Una donna per Intimissimi Uomo

Ogni volta che ho pubblicato un post su una pubblicità sessista ho cercato di entrare nella testa di chi non sarebbe stato d’accordo con me. Intendo dire: a meno di avere a che fare con cose spudorate come questa, è molto difficile convincere alcuni – e alcune, forse – che si è perfettamente consapevoli che il tale scatto, il tale spot, il tale messaggio sono basati su un gioco di parole, una battuta, uno scherzo. È difficile fare capire che se si sta protestando non è perché non si è capita la battuta, oppure perché si è troppo seri per accettare il gioco.

Allo stesso modo, visto che la pubblicità sessista insiste continuamente sull’esposizione del corpo femminile, è difficile far capire che non si sta criticando la scelta libera e consenziente della nudità, che non si hanno problemi con la sfera del fisico, dell’intimo o del sessuale. Che non si è bacchettoni, insomma, ma indignati per una ragione specifica. È difficile perfino rispondere all’obiezione: «Ma guarda che chi ha fatto quella pubblicità non lo ha fatto per svilire la donna, lo ha fatto per guadagnare dei soldi!», come se le intenzioni contassero più del risultato.

Più volte rispondo alle critiche – quelle immaginarie e quelle che ricevo nei commenti – dicendo che, in una società perfetta, certi “scherzi” sarebbero anche tollerabili; nella nostra no, perché si vanno a sommare a migliaia e migliaia di messaggi dello stesso tipo, che riducono la donna (e l’uomo, lo so bene) a un certo tipo, un certo ruolo, un’unica possibilità esistenziale.

Io credo che certe pubblicità siano sessiste nel “linguaggio” che usano, ma soprattutto nelle conseguenze che producono. L’insistere su messaggi di dominazione maschile, ad esempio, dove l’uomo incombe sulla donna con il proprio corpo, attraverso forme di violenza più o meno riconducibili allo stupro o ad altri tipi di supremazia (si veda QUI e QUI), a lungo andare non può non veicolare in alcuni (e in alcune!) una determinata concezione dei rapporti di genere.

Ragionare sullo sfruttamento pubblicitario del corpo femminile, comunque, non significa soltanto criticarne l’esposizione a fini commerciali oppure – quando c’è – il messaggio violento soggiacente;  occorre anche riconoscere il modello convenzionale di perfezione – inesistente in natura, perché raggiunto non solo a base di diete e palestra, ma anche di ritocchi al photoshop – che viene proposto/imposto come termine di paragone per tutte; riconoscerlo e identificarlo, correttamente, come irraggiungibile – perché falso.

Ho già parlato dell’iniziativa promossa dal blog Totem Girl, che invita a stampare adesivi da appiccicare sui cartelloni sessisti che ricoprono i muri delle nostre città. Alcuni di questi spiegano perfettamente ciò che sto cercando di dire, parlando di un ideale convenzionale fittizio: «Questa immagine danneggia gravemente la tua autostima»; «La visione di questa immagine induce a vergognarti del tuo corpo»; «Questa immagine favorisce l’anoressia»; «Questa immagine può limitare il tuo ruolo nella società», ecc. Se sei grassa, se non sei vestita in un certo modo, se non raggiungi una certa taglia di reggiseno, se non hai determinate priorità (rassodare il culo, ad esempio, tenere sotto controllo il peso, mettere in mostra certe parti del tuo corpo), se non hai l’atteggiamento “giusto” nei confronti del tuo partner o del tuo capo, allora sei fuori posto, sei brutta, non puoi aspettarti granché dalla vita. Quindi corri ai ripari, datti da fare e… migliora.

Ho cercato, in questa lunga premessa, di dire perché mi indigno di fronte a pubblicità che sviliscono la donna; ho cercato di spiegare perché parlo di svilimento e non di una semplice, innocua, battuta, di un giro di parole, di un’immagine scherzosamente ammiccante. Forse sarei più convincente se non indugiassi sul termine «sessismo» (che però è quello giusto) e ricorressi al più generale «mercificazione», che ben si addice a entrambi i generi. È un fatto che lo sfruttamento della persona a fini commerciali non è limitato alla donna, ma è anche un fatto che il ruolo ritagliato per l’uomo non è mai succube, non è mai pensato per (o non finisce mai per) causare un’idea della propria inferiorità. L’uomo è vincente e può tutto, con l’apparente eccezione degli ambiti tradizionalmente assegnati alla donna. Lì, improvvisamente, l’uomo diventa incapace di capire come funziona un deodorante per ambienti ed è la donna a mostrargli come si fa. Ma si tratta, in sostanza, del solito lavoro di delimitazione dei ruoli: i lavori di casa li fanno le donne, ciò che riguarda la casa è roba di donne. L’uomo si occupa di altro.

