mammaliturchi

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Mamma li turchi!

si gridava, quando giungeva, dal mare, il nemico, il nemico vero, quello brutto, quello così diverso in un mondo in cui per dire «persone» si diceva «cristiani», perché in fin dei conti tutti erano cristiani, e cristiani e persone erano sinonimi.

Mamma li turchi!

si gridava, e i villaggi venivano evacuati in fretta e furia, lasciando agio al nemico di pigliare indisturbato ciò che gli serviva e ripartire con le navi per la propria terra, ignota, di là dal mare, remota.

E

Mamma li turchi!

penso io di fronte ad aggressioni inconcepibili, commesse tanto nel nome di Dio quanto dell’intolleranza religiosa, dell’odio per il diverso, del semplice lavaggio del cervello.

Ma oggi i turchi sono alleati, anche se con la scusa dello Stato islamico lanciano bombe sui kurdi, che il Califfato combattono; i turchi sono amici e amici degli amici, gli americani, che con la mano destra lanciano bombe sulle postazioni dell’Isis, e con la sinistra li riforniscono di armi e addestramento militare.

È un mondo impazzitodice quello – divorato dal caos; ma un caos preordinato, mirato alla guerra.

Per compiacere le industrie militari, ad esempio (e, in proposito, com’è che l’export di armi italiane nei tanto temuti Paesi islamici vale 2,5 miliardi, pari al 40% delle nostre esportazioni nel settore bellico?).

Per porre un argine al declino americano, mentre si fanno strada nuove potenze globali.

Per spremere petrolio dalla terra: quella di Stati poco inclini a svenderla, come anche quella di Stati meno difficili, in primis l’Italia, oggi minacciata dalle trivellazioni nei suoi mari (avete un’idea di quanto sia stretto l’Adriatico e di cosa significherebbe per tutto il Mediterraneo una fuoriuscita di petrolio?).

E poi per

rinnovare gli arsenali,
e mettere le mani sulla terra,
per fare nuove piste d’atterraggio.

(lo so, mi cito; non si dovrebbe, ma stavolta lo faccio).

È un mondo che ha raggiunto tali e tante capacità di distruzione da non permettere neanche l’idea di una guerra vera (facciamo missioni «umanitarie», missioni «di pace», al più missioni militari, mai guerre, se non quando siamo «sotto attacco»), quella terza guerra mondiale così auspicata per chiarire meglio gli equilibri internazionali, vendere armi, fare soldi con la ricostruzione.

E se la guerra «è necessaria», perché lo vuole la religione del profitto, per renderla possibile, e sperare di controllarne gli effetti più negativi, occorre combatterla “a pezzetti”, ora qua ora là, svuotare di istituzioni e sovranità gli Stati situati nei punti strategici, ove disporre le proprie pedine armate e mettere mano alle risorse energetiche.

Nessuna opinione pubblica occidentale, per il momento, per quanto pigra e anestetizzata dai media, consentirebbe avventure esplicitamente imperialiste. I nostri aerei decollano sempre per portare «la pace», «la democrazia», «i valori occidentali». I terroristi, invece, si fanno saltare in aria per portare la morte.

È chiaro che la retorica degli Stati non costituisce né un’assoluzione, né un’attenuante al comportamento di terroristi che colpiscono innocenti in strada, in chiesa, in moschea, al mercato, al tavolo di un bar.

Dovrebbe essere altrettanto chiaro che le «vittime collaterali» dei “nostri” bombardamenti, frutto di guerre quasi sempre combattute per motivi diversi da quelli dichiarati, sono altrettanto innocenti, persone che stanno passeggiando per la strada, che sono sedute al bar, che magari se ne stanno tranquille a casa loro, colpevoli, unicamente,

– di abitare nello stesso palazzo di un terrorista;
– di avere una casa adiacente a quella presa di mira dalle bombe «intelligenti»;
– di essere bersagliati dall’alto dei cieli, magari da droni senza pilota comandati a migliaia di chilometri di distanza (quelli con cui Matteo Renzi vorrebbe colpire chirurgicamente gli scafisti; quelli che secondo le statistiche fanno 9 vittime innocenti per ogni terrorista colpito).

