Il degrado sociale in Italia e l’attacco alla scuola

 
 

 
Chi ha letto
il libro, o visto il film Gomorra capisce bene di cosa sto parlando, se dico che oggi in Italia intere porzioni del territorio nazionale sono sottratte alla legalità e al controllo (ma anche all’erogazione di servizi) dello Stato. Esistono palazzoni-quartiere, a Napoli, degradati e invivibili, dove le leggi che regolano la vita di tutti i giorni sono quelle della criminalità organizzata, dove i cittadini sono tali soltanto di nome e la Costituzione e i diritti non contano nulla. Ho detto Napoli perché sono partito da Gomorra, ma certo situazioni di questo tipo non sono solo napoletane, o campane. Nonostante la smania securitaria oggi prevalente in tutto il Paese, con un governo diviso a metà tra cultori dell’orgoglio patrio e figli del dio Po (non meno determinati dei «patrioti» nel richiamare all’«ordine»), il concetto di legalità in Italia continua il suo declino, trovando terreno fertile nella presenza delle mafie, ma soprattutto nel nuovo impoverimento diffuso presso ampi settori della cittadinanza. Ci sono dunque aree nelle quali il livello di depressione (sociale, economica e anche psicologica) è tale che sono assolutamente normali episodi di cronaca come quelli legati al tifo «malato» o fenomeni gravissimi di disastro ambientale, come la campagna partenopea trasformata in luogo di smaltimento abusivo dei rifiuti tossici del nord. Al di là delle iniziative dal basso, che forse ci salveranno e forse no, porre rimedio a questa situazione richiederebbe la presenza, nel corso di una o due legislature almeno, di un governo seriamente intenzionato ad affermare il «rispetto delle regole» e capace di promuovere la diffusione di un lavoro non precario e di servizi di qualità, pubblici e accessibili a tutti. Questo, del resto, dovrebbe essere il compito dello Stato. Dovrebbero essere applicate parole d’ordine logore e dimenticate come «lotta alla mafia», «sicurezza del lavoro», «intervento pubblico nell’economia», istanze che non trovano nell’impiego delle forze dell’ordine (e dell’esercito) il loro compimento.
 

 Sarebbe allora possibile innescare un circolo virtuoso capace di liberare il Paese dai suoi vizi, ma mi sembra che i segnali inviati da questo governo vadano in tutt’altra direzione. In un contesto generale di rinnovamento, anche le misure attraverso le quali il ministro Gelmini vorrebbe rendere più seria la scuola (sospensioni più facili e voto di condotta) troverebbero il loro posto. Da insegnante, sono convinto che il rifiuto “a prescindere” di alcune misure disciplinari sia dovuto al fatto che molti hanno in testa la scuola della loro infanzia, magari una scuola pre-’68 o comunque molto rigida, dove l’arbitrio del professore era legge e il voto di condotta era utilizzato per punire l’espressione libera del pensiero dello studente. Tenere davanti agli occhi uno scenario di questo tipo significa non aver più messo piede in una scuola negli ultimi 20 anni; diversamente, sarebbero evidenti le difficoltà dei consigli di classe, rimasti senza gli strumenti per affermare la necessità del rispetto delle regole, in balia del comportamento degli alunni, dal quale possono salvarli soltanto doti personali eccezionali di simpatia e umanità. Ciò detto, ha perfettamente ragione Alba Sasso che, sul manifesto del 4 settembre, ritiene «sempre più risibile la pretesa di combattere il bullismo, quello profondo e patologico, con i voti in condotta, alla luce degli episodi sull’eurostar Napoli/Roma del 31 agosto». Come anche diventa «risibile» la pretesa di migliorare la scuola tagliando il numero degli insegnanti (e aumentando quello degli studenti per classe) e i fondi destinati all’istruzione. In questo senso, le continue uscite del ministro sono soltanto fumo negli occhi per nascondere il reale approccio del governo Berlusconi alla scuola, da trasformare – per ideologia o interesse – in un sistema di fondazioni con gli sponsor privati all’interno del Consiglio d’Istituto. Mi soffermo sulla scuola perché credo nel ruolo di grandissimo valore che il sistema pubblico d’istruzione ha rivestito e riveste nel promuovere la formazione culturale del cittadino, il senso di appartenenza a una comunità (con tutti i doveri di solidarietà che ne conseguono) e quello di legalità, anche al di là di pubblici esempi di segno contrario. Una scuola moderna dovrà saper fornire ai propri alunni gli strumenti necessari per inserirsi proficuamente nella società in cui vivono, tanto dal punto di vista lavorativo quanto da quello civico e culturale, ma non è possibile dimenticare il ruolo dell’ambito scolastico quale palestra e fucina d’idee, nello sviluppo di un pensiero indipendente.
 
 Nel suo interessante intervento sul manifesto del 4 settembre, Alba Sasso riassume l’azione del governo sulla scuola in quattro punti principali, dai quali si deduce l’intento di distruggere la scuola così come la conosciamo, allo scopo di «deistituzionalizzare il sistema pubblico dell’istruzione». In altre parole, si tratterebbe di trasformare la scuola in «servizio a domanda individuale e non luogo della responsabilità dello stato nei confronti della formazione e della crescita delle nuove generazioni». I quattro punti di questa politica di «destrutturazione e privatizzazione» sono, secondo Sasso, la «sussidiarietà», la trasformazione delle scuole in fondazioni, la chiamata diretta degli insegnanti da parte delle scuole e l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Il primo punto prevedrebbe un «ruolo residuale dello stato rispetto all’iniziativa privata sul terreno della formazione», ad esempio attraverso buoni scuola da spendere negli istituti pubblici o privati. La trasformazione delle scuole in fondazioni finanziate dai privati significherebbe «abbandonarne molte a un destino di marginalità», poiché i finanziatori privati intervengono solo dove esiste una convenienza («e certo non a scopi filantropici»). La chiamata degli insegnanti da parte dei dirigenti scolastici «colpisce la libertà d’insegnamento, la responsabilità più generale del processo educativo». Per quanto riguarda infine il titolo di studio, occorre ricordare che oggi esso può essere rilasciato solo da «strutture pubbliche autorizzate e accreditate». Abolirne il valore legale «potrebbe far fiorire enti formativi (scuole e università) con programmi e percorsi di istruzione fuori “norma”». Se negli Usa, Paese che ha sperimentato la privatizzazione del sistema scolastico, il candidato democratico alla presidenza ritiene di dover ribadire che bisogna «garantire un’istruzione di qualità a ogni bambino e assumere tanti insegnanti», continua Alba Sasso, è perché «più istruzione per tutti serve a far crescere non solo l’economia ma la civiltà di un paese». «In Italia invece torniamo allegramente indietro» e «viene meno col progetto della Gelmini non solo l’idea di una scuola inclusiva ma l’idea di una società inclusiva, solidale». «L’istruzione», conclude Sasso, «sarà di chi se la potrà pagare. I bambini della scuola elementare statale avranno meno ore, meno insegnanti e meno opportunità di imparare e approfondire». «Si tratta […] di una scelta precisa, e insieme di una resa, destinata a approfondire sempre più insopportabili gerarchie sociali e culturali».
 
 
[Leggi l’articolo di Alba Sasso sul manifesto del 4 settembre]
  

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