Per me l’attuale governo rappresenta il punto più basso raggiunto dall’Italia repubblicana. Il referendum che si è appena concluso mi lascia sperare che, toccato il fondo, il Paese abbia trovato la forza e la dignità di darsi una spinta per riportarsi a galla.
Certo, il conseguimento del quorum e la vittoria dei “Sì” non fanno bene alla salute del peggior governo degli ultimi 150 anni, del che – profondamente – mi rallegro. Non faccio parte tuttavia del novero di quelli che hanno puntato sul referendum come espediente per far cadere Berlusconi. Questa volta i temi affrontati erano così importanti (natura pubblica dei beni comuni, no al nucleare, giustizia uguale per tutti) che non andavano in alcun modo trasformati nell’ennesimo quesito pro o contro il presidente del consiglio.
La fallimentare manifestazione di piazza del Popolo per la chiusura della campagna referendaria, dove il «popolo» mancava, ma c’erano i segretari di partito, lo ha confermato.
Non appartengo neppure al club di quelli che non possono soffrire la parola «partito», quelli che guai se un partito si fa vedere a una manifestazione. Ma i referendum non erano stati proposti dalla politica parlamentare (con la parziale eccezione dell’Italia dei Valori), bensì dai Comitati, che avevano raccolto le firme necessarie per farli partire e poi si sono spesi fino in fondo, nelle strade e nelle piazze, per sopperire, con il proprio attivismo, alla mancanza d’informazione decretata dal governo per boicottare la consultazione popolare.
Naturalmente anche i partiti si sono uniti, alcuni con entusiasmo, a questa campagna. Penso a Rifondazione/Federazione della Sinistra; penso ai Verdi, che ancora ieri erano in spiaggia con i cartelli per invitare la gente al voto. E penso alla base del Partito democratico, intellettualmente molto più onesta dei propri leader, capace di riconoscere sin dall’inizio la necessità di battersi per l’acqua come bene comune, mentre parte della nomenklatura piddina costituiva comitati a favore della gestione privata dell’acqua.
Ora, a giochi fatti, Berlusconi fa finta d’inchinarsi al popolo sovrano e promette d’investire nelle energie rinnovabili, dal momento che è chiaro che l’Italia non vuole il nucleare. E Bersani che fa? Perché se il segretario del piddì sembra pronto a prendersi il merito della vittoria referendaria (che legge peraltro in chiave squisitamente politica, col rischio di sorvolare sui contenuti dei quesiti), non sembra altrettanto pronto a considerare le implicazioni del voto del 12 e 13 giugno.
Una parte rilevante del Paese (e qui posso fare il bastian contrario e non gioire all’idea che solo poco più della metà degli aventi diritto ha effettivamente scelto di partecipare?) ha chiesto di potersi esprimere su (e contro) quelle scelte che normalmente altre persone decidono sulla sua testa (perché mi vengono in mente il PD e la Val di Susa?). Ha chiesto che i servizi e i beni comuni non siano per forza privati. Ha detto di voler dire la sua sulla politica energetica del Paese. Ha dimostrato di essere stufa di un mondo politico intento a difendere i propri rappresentanti e le proprie prerogative come in una casta.
Il PD lo ha capito? Perché di quella “casta” il primo partito di (sedicente) opposizione fa parte a pieno titolo e, se non mi appassiona la lettura “politica” di questo referendum, è, in parte, anche perché un eventuale governo Bersani in sostituzione dell’attuale esecutivo sarebbe, sì, un miglioramento (ci vuol poco) ma, nel contempo, costituirebbe una prosecuzione della politica neoliberista che fa da cornice a entrambi gli schieramenti, quella che vede nei beni e nei servizi altrettante merci e occasioni di profitto.
Basti vedere le circonlocuzioni (o arrampicate sugli specchi) con cui il PD invitava a votare quattro “Sì” in un volantino firmato da Pier Luigi Bersani. No al legittimo impedimento perché «legge ad personam», e fin qui va bene. No al «piano nucleare del governo», in favore di «una politica energetica nuova, efficienza energetica, rinnovabili, risparmio energetico» (qualche ripetizione, ma va bene).
È a questo punto che Bersani s’inguaia, perché deve invitare a dire no alla privatizzazione dell’acqua, che è invece idealmente affine alla visione economica del suo partito: «Il Partito democratico vota sì e invita a votare sì contro la legge sulla privatizzazione forzata dell’acqua», esordisce; e si noti l’aggettivo «forzata» (corsivo mio). Dal momento che l’acqua «è una risorsa pubblica», essa «va governata con una programmazione pubblica, con regole di controllo pubblico, con sistemi di tariffe che aiutino le fasce sociali più deboli e che evitino lo spreco dell’acqua». Tutte cose giustissime, per carità, che però non significano, automaticamente, la fine della gestione mista pubblico/privato degli acquedotti, né precludono gli spazi a nuove leggi di privatizzazione del bene comune: a patto che la «programmazione» e il «controllo» siano pubblici, insomma, si potrebbe anche trovare un po’ di spazio per le aziende, sembra suggerire il segretario piddì.
Chissà però che il pronunciamento del «popolo italiano» non faccia ragionare anche Bersani.
Qui sopra I risultati definitivi del referendum, pubblicati sul sito del Viminale (clicca sopra l’immagine per ingrandirla).
>>> Nella foto, un po’ di quel bene comune che alcuni avrebbero voluto mettere nelle mani di pochi. Il torrente si trova a monte di Lillaz (Aosta).