Veniamo al dunque? C’è, da qualche giorno, in strada, la pubblicità della collezione «Intimissimi Uomo» che reclamizza, come è facile intuire, biancheria intima maschile. Sorpresa: anche in questo caso la testimonial è una donna, la modella Irina Shayk. Ora io mi chiedo, perché una donna, per vendere capi d’abbigliamento maschile? La domanda naturalmente è retorica: perché una donna fa vendere capi d’abbigliamento maschile più di quanto non farebbe un uomo. L’altra domanda, invece, è sincera: perché mi arrabbio? Torno nella mente di chi non la pensa come me e mi dico che forse non c’è niente di male: forse è perfino una “trovata spiritosa”. Ma è l’ennesima volta che il corpo femminile viene utilizzato per veicolare un prodotto attraverso una “trovata spiritosa”. E la modella, che ha indosso boxer e canottiera, sarà pure più “coperta” del solito (ma, l’ho già detto, non è con il nudo che ce l’ho!), però si trova, come per caso, stesa o seduta su un letto, dal quale fissa con occhi e pose sensuali il maschio consumatore: il bottino di guerra, insomma, di chi si comprerà un paio di mutande.

Chi vuole farsi un’idea più precisa trova le immagini QUI. Io non le pubblico perché ho scelto di non corredare di immagini sessiste un articolo che vorrebbe essere antisessista. Consiglio invece di dare un’occhiata al sito sul quale le ho trovate – fashiontimes.it – perché l’articolo presenta un punto di vista leggermente diverso dal mio. F. A. – ignoro chi si celi dietro la sigla – parla infatti di «campagna geniale», con tanto di maiuscole e punto esclamativo. «Intimissimi ha capito tutto!», prosegue. «Gli uomini vogliono le donne, anche quando si tratta di invogliarli a fare shopping! E chi meglio di Irina Shayk può assecondarli?». Ma è la conclusione che mi lascia davvero esterrefatto: «Insomma siamo convinti!», esclama F. A. «Il potere è sempre più in mano alle donne e questa campagna è una geniale conferma». E forse a questo punto bisognerebbe dilungarsi su che cos’è il potere (la seduzione, sembra suggerire l’articolista), sulla percentuale di donne in Parlamento o in qualunque posto in cui si conta, ma forse non è necessario replicare a un articolo come quello e, in ogni caso, penso si sia fatto un po’ tardi.

>>> Per le ragioni esposte qui sopra, non ho corredato l’articolo di immagini. In ogni caso, la foto che campeggia come testata in cima alla pagina sarebbe perfetta.

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Riots: «La forza della legge»

Chi vede in me un estremista rimarrà deluso, chi da sempre ritiene che, sotto sotto, sono un inguaribile borghese si confermerà nella propria opinione, ma la verità è che io non riesco ad apprezzare la violenza.

La violenza dello Stato, per cominciare, che è per forza di cose più forte di quella degli individui. E che, come la violenza individuale o dei gruppi, fornisce molto su cui riflettere. La violenza del sistema economico unico possibile, soprattutto, che sforna marginali e disperati, sempre meno parte della società “che conta”, sempre più consapevoli di “non contare” niente, straordinariamente simili, per chi ha letto il libro, ai «prolets» di 1984 di Orwell.

Ma siamo qui a parlare dei “riots”, i “disordini” delle città britanniche, scoppiati, come tutti i disordini, quando la misura era colma e bastava poco a far saltare tutto in aria. E allora lo dico subito: penso che quando gli individui si aggregano per saccheggiare e distruggere, senza rivendicazioni “politiche” vere e senza speranza di poterle in qualche modo conseguire, e per di più si accaniscono contro le proprietà (brutta parola, ma non parliamo di ville con piscina) e le attività di poveri cristi come loro, invece di dirigere una rabbia giusta, sbagliata, ma in ogni caso presente e difficilmente evitabile, contro le sedi e i centri del potere, quando tutto questo accade, io non approvo.

