Scrivo ancora da Cogne (lo so, è da giugno che me ne sto sui monti!), dove da una settimana imperversa il XIII Trofeo Stambecco d’Oro (Festival internazionale del film naturalistico), che ha portato nel paesino montano una serie di documentari di grande livello, insieme a un bel gruppo di addetti ai lavori. Nell’ambito della rassegna, ieri pomeriggio si è tenuta la conferenza di Maurizio Pallante, esperto di politica energetica e tecnologie ambientali e autore, fra l’altro, del libro La decrescita felice (Editori Riuniti, euro 12,00). Quella che segue è una sintesi (mia) di quanto è stato detto: il tema, oggi attualissimo, riguarda la necessità di cambiare il paradigma culturale che guida il nostro modo di vivere e produrre, smontando il mito della crescita del prodotto interno lordo, per investire sulla qualità della nostra esistenza e consentire, brutalmente, la sopravvivenza della specie umana.
Maurizio Pallante esordisce indicando come sui giornali, nei dibattiti, in televisione esista una superideologia comune, che unisce destra e sinistra, industriali e sindacalisti, vale a dire il dogma della crescita economica. Sono due secoli che il mondo occidentale ne è governato, al punto che – quando la crescita non c’è – parliamo di crescita negativa, in modo da esorcizzare, anche verbalmente, il concetto di decrescita. Che pian piano, però, sta cominciando a farsi strada nella società, anche se, in generale, viene interpretato come un sinonimo di sobrietà. Il significato profondo di decrescita, invece, è un altro.
Per capire, bisogna interrogarsi sul significato di crescita economica, quella che vede nel PIL (prodotto interno lordo) il suo indicatore privilegiato. La crescita non misura i servizi e i beni in generale, ma le merci scambiate contro denaro. Ora, non è lo stesso dire merci e dire beni e, anzi, questi due termini sono spesso l’uno l’opposto dell’altro. Se vado da un punto A fino a un punto B con la mia macchina, consumerò un certo quantitativo della merce benzina. Se incontrerò un intoppo che mi porterà a consumare più benzina, il PIL sarà aumentato: la benzina in più consumata nelle code è una merce, ma non è un bene. Se diminuisse il consumo di quelle merci che non sono beni diminuirebbe il PIL, ma vivremmo meglio.
Pallante propone un altro esempio, che riguarda il riscaldamento delle nostre case. I 2/3 dell’energia che impieghiamo a tal fine, infatti, vengono dispersi e dunque vanno sprecati. Riscaldare le nostre abitazioni comporta la combustione di 20 litri di gasolio annui per metro quadro. In alcuni comuni sono state adottate tecniche di coibentazione degli edifici che hanno permesso di scaldare gli ambienti con appena 7 litri all’anno. Se un governo illuminato volesse mettere al centro della sua politica energetica la ristrutturazione delle nostre case affinché consumino 7 litri anziché 20, sarebbe possibile ottenere un evidente vantaggio economico, non solo ecologico. La decrescita felice è possibile, senza implicare alcuna rinuncia, sobrietà o sacrificio.
Ma non ci sono solo le merci. Esistono anche beni autoprodotti o scambiati con amore. Secondo il paradigma culturale vigente, coltivare il proprio orto significa essere asociali, perché i pomodori devono essere acquistati: se li coltivi da solo, infatti, il PIL diminuisce! Migliori la qualità dell’ambiente, hai un prodotto migliore, ma meno PIL. Secondo Pallante, invece, occorre proprio aumentare la produzione dei beni che non sono merci. Un esempio è quello dello yogurt. Farselo in casa vuol dire metterlo sotto fermenti la sera e trovarlo pronto il mattino, senza fargli percorrere fino a 7000 chilometri per raggiungere le nostre case. Acquistare uno yogurt, oltretutto, significa produrre tre tipi di rifiuti: plastica, alluminio e cartone. Farsi lo yogurt in casa vuol dire evitare di creare spazzatura, il che è importante, perché un corretto uso dei rifiuti non prevede (solo) la raccolta differenziata ma, in primo luogo, la riduzione dei rifiuti. Per restare allo yogurt, la produzione casalinga ha il pregio di non richiedere l’uso di conservanti, che uccidono i fermenti lattici: lo yogurt autoprodotto, dunque, è superiore dal punto di vista alimentare. Infine, acquistare un prodotto peggiore di quello che puoi prepararti da solo significa spendere fino a 5 euro. Farlo da te costa al massimo un euro.