La morte che piove dall’alto è la maniera in cui le «democrazie» occidentali colpiscono gli «Stati canaglia», i covi dei terroristi, i dittatori fino al minuto prima «amici». È l’unico sistema per ridurre a zero le perdite tra i propri soldati, per evitare di scuotere troppo la propria opinione pubblica, sensibile più alle bare che fanno ritorno in patria avvolte nella bandiera, che al grande numero di civili uccisi a casa loro, ma stranieri, e per di più appartenenti a culture percepite come lontane.

Scosso per gli attentati di Parigi (non mi vergogno a dire che ho anche pianto, a più riprese), non posso però fare a meno di pensare che le azioni ordinate dai capi dell’Isis hanno moltissimo in comune con le guerre ordinate dai governi occidentali: i kamikaze credono di uccidere e morire nel nome di Dio; i nostri aviatori credono di uccidere (di centrare il bersaglio) nel nome della democrazia e dei diritti; quelli che li mandano a colpire, invece, credono in entrambi i casi nel potere e nel profitto.

Non credono in Dio i vertici dello Stato islamico (se vi credessero si farebbero qualche domanda), così come non credono nella democrazia i nostri governanti, quelli che regolarmente approfittano di ogni minaccia o attentato ai nostri «valori» per attaccare proprio quei valori, restringere le libertà (tutte tranne la fondamentale: quella di consumare), ampliare il controllo.

Nessuno di noi stringerebbe la mano a un dirigente dell’Isis, neppure per un semplice saluto. Quanti di noi estenderebbero questo rifiuto al capo del governo italiano in visita sul posto di lavoro, al presidente degli Stati Uniti (e nobel per la pace) Obama, o addirittura, e anche in questi giorni di dolore, al presidente François Hollande?

«Noi siamo la patria dei diritti dell’uomo», ha detto Hollande davanti ai deputati e ai senatori francesi, cosa storicamente vera, che io non faccio fatica a riconoscere, pensando alla rivoluzione francese, alla dichiarazione dei diritti, ai principi di «liberté, égalité, fraternité», alla laicità della République.

«Noi siamo la patria dei diritti dell’uomo». Ma i diritti vanno difesi, spesso innanzitutto da chi si propone come loro difensore. Perché lo stesso Hollande che oggi sostiene i diritti ha in realtà caratterizzato la politica estera della Francia con l’interventismo militare (in Mali, nella Repubblica Centroafricana, in Siria), mentre il suo predecessore Sarkozy è stato uno dei principali fautori della guerra in Libia del 2011, che ha portato alla fine del regime (e all’uccisione) di Gheddafi e a tutti i problemi di destabilizzazione dell’area che sono seguiti.

Non sto dicendo che i terroristi hanno colpito Parigi come risposta alle azioni di guerra. I capi dell’Isis non sono né partigiani né vendicatori, sono criminali, e degli eventuali crimini di guerra commessi da uno Stato europeo non pensano né bene né male. Essi agiscono per il potere, nient’altro. Ma noi occidentali siamo bravissimi a giustificare la Realpolitik, la ragion di Stato, quando ci conviene, mentre non tolleriamo che altri possano comportarsi nella stessa maniera con le nostre nazioni.

In ogni caso, per una volta, vorrei essere concreto. Potranno i raid in Siria smantellare la struttura del sedicente Stato islamico? Se sì, almeno questo risultato sarebbe raggiunto. Io temo di no, principalmente perché non mi è chiaro fino in fondo a chi appartenga l’Isis e chi lo finanzi (mentre mi è perfettamente chiaro chi se ne serve, per legittimare le proprie operazioni militari). Quand’anche poi le bombe decapitassero l’intera organizzazione, non sarebbe per questo finito il terrorismo islamico, né il fascino scaturito dall’idea di una rivalsa sul mondo occidentale guidata e voluta da Dio in persona.

Per vivere in pace, per vedere rispettata la nostra idea di democrazia, di diritti umani, dovremmo innanzitutto praticare i diritti umani e la democrazia. All’interno dei nostri Stati, e naturalmente anche al loro esterno. Ritirare le truppe, insomma; smetterla di spargere la morte. Lo ripeto ancora una volta: i morti di Parigi e le «vittime collaterali» della Siria o degli altri Paesi bombardati dall’occidente sono uguali, tutti innocenti allo stesso modo. E se le azioni del terrorismo sono sbagliate sin dalle intenzioni, personalmente faccio fatica a credere che le finalità delle nostre guerre siano realmente democratiche e «umanitarie».