C’è un video, in rete (è in inglese ma è stato tradotto nel blog Femminismo a Sud, dal quale copio e incollo la versione italiana), nel quale una donna grida ai “rivoltosi” ciò che sono e ciò che stanno facendo:

http://youtu.be/gpvtbRw0AOo

«Questa è la fottuta realtà. Smettetela di bruciare le proprietà delle persone. Smettetela di dare fuoco ai negozi della gente che lavora duramente per aprire un’attività. Mi avete capito? Quella donna cerca di far funzionare la propria attività e voi volete andare lì e bruciargliela? Per quale motivo? Per dire che state combattendo e siete uomini duri e cattivi? Qui si sta parlando di un uomo a cui hanno sparato a Tottenham. Non si sta parlando di divertirsi in strada e dare alle fiamme tutto quanto. Svegliatevi neri, svegliatevi. Fatelo per una causa. Se state combattendo per una causa, allora combattete per una fottuta causa! Mi fate davvero incazzare! Mi vergogno di essere un’abitante di Hackney. Perchè non ci stiamo riunendo per combattere per una causa, ma stiamo scappando da Footlocker con le mani piene di scarpe. Come sporchi ladri».

I «riots», questi «riots», non servono a niente di concreto, ma gridano forte un allarme. Sono il prodotto di una politica che da anni toglie ai ceti più poveri e marginali ogni struttura di promozione sociale (una scuola di qualità, centri sportivi e ricreativi accessibili a tutti), oltre naturalmente alla sicurezza del lavoro, e nel contempo convince i propri “figli” che ciò che conta davvero, per essere, è avere abiti firmati e smartphone (sono questi, non il pane, gli obiettivi dei saccheggi).

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Rai. Per un servizio pubblico privato

«Non manca d’ideologia chi minaccia, in caso di privatizzazione della Rai, la fine del servizio pubblico televisivo. Anche in questo caso, infatti, proprietà privata e interesse dei cittadini sono perfettamente conciliabili, come dimostra uno studio commissionato dal mio Ministero, che ha tracciato un quadro probabile di ciò che sarà la Rai dopo la privatizzazione. Si badi, en passant, che la dismissione della TV di Stato consentirà all’erario un notevole risparmio, finalizzabile al rientro del debito previsto per il 2013.

«Si prenda a titolo di esempio la pubblicità di un prodotto, diciamo il detersivo per piatti Pulix (che ringrazio per aver contribuito alle spese di pubblicazione di questo libro). Il detersivo Pulix ha in serbo per l’autunno 2011 una grande campagna promozionale, con ricchi premi in palio per i consumatori. Si tratta, com’è ovvio, di un’informazione molto utile per le massaie – e dunque in linea con le politiche di sostegno alle famiglie del Governo. Come tale, la notizia dovrebbe trovare ampio spazio in un servizio che davvero volesse essere “di tutti”. Ebbene, già ora, con la TV di Stato, Pulix è costretta a pagare fior di quattrini gli spazi televisivi in cui trasmette i propri spot. Con il passaggio al privato, non cambierebbe assolutamente nulla. Anche la vocazione “regionalista” di RaiTre, che i nostri amici della Lega vorrebbero implementata, sarebbe salvaguardata: lo studio ha infatti immaginato alcuni scenari in cui il prodotto reclamizzato potrà essere valorizzato attraverso l’indicazione dei punti di acquisto presenti sul territorio.

«Se dalla pubblicità vogliamo passare all’altra grande specificità del servizio pubblico, l’intrattenimento, non si capisce perché la privatizzazione della Rai dovrebbe risultare problematica. Come dimostrano ogni giorno da anni i canali Mediaset, è infatti possibile fare un intrattenimento che sia davvero per tutti, a partire da una gestione privata dell’emittente televisiva. Naturalmente, il governo s’impegnerà ad aprire un tavolo con le parti sociali, cui sono invitati sin d’ora i vertici di Cisl e Uil – magari in un secondo momento anche la Cgil – per garantire la continuità delle principali trasmissioni dopo il passaggio alla nuova proprietà. Mi sento di escludere che programmi come «L’Isola dei Famosi», «Ballando con le Stelle» o «Porta a Porta» siano a rischio di chiusura».

