Il Caucaso in fiamme

 
 
 Questo che avete davanti agli occhi è un blog.
 Lo gestisco da solo e non ho i mezzi per raccogliere informazioni di prima mano su quanto accade in Ossezia (o in Iraq, in Palestina, in Afghanistan…). Ieri mattina, come gli altri giorni, stavo andando al mare. Mi sono fermato al bar per comprare il giornale, l’ho buttato in macchina e ho proseguito per la mia strada, senza pensare ad altro. È stato solo più tardi, quando ormai avevo finito il primo bagno, che mi sono accorto che la prima pagina parlava di una nuova guerra, quella tra russi e georgiani, per il possesso dell’Ossezia del Sud. Il sole non è venuto meno per questo e lo Ionio, per quanto agitato, era pulitissimo. Sul quotidiano che stavo leggendo si parlava di morti, di sfollati, del presidente georgiano amico degli Usa che chiedeva l’intervento della Nato; si elencavano, insomma, le condizioni propizie per un ulteriore deterioramento della situazione, un nuovo passo verso la guerra fredda o verso lo scontro (finale?) fra titani. Ho cercato, per quanto ho potuto, di tracciare un quadro della vicenda, perché ritengo che capire quanto sta accadendo ai confini dell’«impero» russo sia determinante per intuire gli sviluppi futuri di un mondo perennemente sull’orlo della guerra. Riporto di seguito una descrizione della questione ossetina, così come sono riuscito a ricostruirla dai giornali. Evito volutamente di rendere lo stile accattivante, nel tentativo di essere, soprattutto, chiaro. Quanto al commento della vicenda, preferisco tacere: uscirebbero soltanto banalità (del tutto vere, peraltro) come quella che gli interessi degli Stati sono la causa della morte e della sofferenza di migliaia di persone, che pure definiamo cittadini. Oppure che, come in quella vecchia poesia di Bertolt Brecht, l’uomo che ha scritto sopra un muro: «Viva la guerra», forse oggi «è già caduto».
 
 L’Ossezia del Sud
 
 L’Ossezia del Sud è una piccola regione montuosa, simile per dimensioni alla provincia di Viterbo, delimitata da confini che non sono mai stati definiti con chiarezza. Ci vivono all’incirca 70 mila abitanti, quasi tutti di etnia e lingua osseta (di origine iranica, totalmente diversa da quella georgiana). Il suo territorio è considerato parte della Georgia, anche se, di fatto, la piccola regione caucasica si è resa indipendente da Tbilisi (la capitale georgiana) tra il 1991 e il 1992, attraverso una guerra definita «a bassa intensità», ma che ha comunque causato qualche migliaio di morti. A partire dal ’92, la pace è difesa da truppe russe e georgiane, che hanno ricevuto il mandato di Caschi blu dell’Onu. L’Ossezia è oggi amministrata da un governo locale non riconosciuto da nessuno Stato e guidato dal presidente Eduard Kokoity. Nella regione sono però presenti villaggi abitati da osseti e villaggi abitati da georgiani: in base a questo puzzle etnico, alcune aree sono rimaste sotto il controllo diretto di Tbilisi. La Georgia è determinata a riaffermare la propria autorità sull’intera regione, ma il sogno della maggior parte della popolazione ossetina è una riunione etnica e storica con la confinante Ossezia del Nord, che è parte della Federazione russa. Molti osseti del Sud, del resto, si erano rifugiati in Russia al tempo del precedente conflitto ed erano stati naturalizzati; erano poi tornati a vivere nelle proprie terre alla fine delle ostilità.
 
 Una guerra annunciata
 
 

 
 Le prime avvisaglie
della guerra scoppiata giovedì notte risalgono al 14 luglio scorso, con l’esplosione di 4 bombe al confine tra la Georgia e l’Abkhazia, l’altra regione secessionista georgiana sotto controllo russo. Quattro persone erano rimaste uccise. All’attentato sono seguiti rapimenti, sorvoli di aerei spia georgiani e di caccia russi, tanto al confine con l’Abkhazia, quanto a quello con l’Ossezia del Sud. Secondo il Comitato di crisi della Commissione europea, dietro le «provocazioni» ci sarebbero i servizi segreti georgiani, in cerca di un pretesto per permettere a Tbilisi di risolvere militarmente la questione ossetina. Il 15 luglio avviene un’esercitazione militare russa nel Nord del Caucaso, mentre truppe georgiane e statunitensi inaugurano un’altra esercitazione, denominata «Risposta immediata». Il 16, Tbilisi approva un aumento del 26,8% del proprio bilancio militare, portando gli effettivi da 32 mila a 37 mila. Il 4 agosto alcuni cecchini esplodono colpi al confine con l’Ossezia del Sud, il che comporta l’evacuazione di un migliaio fra donne e bambini residenti nella zona.
 