Siccome però questa visione non sarà applicata, io credo che chiunque sia interessato realmente alla pace e alla giustizia non potrà far altro che riflettere sulle interconnessioni tra politica e interessi economici: forse anche in questo caso l’unica speranza è in un cambiamento che venga dal basso, e che porti con sé nuovi modelli economici e nuovi modi di concepire il mondo, non come una terra da spremere, ma come un’opportunità di vita per tutti. Spero di precisare meglio questa mia sollecitazione in futuro.

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N’tra l’aulii mi pirdii

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Questa che pubblico è una poesia dell’amico Paolo Summa, tratta dal blog Urban Slum Connection. Parla di ulivi, ne parla con amore e – appunto – poesia.

La poesia è in dialetto mesagnese. Segue la traduzione italiana (dell’autore).

N’TRA L’AULII MI PIRDII

Sicutandu lu ientu,
ca lentu spirava n’tra li fugghiazzi, mi pirdii. Mi pirdii uardandu lu soli, e assii’.
Era vulutu sserru cu la chiai, ma non ci stava la porta.
Mi ni scii, ma staunu a tuttivandi, anzi, n’ci n’nerunu chiussai!
Aulii, aulii e aulii, comu nu mari ca si rrivutava sotta lu trenu.
Apri’ na porta ca mancu n’cera e trasii.
Sicutandu lu ientu,
ca lentu spirava n’tra li fugghiazzi, mi pirdii, uardandu lu soli.
N’tra l’aulii mi pirdii,
e scupri’ ca lu ientu s’era pirdutu cu mei.

[Seguendo il vento,
che lento spirava tra le foglie, mi sono perso. Mi sono perso guardando il sole e sono uscito.
Avrei voluto chiudere con la chiave, ma non c’era la porta.
Me ne andai, ma erano ovunque, anzi, ce n’erano di più!
Ulivi, ulivi e ulivi, come un mare che si stendeva sotto il treno.
Aprii una porta che non c’era ed entrai.
Seguendo il vento,
che lento soffiava tra le foglie mi sono perso, guardando il sole.
Fra gli ulivi mi sono perso,
e scoprii che il vento si era perso con me]

Paolo Summa

Degli ulivi parlo anche qui:

Salvare gli ulivi (con un fumetto di Federico Mele)

Piccole strade, campi, ulivi

>>> Visita il blog di Paolo Summa.

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Tenete via i bambini dalla guerra

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L’immagine di questo articolo l’ho usata altre volte. Il disegno è di Danilo Cavallo, il fotomontaggio di Paolo Rey, l’idea è stata mia, e volevo sottolineare che per preparare la pace non si comprano mezzi di guerra, con riferimento ai famosi F-35 che l’Italia vuole a tutti i costi, indipendentemente dal governo in carica.

Si è appena concluso il 4 novembre, festa delle forze armate (non sprecherò una sola maiuscola), e come in altre occasioni tengo a sottolineare che cos’è la guerra, quella cosa che uccide, quella cosa che obbedisce a interessi, e che di giusto, da una parte e dall’altra, non ha proprio niente.

Negli ultimi anni ho visto immagini di bambini ammazzati. Dopo essere diventato papà, non ho potuto non immaginare che i corpi senza vita sarebbero potuti essere quelli dei miei figli. Nessuno deve toccare i miei figli, come nessuno deve toccare i figli degli altri. La guerra fa questo. La guerra occidentale, quella che fa piovere la morte dal cielo, da chilometri di altezza, più in alto delle montagne più alte, vigliaccamente al di sopra di qualsiasi contraerea. Quella che di chirurgico, di mirato, ha ben poco, perché quello che conta è evitare vittime proprie, per non irritare troppo la propria opinione pubblica.

Io non festeggio il 4 novembre, perché l’esercito italiano, che in base all’articolo 11 della Costituzione dovrebbe essere impiegato soltanto in caso di difesa, ha partecipato e partecipa alle principali guerre criminali degli ultimi anni, spesso condotte contro altri criminali – è vero – ma delle quali hanno fatto le spese sempre le popolazioni civili.

Io non festeggio il 4 novembre, data della «vittoria» in un conflitto mondiale che ha causato milioni di vittime e ha aperto la porta ai grandi totalitarismi novecenteschi, e alla seconda guerra mondiale.