[tratto da G. Tremonti, «Tra Moody’s e Bruxelles. Mille sistemi creativi per conseguire il rientro del debito dello Stato» Milano, Mondadori, 2011; pp. 375, € 20 + donazione facoltativa per aiutare, responsabilmente, il Paese]

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L’Italia al bowling d’Europa – di Guido Viale

Ri-pubblico, con il consenso dell’autore, l’articolo di Guido Viale «L’Italia al bowling d’Europa», comparso sul manifesto del 5 agosto e, online, sul blog dell’autore.

Si tratta di un testo che sottoscrivo interamente. In particolare, trovo fondamentali i riferimenti alla «dittatura dell’ignoranza e del pensiero unico» (liberista) che delegano ai “mercati” il governo e la vita di milioni di esseri umani e gli accenni al nuovo ruolo della cittadinanza attiva, che deve trovare le forme e i modi – forte però della vittoria referendaria del 12 e 13 giugno – per attuare un governo «dal basso» sempre più necessario.

L’Italia al bowling d’Europa
di Guido Viale

Il “contagio greco” non esiste. La Grecia non è che il primo di molti birilli presi di mira nel gioco del bowling che tiene impegnata la finanza internazionale. Che le finanze greche possano salvarsi ormai non lo crede più quasi nessuno. Il gioco è solo quello di tirare per le lunghe perché non si intravvedono misure in grado di raddrizzare la situazione. Portogallo, Spagna, Irlanda o Italia potrebbero essere travolte, proprio come nel gioco del bowling, dalla caduta del birillo greco; ma ciascuno di questi paesi potrebbe anche essere il primo a cadere; ed essere lui, poi, a travolgere tutti gli altri. È l’intera costruzione dell’Unione Europea che rischia il collasso. E al centro di questa evenienza c’è l’euro. L’dea che si possano espellere dall’euro, uno a uno, i corpi infetti non sta in piedi. Intanto, anche da un punto di vista materiale, è un’operazione assai difficile; senza procedure; e tanto più rischiosa se attuata non secondo un piano cadenzato, ma sotto l’incalzare della speculazione. L’euro ha privato i governi degli Stati membri di due degli strumenti tradizionali delle politiche economiche: la svalutazione e l’inflazione controllata (attraverso l’emissione di nuova moneta). Il terzo, la fissazione del tasso di interesse, non la fanno più né gli Stati membri né la BCE. Chi la accusa di immobilismo non tiene conto che nel contesto attuale tassi di sconto più bassi fornirebbero denaro più facile non all’investimento produttivo, ma alla speculazione. Ma il fatto è che da tempo l’indebitamento degli Stati membri ha consegnato la fissazione dei tassi di interesse – vedere per credere – ai cosiddetti “mercati”, a cui i governi di tutto il mondo si sono assoggettati. Una condizione di subalternità che per alcuni decenni è stata “prerogativa” dei paesi del cosiddetto “Terzo mondo”, strangolati dal Fondo Monetario Internazionale; ma che la globalizzazione sta ora estendendo a tutti i paesi del pianeta. Per invertire rotta l’Unione Europea dovrebbe probabilmente assumere – e “sterilizzare” – buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale, che certo sarebbe preferibile alla caduta in ordine sparso dei singoli Stati. In entrambi i casi, con i tempi che corrono, a rimetterci saranno tutti: economie “forti” comprese.

Ma che cosa ha ridotto governi e partiti a competere tra loro facendo a gara a chi è più adatto o capace di soddisfare o tacitare i “mercati”? E che cosa sono mai questi “mercati”, ai quali è stata trasferita quella “sovranità”, cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli Stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e “delocalizzata” del capitale. Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati – si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento – che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del PIL di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d’acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamentazione degli ultimi venti anni ha permesso di investire, ma anche di speculare, con il denaro dei depositanti. Al terzo posto vengono le grandi multinazionali (petrolio, grande distribuzione, costruzioni, alimentare, farmaceutica, ecc) che “integrano” i profitti delle attività estrattive o manifatturiere operando in borsa con le proprie tesorerie. Ma i soggetti più forti dei cosiddetti “mercati” sono assicurazioni e fondi pensione – in Italia, questi ultimi, alle prime armi; ma all’estero da tempo padroni di immense risorse – che per garantire alti rendimenti ai loro investimenti non esitano a strangolare imprese e gettare sul lastrico quei lavoratori che hanno affidato loro il denaro con cui affrontare la propria vecchiaia. Tanto che in borsa le quotazioni di un’impresa spesso salgono quando aumentano i cosiddetti “esuberi”. È il capitalismo diffuso – o “popolare” – bellezza!

