1. Mettere in sicurezza le scuole per sconfiggere la crisi
«Centinaia di miliardi stanno cadendo a pioggia sul sistema finanziario (a difesa dei risparmiatori, è l’alibi) e per cercare di sostenere i consumi. Il tutto in base a un principio semplice che altre volte ha funzionato: se decine di milioni di cittadini spendono un po’ di più, sicuramente la ripresa poi decollerà». Questo, secondo Galapagos (il manifesto del 27 novembre), è il ragionamento del governo. Un po’ scherzando e un poco no, anch’io da adolescente, durante le crisi economiche degli anni ’90, giustificavo le spese e gli sprechi della mia vita quotidiana con la necessità di sconfiggere la crisi. Sostenere i consumi, tuttavia, ha un piccolo inconveniente: quello di riproporre «il solito modello di crescita, che non modifica di una virgola i rapporti sociali e la distribuzione del reddito». Nella sua riflessione, il giornalista del manifesto cerca di andare oltre, citando i dati esposti da Guido Bertolaso alla Camera, secondo i quali la «messa in sicurezza delle scuole» italiane, diventata d’attualità dopo il crollo mortale nella scuola di Rivoli, costerebbe 13 miliardi. «Una cifra enorme», commenta Galapagos. «In gioco però non c’è solo la sicurezza dei ragazzi, ma un modello di sviluppo e di intervento nell’economia diverso. Immaginate che impulso anti-recessivo potrebbe arrivare da 13 miliardi impiegati nell’edilizia scolastica. E quanto lavoro si potrebbe creare con questo “investimento in civiltà”. Ma la civiltà a questo governo non interessa. Le scuole private invece sì». Galapagos invoca una serie d’investimenti sul welfare, per garantire servizi ai cittadini e creare nuovi posti di lavoro. «Il modello di Tremonti», però, «è quello spettacolare e miserabile della social card: 40 euro al mese possono far comodo a chi vive nella miseria, ma non ne cambiano la condizione miserabile di vita». Lo stesso discorso varrebbe per la sanità: «si seguitano a tollerare gli abusi delle strutture private in convenzione, ma non si fa nulla per riportare in tempi civili le liste d’attesa per gli esami diagnostici. Per i quali servono mesi nelle strutture pubbliche e poche ore se si opta per l’intra moenia a pagamento che sfrutta la struttura pubblica». Nella mia scuola (sono insegnante) entro breve dovrebbero essere rimosse le macchinette del caffè: la ditta fornitrice si prende i guadagni, lasciando pagare la corrente elettrica alla scuola: è più o meno lo stesso discorso.
«Ogni anno», prosegue l’articolo, «normalmente in primavera e in autunno, l’Italia frana con danni idrogeologici enormi ai quali ex post si mette qualche toppa. Quanta occupazione si potrebbe creare in questo settore? E quanta occupazione si potrebbe creare con il risanamento della rete idrica che priva di acqua milioni di famiglie e fa guadagnare miliardi alle organizzazioni mafiose? E quanta occupazione si potrebbe creare con lo sviluppo delle energie rinnovabili?». Domande alle quali bisognerebbe dare una risposta, magari da parte di quella sinistra che «tace», come rileva Galapagos che, amaramente, conclude: «Meglio brindare a Luxuria» (fresca vincitrice dell’Isola dei Famosi).
[Leggi integralmente l’articolo Quaranta poveri euro]
2. Di chi è la crisi?
Quello citato è un articolo intelligente, che porta a riflettere sulla necessità di un modello di welfare che non rifiuti ideologicamente l’intervento pubblico nei servizi e nell’economia e che riaffermi il ruolo «sociale» del lavoro. Negli ultimi tempi ho notato più d’una volta nei fondi di Galapagos posizioni critiche verso il paradigma della crescita economica che oggi destra e sinistra (non solo Pd) condividono e, a ben vedere, neppure il giornalista rifiuta (Galapagos propone, piuttosto, un modello di crescita “più giusta”). Forse, però, l’attuale crisi economica dovrebbe portarci a riflessioni più coraggiose sul significato e sulla necessità del nostro sviluppo. Dovrebbe spingerci a riconsiderarlo, a metterlo in discussione, a immaginare la decrescita come una possibilità di mutare strada. Colgo l’occasione per proporre i contenuti di una conferenza tenutasi qualche mese fa ad Aosta, ospiti Maurizio Pallante, padre del Movimento per la Decrescita Felice, e il meteorologo Luca Mercalli.