Io non festeggio il 4 novembre, perché l’Italia ha partecipato e partecipa alle guerre d’Iraq.

Io non festeggio il 4 novembre, perché l’Italia ha partecipato e partecipa alla guerra in Afghanistan.

Io non festeggio il 4 novembre, perché l’Italia ha partecipato alla guerra in Libia contribuendo tra l’altro a creare il presente disastro.

Io non festeggio il 4 novembre, perché l’Italia ha aiutato e sostenuto i bombardamenti americani, collaborando nell’individuazione degli obiettivi.

Io non festeggio il 4 novembre, perché l’Italia ha partecipato e partecipa a programmi di collaborazione militare ed esercitazioni congiunte con l’esercito di Israele, responsabile di efferati crimini contro l’umanità in Palestina.

Io, soprattutto, non tollero che ai festeggiamenti ufficiali delle forze armate siano accompagnate le classi delle nostre scuole, i nostri bambini, in mezzo alle divise e alle armi, contribuendo a diffondere l’idea che quello del soldato sia un mestiere normale, e che le guerre siano «missioni umanitarie», quando non «di pace».

Fate le vostre guerre, se dovete, io non ve lo so impedire. Ma tenete via i bambini dalla guerra. Tenete lontane le vostre mani.

Ripubblico questa.

ACQUA GYM

E qualche volta neppure capisco
dov’è che vola, il cacciabombardiere:
il tuono pare ovunque per il cielo,
contemporaneamente.
Fosse a colpire, prenderei la bomba
sulla testa, senza poter sapere
a quale medicina sia dovuta
questa mia morte insulsa,
suggestivo effetto collaterale
di armi mai abbastanza umanitarie
per risparmiare i popoli soccorsi.

Ma non c’è rischio ancora:
nessuno lancia bombe sulla Puglia,
sui lidi e sugli scogli e sui consumi,
nessuno, finché la ruota non giri:
pace e vacanze al mare
a questa «portaerei naturale»
che, sulla Carta, ripudia la guerra;
volino ad altri la morte e il conflitto,
ché uccidere bisogna:
bisogna rinnovare gli arsenali
e mettere le mani sulla terra,
per fare nuove piste d’atterraggio.

L’altoparlante chiama:
la folla dei bagnanti si dispone
nell’acqua bassa della riva, pronte
al ballonzolio le pance e i glutei,
a ritmo di musica,
nel tonificante, consueto, rito.

[Mario Badino, «Barricate!», Edizioni END]

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Salvare gli ulivi

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Davvero salvare gli ulivi di Puglia dalla Xylella che li fa seccare vuole dire estirparli, abbattere le piante sane nel raggio di 100 metri da ogni albero malato, vietare magari di ripiantarli?

Davvero l’unica soluzione per fermare la malattia è eliminare il paziente e, en passant, anche i vicini sani? E, fatto questo, che cosa rimane?

Di fronte a emergenze fatte di decreti, di soldi, di tracciati – secondo qualcuno – per nuovi gasdotti, io sono sempre più convinto che l’arte sia la maniera migliore di parlare agli animi. Quelle che seguono sono le quattro tavole del fumetto realizzato dal disegnatore salentino Federico Mele.

L’arte serve anche a questo: parlare alla parte più profonda di ognuno, prendere posizione, lottare.

Ad esempio, in difesa degli ulivi. Senza i quali sarà il deserto.

>> Visita il blog di Federico Mele.

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tav4

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Aggiornamento sulla situazione rifiuti nel brindisino

Dopo lo stop alla raccolta dei rifiuti per la giornata di oggi, 7 ottobre, l’emergenza più immediata sembra destinata a rientrare velocemente. Un’ordinanza del presidente della provincia di Brindisi, Maurizio Bruno, apre infatti le porte della discarica privata di Formica Ambiente ai rifiuti accumulati nel biostabilizzatore di Brindisi, considerato fuori norma.

Sono circa 3mila tonnellate di rifiuti, che potranno entrare in discarica pur non rispettando pienamente i parametri stabiliti.

Di fronte allo scenario della spazzatura che si accumula in strada, il provvedimento consentirà a molti di tirare un sospiro di sollievo. Resta da capire quali siano le conseguenze ambientali del trattamento mancato o incompleto, e in ogni caso la decisione ha le caratteristiche di una soluzione tampone, che non risolve i problemi strutturali dello smaltimento dei rifiuti.