Proporre la decrescita significa mettere in discussione il paradigma culturale degli ultimi due secoli di storia occidentale. La ricchezza si misura col denaro soltanto in una società fondata sul PIL. Se i prezzi dei generi alimentari aumentano, di fronte ai rincari una famiglia abbiente vede decurtato il proprio potere d’acquisto. Una famiglia meno danarosa, che però abbia un orto, è meno danneggiata. Allo stesso modo, una famiglia di buona condizione economica che abiti nel centro di Milano e si riscaldi con il gas sarà svantaggiata rispetto a un’altra meno facoltosa che viva in campagna e si scaldi con la legna, nel caso in cui il presidente russo Putin decidesse di bloccare le esportazioni.
Naturalmente, non tutto può essere autoprodotto da tutti. Però ciò che non autoproduciamo possiamo evitare di comprarlo. Il mondo è andato avanti per millenni attraverso scambi non mercantili, in base a tre regole fondamentali: l’obbligo di donare; l’obbligo di ricevere; l’obbligo di restituire più di quanto si sia ricevuto. In questo modo è possibile, tra l’altro, creare un legame sociale. Non si tratta del semplice baratto, ma di uno scambio di tempo, di disponibilità umana (è il caso, ad esempio, delle banche del tempo).
Com’è ovvio, comunque, ci sono cose che devono essere comprate. Secondo Pallante esistono tre ambiti: l’autoproduzione, lo scambio non mercantile e, infine, la sfera mercantile. L’economia della decrescita cercherà di allargare i primi due e di restringere l’ultimo, magari introducendovi, contemporaneamente, aspetti relazionali, oggi poco presenti all’interno del mercato. È il caso dei G.A.S. (Gruppi di acquisto solidale), che instaurano rapporti di tipo mercantile con un produttore di fiducia, situato nelle vicinanze della sede d’azione del gruppo e specializzato nella coltivazione di prodotti genuini. Saltando l’anello della distribuzione dei supermercati, il produttore potrà vendere a un prezzo maggiore, l’acquirente comprare a un prezzo inferiore.
Pallante concepisce la decrescita come uno sgabello a tre gambe. Per restare in piedi non dovrà rinunciare a nessuna di esse. La prima “gamba” è rappresentata dal nostro stile di vita; la seconda dall’aspetto tecnologico; la terza, infine, dalla politica. Del primo punto s’è detto. Per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico, decrescere non significa tornare all’età della pietra, ma piuttosto chiedersi di quale tecnologia abbiamo bisogno. Per fare una casa che consuma 7 litri ci vuole più tecnologia che per farne una che ne consuma 20. La tecnologia finalizzata alla crescita consuma le risorse, aumenta i rifiuti ed è fortemente invasiva nei confronti dell’ambiente. La tecnologia della decrescita si propone invece di ridurre l’uso di materie prime, i consumi, i rifiuti… Esiste, aggiunge Pallante, un Movimento per la decrescita felice, e si è formato persino un gruppo di Industriali per la decrescita, capaci di lavorare in un’ottica completamente nuova.
L’ultima “gamba” dello sgabello prevede il coinvolgimento della politica. A questo proposito, è necessario impegnarsi, soprattutto a livello locale, dove il potere è più vicino ai cittadini, per patrocinare la causa della decrescita con i propri amministratori. In Alto Adige, ad esempio, per legge non vengono concesse licenze edilizie per abitazioni che consumino più di 7 litri per metro all’anno, contro i 20 della maggior parte d’Italia. Questo è un esempio di regola imposta dall’amministrazione che va incontro ai principi della decrescita.
Pallante conclude il suo discorso rispondendo all’obiezione di chi pensasse che il concetto di decrescita, una volta accolto, porterebbe a una diminuzione dell’occupazione. Lo fa muovendo da alcuni dati relativi al sistema della crescita: dal 1960 al 1999, dice, nel nostro Paese il PIL è aumentato del 360%. Eppure, il numero dei lavoratori italiani è rimasto praticamente invariato. Se si considera che nel frattempo la popolazione è aumentata, in proporzione il numero degli impiegati è diminuito. Non è vero, dunque, che l’economia della crescita crei occupazione. La crescita ha bisogno di macchinari che le consentano di produrre di più occupando meno operai. La decrescita, invece, potrebbe generare moltissimo lavoro, come, ad esempio, nel caso in cui si decidesse di ristrutturare tutti gli edifici in modo da risparmiare i 2/3 dell’energia oggi dispersa. Pallante fa ancora un esempio, quello del cogeneratore, tecnologia simile a quella del motore automobilistico. Ma mentre il mercato dell’auto (economia della crescita) è saturo, quello dei cogeneratori (in grado di produrre energia elettrica e termica assieme) è un territorio ancora vergine.
Sulla decrescita felice, consulta il sito www.decrescitafelice.it