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In tempo di crisi un imperativo morale: guardarsi dai curanderos!

Della crisi mi sto facendo un’idea precisa: il rischio maggiore viene da chi dovrebbe curarla. La crisi e l’attacco speculativo all’Italia costituiscono più di quanto la Confindustria o il peggior governo degli ultimi 150 anni osassero sperare per procedere più in fretta con le ricette del liberismo omicida, in un clima di unità nazionale che discende da fattori diversi (il senso di patriottismo che il “pericolo” comunica, gli appelli di Napolitano, le “indicazioni” dell’Unione europea, l’inanità delle opposizioni parlamentari, la complicità dei sindacati con il capitale) ma che alla fine ha una conseguenza sola: la svendita del welfare, e di tutto ciò che in Italia è pubblico, a vantaggio dei ricchi e a danno di tutti gli altri.

Lo straordinario risultato dei referendum, che hanno detto no alla privatizzazione dei beni comuni, è sembrato ad alcuni – e potrebbe persino essere – il segnale di un cambio di rotta; un cambio di rotta che gli attuali timonieri stanno facendo di tutto per evitare, anche coinvolgendo chi per il referendum si era speso con energia – la Cgil – o con semplice opportunismo – il Partito democratico.

Il primo passo è stato l’accordo del 28 giugno, che ha riavvicinato la Cgil a alla Cisl e alla Uil (sindacati definiti, fino al giorno prima, «complici» del governo e dei padroni) e ha visto Susanna Camusso – che neanche un mese prima aveva proclamato lo sciopero generale – concordare con Confindustria misure che mettono in forse il diritto di sciopero e vanificano, nei fatti, i contratti nazionali di lavoro (unica consolazione: a settembre gli iscritti Cgil potranno esprimersi sull’accordo e, mi auguro, bocciarlo).

Il secondo passo è stato il documento intitolato «Proposte delle parti sociali» e presentato, qualche giorno fa, da Emma Marcegaglia a nome tanto degli imprenditori quanto dei sindacati, Cgil compresa. Infatti, nonostante i distinguo di Camusso, che sono venuti a posteriori e che non so in che conto tenere, il documento presentato lo scorso 4 agosto è devastante perché deliberatamente subordina la politica alle esigenze di bilancio, pretende la svendita del Paese (un po’ sul modello greco), per l’ennesima volta impone rotta e timonieri, anziché rilevare la necessità di un ruolo più attivo del cittadino nel determinare quelle scelte che condizioneranno il suo futuro.

Nel dettaglio, i 6 punti del documento prevedono innnanzitutto il pareggio di bilancio nel 2014, imponendo alla popolazione la solita cura a base di lacrime e sangue, una cura che rischia di essere senza fine, visto che il documento propone di rendere il pareggio di bilancio un obbligo costituzionale. Come si raggiunge l’obiettivo è specificato subito dopo: aumentando la produttività del pubblico impiego (la retorica brunettiana dei fannulloni), modernizzando (leggi privatizzando, meglio ancora: eliminando) il welfare, riducendo i costi della politica (giusto, ma quanto incidono realmente?), riducendo i costi delle assemblee elettive e degli organi dello Stato (di che si tratta esattamente? siamo sicuri che sia una bella cosa? qui non si parla soltanto di stipendi e auto blu), eliminando le province (tutte o solo quelle assurde?), accorpando i piccoli comuni (il cittadino ci guadagna o ci perde?). Occorre poi «un grande piano di liberalizzazioni e privatizzazioni» (il Paese è in vendita! il contrario della cura che ci vorrebbe davvero, perché anni di selvaggio West dovrebbero averci mostrato quanto onesti, efficienti e animati da senso civico siano i nostri imprenditori!). Addirittura, bisognerebbe «avviare la dismissione e la valorizzazione del patrimonio pubblico […] Incentivare gli enti locali a dismettere patrimoni immobiliari e società di servizi consentendo loro di utilizzarne i proventi per spese d’investimento superando gli attuali vincoli del Patto di Stabilità»: fare cioè l’opposto rispetto a quanto indicato dai cittadini con il referendum sui beni comuni.

Ci sono nei 6 punti diverse altre bestialità, come ad esempio l’indicazione a proseguire «l’impegno per modernizzare le relazioni sindacali», cioè sopire il conflitto, nella convinzione – così di moda – che i lupi, le pecore e i cavoli possano attraversare il fiume assieme, sulla stessa barca, e giungere sicuri all’altra riva. Basta un po’ di buona volontà, anzi: di «responsabilità».