In alcune zone di Brindisi, intanto, la situazione è degenerata: durante la notte, infatti, si sono verificati incendi di cassonetti.

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Brindisi, “emergenza” rifiuti

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Upgrade: Leggi l’aggiornamento.

La faccio breve, perché ancora non mi sono fatto un’idea chiara delle cose e rischio di dire inesattezze. D’altro canto, la situazione mi pare grave e non ce la faccio a stare zitto, quindi prendete questo post così com’è venuto.

Nella provincia di Brindisi, dove attualmente risiedo, la raccolta dei rifiuti potrebbe essere sospesa – domani lo sarà – perché non si sa più dove mettere i rifiuti. Si profila la solita “emergenza”, a quel che posso immaginare, dove le virgolette sono dovute alla convinzione che certi problemi non scendano dal cielo, all’improvviso, ma si preparino nel corso degli anni.

I fatti, per quel che ho capito, sono questi: la discarica di Autigno è sotto sequestro per inquinamento, e i rifiuti indifferenziati, per poter accedere alla discarica «di soccorso» di Formica Ambiente, devono essere processati dall’impianto di biostabilizzazione di Brindisi, che però è stato bloccato, in quanto fuori norma. In ragione di ciò, la spazzatura indifferenziata degli ultimi giorni si trova ancora sugli autocompattatori, e non c’è modo di procedere alla raccolta delle diverse tipologie di rifiuto.

Tutto ciò avviene in un territorio che, negli ultimi anni, ha avviato pratiche virtuose, come la raccolta porta a porta dei rifiuti destinati al riciclo, evidentemente però senza riuscire a risolvere gravi problemi strutturali.

Io non so che cosa accadrà nei prossimi giorni; data la mia sostanziale inesperienza del territorio e delle sue dinamiche, mi vengono subito in mente gli scenari peggiori, quelli della crisi dei rifiuti campani (crisi che mi piacerebbe sapere davvero com’è stata risolta, intendo dire sotto quale tappeto è stata nascosta la polvere).

Probabilmente nulla di tutto ciò accadrà, e nel giro di qualche giorno ci sarà una soluzione “di emergenza” che consentirà la ripresa della raccolta. Azzardo però alcune previsioni:

  1. La situazione “emergenziale” sarà, appunto, una soluzione-tampone, che non avvierà una vera risoluzione del problema: i rifiuti saranno messi “da qualche parte”, derogando all’obbligo di biostabilizzazione, e dimenticati fino alla prossima crisi.
  2. Si deciderà che il futuro dei rifiuti sta nel portarli altrove, o nel bruciarli, o nel costruire una nuova discarica, continuando ad avvelenare questo o altri territori. Mancherà, in ogni caso, un serio impegno nella riduzione della massa dei rifiuti attraverso pratiche virtuose, e la prospettiva dei rifiuti nelle strade servirà ad anestetizzare la coscienza civile di chi sa che non tutti i sistemi di smaltimento sono uguali, per la salute e per le tasche dei cittadini.
  3. Ci sarà probabilmente qualcuno – c’è sempre – che riuscirà a lucrare sulla situazione.

Il tutto in un territorio che già oggi è caratterizzato dall’alta incidenza delle patologie tumorali, dovute anche, a quanto è dato pensare, alla presenza di importanti realtà industriali, concentrate nell’area urbana di Brindisi, dal petrolchimico all’industria farmaceutica alla centrale a carbone di Cerano.

Il tutto in un territorio che negli ultimi anni ha riscoperto la propria vocazione turistica, e che avrebbe ogni interesse a investire in un turismo legato – oltre che al mare – alle altre bellezze paesaggistiche e alle specificità culturali, in un processo di valorizzazione del territorio che potrebbe avere enormi ricadute – economiche ma anche socio-culturali – sulla popolazione del brindisino.

Il tutto in un territorio che dovrebbe riscoprire piccole strade, campi, ulivi,

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e che già ora comincia a riempirsi di immondizia nei campi.

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Cercherò di seguire la vicenda e di essere un po’ più preciso nei prossimi giorni.

