Gaza – L’appello della Tavola della Pace

 
 «Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola» mi dice Jamal, chirurgo dell’ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere pone per terra dinnanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue. «Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l’ultimo miagolio soffocato». Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua. «Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste…». Il dottore continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate dinnanzi ai miei piedi. «Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l’ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quali sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati».
 Potrebbe essere l’inizio di un racconto di Stephen King, invece è un reportage di Vittorio Arrigoni, l’unico italiano rimasto a Gaza dopo che anche l’ultima suora è stata evacuata. Vittorio, pacifista dell’International Solidarity Movement, è rimasto sotto le bombe per dare una mano. Il suo blog si sta riempiendo di foto di bambini morti. Se io avessi un telegiornale e un connazionale a Gaza desideroso di parlare farei di tutto per avere le sue cronache. Credo che i telegiornali italiani non abbiano mai neppure nominato Vittorio, ma non lo so: mi rifiuto di ascoltare bugie. Ogni tanto capita che sbirci un pezzo di tiggì, come oggi, col Tg5 che ha fatto un bel servizio sui razzi libanesi (ma non di Hezbollah, per carità, che se si apre un altro fronte Olmert è nei guai!) che hanno colpito una casa di riposo, mentre non c’erano immagini dell’orrore di Gaza, neanche una. Durante le famose tre ore di pausa, «per errore» a un carro armato israeliano è partito un colpo, che ha colpito un camion dell’Onu. L’autista è morto. Per protesta, l’Onu ha smesso di distribuire gli aiuti. Israele spara e l’Onu punisce Gaza.
 Sul manifesto di oggi (uno dei pochi media che prova a informare correttamente su quanto sta accadendo), Luciana Castellina ha scritto che «fino a oggi la risposta dell’Italia democratica è stata del tutto inadeguata rispetto all’enormità dell’attacco […] Non possiamo non chiederci seriamente perché. Ancora fino a pochi anni fa, quando l’Iraq fu aggredito, la reazione fu vasta e forte, coordinata a livello mondiale. Non è così oggi». Di fronte all’orrore dobbiamo recuperare il coraggio di agire, perché «anche se non saranno le nostre manifestazioni a sciogliere il nodo israelo-palestinese, dichiararsi a priori impotenti equivale a far passare la tendenza più pericolosa: quella che consiste nel sostenere che non c’è ormai più soluzione».
  Perciò. Ricordo di firmare l’appello «Non si può rimanere a guardare», che sabato darà luogo a una manifestazione a Torino, mentre altre manifestazioni saranno a Palermo e a Firenze. E c’è l’Appello della Tavola della Pace (firmatelo, anche se avete già firmato l’altro: occorre inviare un’e-mail di adesione a segreteria@perlapace.it), che organizzerà una manifestazione ad Assisi il 17.
 Sul manifesto di oggi c’era anche il numero di telefono diffuso dall’esercito israeliano per invitare i collaborazionisti a denunciare membri di Hamas. Il manifesto ha proposto di "bombardarlo" di telefonate, chiedendo in ogni lingua del mondo la fine del conflitto. Io ho provato, ma una voce mi dà il numero inesistente o non più in uso: delle due l’una; o una marea di telefonate ha convinto l’esercito israeliano a disattivarlo, oppure lo hanno pubblicato sbagliato. Per non sbagliare io, lo ripubblico, vedete se riuscite a farne qualcosa: 00972025839749
 Infine, torno al testo di Vittorio: «A questo punto il dottore si china verso una scatola, e me la scoperchia dinnanzi. Dentro ci sono contenuti gli arti mutilati, braccia e gambe, dal ginocchio in giù o interi femori, amputati ai feriti provenienti dalla scuola delle Nazioni Unite Al Fakhura di Jabalia, più di cinquanta finora le vittime. Fingo una telefonata urgente, mi congedo da Jamal, in realtà mi dirigo verso i servizi igienici, mi piego in due e vomito». (Leggi tutto l’articolo di Vittorio Arrigoni)


 L’immagine di questo articolo è il particolare di una foto di Silvia Rinaldi.

Questa voce è stata pubblicata in Posta prioritaria. Contrassegna il permalink.