di Pio XII al soglio pontificio.
 
 Prossimo appuntamento di Collettivamente Memoria 2009:
 Mercoledì 21 gennaio 2009, espace populaire (Aosta).
 «Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi».
 Presentazione dell’autore, Bruno Maida, docente di storia contemporanea presso l’Università di Torino. Interviene Silvana Presa (Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta). Ospite d’onore: Ida Désandré, deportata politica a Ravensbrück, Salzgitter, Bergen-Belsen. A cura di Silvia Berruto.
 

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 NB: Non sono contento di come ho preso gli appunti. Il testo di questo articolo mi pare meno organizzato rispetto ad altre volte e non vorrei aver esagerato con le imprecisioni. Mi scuso.

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