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Piccole strade, campi, ulivi

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Chissà se servirebbe veramente, contro il partito del cemento, dell’eradicazione selvaggia degli ulivi attaccati dalla xylella, della spazzatura come business, delle trivelle nei mari e dei pannelli fotovoltaici al posto del suolo naturale (quando c’è tanto cemento dismesso da occupare), chissà se servirebbe veramente camminare.

Camminare in campagna, battere le vecchie provinciali dall’asfalto crepato, le sterrate che si inoltrano tra gli alberi, tagliare in diagonale per i campi, in mezzo ai tronchi d’ulivo.

Male non può fare, in ogni caso, tentare di riappropriarsi del proprio territorio frequentandolo, immaginando itinerari, e coinvolgendo più persone possibile.

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Insieme all’amico Paolo parto a piedi da Mesagne (Brindisi) per raggiungere Torre Santa Susanna (Brindisi anche questa), una quindicina di chilometri che decidiamo di percorrere su strade minori, mantenendoci paralleli alla provinciale.

«Vi perderete!» continua a ripeterci un signore a cui abbiamo chiesto informazioni, ma è l’abitudine all’auto che genera certi pensieri: a cose fatte posso dire che perdersi era impossibile. Ci fanno un po’ paura i cani, piuttosto, quelli delle ville e quelli randagi, ma saremo fortunati e non avremo problemi per tutta la passeggiata.

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Camminando parliamo, di cose qualunque e di grandi sistemi. È l’effetto dell’andare, succede sempre così. Ci si confronta con ciò che si vede intorno, e da dentro qualcosa viene fuori, tenta il capolino: bisognerebbe “aprire” queste strade alla frequentazione della gente. Bisognerebbe proteggere il territorio. Rischiamo un’emergenza rifiuti: le discariche sono piene, ci sono interessi in gioco. Quando si ha questo panorama non ci dovrebbe essere bisogno di altro.

Raggiungiamo Torre in poco più di tre ore, nonostante una piccola allungatoia. Da qui lo zio di Paolo ci accompagna in auto fino a Oria (Brindisi, ancora), da dove intendiamo ritornare a Mesagne a piedi. Ci deposita appena prima dell’inizio del paese, all’imbocco della provinciale Oria-Cellino. È una strada abbastanza trafficata, piena di curve, così ci teniamo all’esterno, nei prati. A un certo punto decidiamo di tagliare per i campi, indovinando la giusta direzione di marcia.

«Basta che teniamo il sole alle spalle» dice Paolo. Inizialmente mi sembra troppo vago. Alla fine avrà ragione lui.

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Tagliamo per i campi, in mezzo agli ulivi. Fissiamo la direzione e la seguiamo, come se le strade non fossero necessarie. È un modo di andare al quale non sono abituato: anche nei boschi, in montagna, c’è sempre un sentiero da seguire. Ricordo le poche volte che me ne sono allontanato, col senso di colpa di chi ha paura di far franare l’humus lungo il fianco della montagna: la sensazione è quella di essere nel mondo, di esserci davvero, per una volta senza costruzioni artificiali, neppure la linea tracciata di un cammino. Qui in pianura è tutto più facile: in mezzo agli ulivi e all’erba si procede benissimo; qualche zona è ancora fangosa per la pioggia di domenica scorsa; in qualche punto nel fango sono rimaste le impronte della grandine.

Proseguiamo, temendo ancora i cani, o che spunti qualche proprietario, chiedendoci chi siamo e che facciamo lì. Camminiamo, ecco tutto, e mi dico che forse è proprio il concetto di proprietà privata che mi ha tenuto fino a oggi confinato sulle strade. Eppure, tagliando in diagonale non facciamo niente di male: non calpestiamo aree coltivate, non lasciamo niente in terra, non portiamo via nulla. Udiamo degli spari. Se i cacciatori hanno il diritto di passare per le terre altrui, a maggior ragione ce l’abbiamo noi, che siamo disarmati. Il rumore è vicino, però, così affrettiamo il passo, dovessimo mai incappare in qualche incidente…

Ci teniamo fuori da Latiano e proseguiamo ancora, raggiungendo finalmente una strada conosciuta, la vecchia provinciale che molti utilizzano per correre. La stanchezza si fa sentire: avremo fatto una trentina di chilometri, che sono niente se sei seduto in macchina, ma a piedi ti possono portare via una giornata. Raggiungiamo Mesagne, e ci concediamo una meritata sosta al bar.

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