 L’attacco
 
 La notte fra giovedì 7 e venerdì 8 agosto, mentre l’attenzione del mondo è focalizzata sulle ferie (noi stavamo salutando con la parmigiana di melanzane alcuni amici che ci erano venuti a trovare e che sarebbero ripartiti il mattino dopo) o sull’imminente cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino (tra inviti al boicottaggio o viceversa a non politicizzare lo sport), parte l’attacco. Truppe georgiane penetrano in territorio sud ossetino, con l’ausilio di cacciabombardieri Sukhoi e artiglieria di terra. 10 Caschi blu russi restano uccisi, altri 150 feriti. La Russia risponde mobilitando la 58esima armata, di stanza a Vladikavkaz, nell’Ossezia del Nord. Dopo 12 ore di combattimenti la situazione è incerta e non è chiaro in che mani si trovi la capitale ossetina, Tshinkvali. Intanto in Georgia 100 mila riservisti di età compresa tra i 25 e i 40 anni vengono mobilitati e il presidente Mikhail Saakashvili, che non esclude di aprire ai volontari, richiama in patria metà del contingente schierato in Iraq (1000 soldati su 2 mila) «in considerazione dell’attacco scatenato dalle forze russe». Nella giornata di sabato, cacciabombardieri russi continuano a colpire l’Ossezia del Sud, ma anche obiettivi dislocati in territorio georgiano, come il porto di Poti sul Mar Nero, l’aerodromo di Senaki e la città di Gori (che diede i natali a Stalin), o in Abkhazia (i villaggi di Sakeni e Bas Kvaptchara nelle gole di Kodori, territori sotto il controllo delle truppe di pace georgiane). I bombardieri russi non vanno troppo per il sottile: a Gori, insieme alla base militare, colpiscono il pronto soccorso e varie abitazioni. Dopo i combattimenti fra militari russi e georgiani, intanto, la «capitale» ossetina, Tshinkvali, sarebbe ridotta a una «città che non esiste più», secondo le parole dell’ambasciatore russo all’Onu, Dmitrij Rogozin, mentre anche la Croce Rossa assicura che la città è stata distrutta. Mosca ritiene Tbilisi responsabile della morte di più di 2 mila civili e di 15 peacekeepers russi. Il Cremlino accusa i georgiani di pulizia etnica nelle campagne, Tbilisi, a sua volta, accusa i russi di dare la caccia ai georgiani nei villaggi a sud di Tshinkvali. Oggi, domenica, secondo una veloce edizione del tg2, incastonata alla bell’e meglio tra una diretta e l’altra da Pechino, i georgiani sarebbero in ritirata e i russi avrebbero già vinto la guerra. Evidentemente queste ultime parole rischiano di essere obsolete per quando avrò pubblicato l’articolo, anche se mi auguro che la parte più cruenta della guerra sia realmente finita. Lo spettro della pulizia etnica e la sorte di migliaia di profughi mi danno però parecchio da pensare. [NB: Un aggiornamento delle 20.31. Tbilisi ha effettivamente iniziato il ritiro, ma la Russia non ci crede, o quantomeno ritiene di dover insistere: i bombardamenti, infatti, non sono finiti, mentre anche l’Abkhazia ha proclamato lo stato di guerra.]
 
 La posta in gioco
 
 Molto interessante è un articolo di Astrit Dakli che, sul manifesto di ieri (9 agosto 2008), prova a rispondere alla domanda: «Chi ha ragione?». «Il puzzle etnico, storico, politico e militare in quelle poche miglia quadrate alle falde del Caucaso non è districabile», ammonisce. «Ragioni e torti sono aggrovigliati e la tentazione di tagliare il nodo con la spada è forte, soprattutto da parte del potere centrale georgiano, che ci ha già provato quindici anni fa con esiti tragici (ma allora il mondo era distratto) e sembra volerci riprovare ora». Un aiuto a chiarire le idee sull’entità della posta in gioco viene da Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco, che raccontano (dati alla mano) gli interessi statunitensi in Georgia (il manifesto di oggi, 10 agosto). Proprio agli Stati Uniti si è rivolto, del resto, il presidente georgiano, Mikhail Saakashvili, in cerca di aiuto contro i russi. Anzi, c’è chi vede nella guerra una via tentata da Tbilisi per velocizzare l’ingresso della Georgia nella Nato. La Georgia è oggi – cito dall’articolo appena menzionato di Dinucci e Di Francesco – «un avamposto della penetrazione Usa nell’Asia centrale ex sovietica: area di enorme importanza sia per le riserve di petrolio e gas naturale del Caspio, sia per la posizione geostrategica tra Russia, Cina e India […] Da qui passa l’oleodotto che collega il porto azero di Baku, sul Caspio, al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo», un «corridoio energetico» che si snoda per 1800 km e permette di aggirare la Russia a sud. «Per proteggere l’oleodotto […] il Pentagono addestra forze georgiane “di risposta rapida”». Se è dal 1997 che Tbilisi riceve aiuti militari americani, con il «Georgia Train and Equip Program», iniziato nel 2002, «il Pentagono ha trasformato le forze armate georgiane in un esercito al proprio comando […] Secondo fonti del Pentagono citate dal New York Times (9 agosto), vi sono in Georgia oltre 2.000 cittadini Usa, tra cui circa 130 istruttori militari». «Sul piano militare, economico e politico», concludono Dinucci e Di Francesco, «la Georgia è controllata dal governo statunitense. Ciò significa che l’attacco contro l’Ossezia del Sud è stato programmato non a Tbilisi, ma a Washington», allo scopo di «mettere in difficoltà la Russia, vista a Washington con crescente ostilità anche per il suo riavvicinamento alla Cina», «rafforzare la presenza Usa nell’Asia centrale», «creare in Europa un altro focolaio di tensione che giustifichi l’ulteriore espansione della presenza militare statunitense, anche per evitare la nascita di un’Europa in grado di rendersi indipendente dalla politica statunitense.
 
 Parole che magari non «spiegano» la guerra, ma costituiscono elementi importanti per la riflessione.
 


 Le foto di questo articolo sono state scattate all’esterno e all’interno di una torretta d’avvistamento posta sulla costa pugliese di Torre Guaceto (Brindisi) e ancora usata, suppongo, durante la seconda guerra mondiale.
 

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Una risposta a Il Caucaso in fiamme

  1. neupaul scrive:

    Game Over: Olympic Wars / Video by Neupaul & Papper
    http://susyspecchi.splinder.com/…3A+Olympic+Wars

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