Pallante gira l’Italia parlando di decrescita. Lo avevo già sentito più di un anno fa e ricordo che in quell’occasione mi aveva colpito quanto aveva detto circa la difficoltà di mettere in discussione la necessità della crescita senza fine del Prodotto interno lordo (Pil): il solo termine «decrescita» era considerato un tabù. Ultimamente, secondo Pallante, questo tabù è stato in parte infranto. Ma il paradigma culturale dominante è un altro, per cui parlare di decrescita significa comunque costruire un modello nuovo, completamente diverso da quello conosciuto negli ultimi 200 anni. Decrescita non è sinonimo di «sobrietà», vale a dire consumare un po’ meno per permettere agli altri, ai poveri, di consumare un po’ di più. Significa piuttosto cambiare la propria visuale. La crescita non misura i beni, ma le merci, quegli oggetti e quei servizi che scambiamo dietro transazione di denaro. Noi compriamo tutto, così tendiamo a pensare che le merci e i beni siano la stessa cosa. Così non è. Una quantità enorme del metano che utilizziamo per il riscaldamento viene sprecata perché le nostre case non sono coibentate: la spesa cresce, cresce anche il Pil. Più case costruite male significano più Pil: se quello è il valore di riferimento di una società florida, più case costruite male dovrebbero significare che stiamo meglio, invece stiamo peggio. La decrescita consiste nel diminuire il consumo di quelle merci che non sono beni; in questo senso, dunque, non costituisce una rinuncia. I beni che non sono merci sono gli oggetti e i servizi autoprodotti o scambiati per amore. Nel modello corrente, invece, ogni volta che vediamo una casa con l’orto vediamo una casa di asociali, che coltivando per sé non fanno crescere il Pil. La qualità della verdura sarà migliore e avranno ridotto la percentuale di aree coltivate con i pesticidi. Ma non avranno fatto crescere il Pil. [1]
Ho titolato questo paragrafo «Di chi è la crisi?». Pallante risponde con un’altra domanda: «È più ricco chi ha più soldi, più povero chi ne ha di meno. Ma se invece di merci parliamo di beni? Chi compra tutto, in tempo di crisi diventa più povero di chi autoproduce o coltiva un pezzo di terra a bosco per scaldarsi con la legna». Naturalmente, «decrescere» non significa tornare al passato, «alla carrozza e ai cavalli»: per fare una casa che consuma da 7 a 1,5 litri di combustibile invece che 20 ci vuole più tecnologia, non ce ne vuole meno. Mentre la tecnologia della crescita aumenta la produttività (il che comporta lo sfruttamento di un numero maggiore di risorse, tecnologie a forte impatto ambientale e più rifiuti), la tecnologia della decrescita riduce la quantità di energia utilizzata per produrre, delle materie prime utilizzate e dei rifiuti.
Il concetto di «sobrietà» («grande virtù», dice Pallante, «che ha permesso ai popoli di sopravvivere per secoli») entra in gioco se parliamo di stili di vita. «Oggi una persona sobria passa per taccagno», ma il vero problema è che anche una persona sobria deve comprare tutto ciò di cui ha bisogno. La sobrietà non basta, serve l’autoproduzione dei beni. Autoprodurre significa far viaggiare meno merci, ridurre la quantità dei rifiuti, ottenere prodotti qualitativamente migliori, spendere meno. Si potrebbe lavorare meno e dedicare il proprio tempo ad altre cose. Da sola l’autoproduzione non basta, perché non è possibile produrre da soli tutto ciò di cui si ha bisogno, ma è possibile considerare tre livelli diversi (invece di comprare tutto): l’autoproduzione, gli scambi non mercantili e, come ultima risorsa, l’acquisto. Gli scambi non mercantili, in particolare, si fondano su tre principi fondamentali: l’obbligo di donare, l’obbligo di ricevere e l’obbligo di restituire di più di quanto si è ricevuto. A questa tipologia di scambi corrisponde un intensificarsi dei rapporti sociali, perché non si tratta soltanto di uno scambio di cose, bensì anche di tempo, ciò che contribuisce a “fare comunità”, anche in senso etimologico (dal latino «CUM + MUNUS», «con + dono»).
Pallante presenta il Movimento per la Decrescita Felice (MDF), che non è un partito, ma dà suggerimenti ai politici, ad esempio per approvare regolamenti edilizi che impediscano di «costruire case che consumino più di 7 litri» o di «costruire nuove case sui terreni agricoli», quando sarebbe più utile «ristrutturare l’esistente».
A cosa andiamo incontro assecondando l’ideologia della crescita senza fine del Pil lo spiega invece Luca Mercalli, che affronta il problema dei cambiamenti climatici, un fenomeno ormai assodato dalla scienza, ma messo in discussione dall’interesse dei grandi inquinatori. «In Svizzera», ha detto Mercalli, «il dibattito sull’esistenza del cambiamento climatico è finito 10 anni fa». In Italia c’è ancora chi dice che si tratta di cambiamenti naturali. L’estate 2008 è stata considerata da molti abbastanza fresca. In realtà il nostro metro di valutazione è influenzato dalla caldissima estate del 2003, ma quella passata è stata la diciassettesima estate più calda degli ultimi 205 anni e le misure fatte sui ghiacciai sono nuovamente preoccupanti (meno 1,5 metri di spessore). Esiste un’elevata probabilità (all’incirca del 90%) che stiamo costruendo un futuro difficile per la nostra specie: il delta del Nilo è alto 1 m sul livello del mare. Nel delta del Nilo vivono 4 miloni di egiziani, che potrebbero trovarsi nella necessità di emigrare quando crescerà il livello del mare. «La decrescita», in questa prospettiva, «è un atterraggio morbido», perché la scelta è tra l’«atterrare lentamente in un posto in cui non avevamo deviso di andare oppure precipitarvi rovinosamente».
[1] Mi viene in mente un cartello che ho visto in montagna qualche anno fa. Diceva, più o meno: «Non calpestare i prati. Sono una fonte di reddito».
Le foto di questo articolo ritraggono il mercato della Boqueria, a Barcellona. Sono opera di Danilo Cavallo.