Lo avevo già scritto e mi ripeto: siamo noi cittadini che dobbiamo vigilare, ragionare, manifestare per impedire che, dopo la straordinaria vittoria del 12 e 13 giugno, tutto torni come prima. Dobbiamo recuperare spazi di cittadinanza attiva. Dobbiamo rifiutare un modello che ha generato la crisi e si propone ora di risolverla.

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Il compleanno di Obama

Quello che segue è un racconto mio, liberamente ripubblicabile (secondo le modalità previste dalla licenza Creative Commons 3.0), con il quale “festeggio” i 50 anni del Presidente Usa, Barak Obama, a due giorni dal compromesso sul Debito che ha permesso, ancora per un po’, agli Stati Uniti di evitare il fallimento («default»), al prezzo – modico – di una sempre più cruenta macelleria sociale.

Bella mossa, caro nobel per la pace: ora la politica interna americana è sempre più in linea con quella estera!

Il discorso di Barak Obama nel Giardino delle Rose

Barak Obama avvicina il volto al microfono nel giardino delle Rose della Casa Bianca. Fa molto caldo. Forse è per questo che il Presidente suda.

«Miei cari concittadini», esordisce; poi, subito, una pausa. Un primo piano televisivo mostra, nel suo sguardo, qualcosa d’insolito. È la consapevolezza della gravità del momento, forse. Ma c’è anche un luccichio inatteso, che brilla come un guizzo di sfida che il Presidente lancia ai suoi avversari, tutti, in ogni parte del mondo.

«Il Congresso ha approvato il compromesso sul Debito, una misura che ci permette di evitare il fallimento dello Stato, evenienza che avrebbe devastato la nostra economia, che avrebbe portato la prima potenza del mondo – gli Stati Uniti – in una situazione molto pericolosa».

«Sono dunque contento», e qui la smorfia improvvisa delle labbra sembra smentire le parole del Presidente, «per il gran senso di responsabilità dimostrato da molti».

La fronte è imperlata di presidenziale sudore. I capelli, negli ultimi tempi, si sono fatti un po’ grigi.

«Certo, non tutti sono contenti per i tagli alla spesa pubblica. E veramente chi non ha lavoro avrebbe bisogno di uno Stato capace di farsi garante di servizi di alto livello, accessibili a tutti. Il compromesso approvato dal Congresso, invece, va esattamente nella direzione contraria».

«Chi è sprofondato nella miseria per colpa della crisi, inoltre, chi magari non ha più una casa, mi sputerebbe volentieri in faccia, pensando che ho appena confermato – e incrementato – le detrazioni fiscali a vantaggio dei più ricchi. Si tratta, oltretutto, di  una misura che non ha niente a che fare con la ripresa dell’economia. Un regalo a chi ha già tutto, pagato da voi, cari concittadini. Ma pensate – se vi può essere di consolazione – che, oltre ai finanzieri che hanno bruciato i vostri conti in banca, a beneficiare di questa misura saranno anche le migliori star di Hollywood. È poco, lo so, ma è meglio che niente».

Il Presidente si gratta il mento, come a calcolare la portata di quanto ha appena affermato.

I sacrifici che ho appena imposto Continua a leggere

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Chi è causa del suo male

Ripubblico, con il permesso dell’autore, l’articolo «Una strage in cerca d’autore» di Fabrizio Tonello, docente di Scienza dell’opinione pubblica presso l’università di Padova, comparso per la prima volta sul manifesto del 26 luglio.

Si tratta di un’attenta riflessione intorno alle cause profonde dei recenti attentati norvegesi, che Fabrizio Tonello individua nella propaganda xenofoba delle destre – quelle identificate come “estreme” e quelle ipocritamente definite “moderate”.

Una lettura che condivido appieno, come confermano le recenti dichiarazioni in difesa di Breivik da parte dell’europarlamentare della Lega Nord, Mario Borghezio, e i soliti, tristi, fatti di quotidiana intolleranza.

Una strage in cerca d’autore
di Fabrizio Tonello

La domanda da porsi in queste ore non è perché Anders Breivik ha fatto ciò che ha fatto, o come sia stato possibile che la tranquilla e tollerante Norvegia abbia cresciuto nel suo seno un killer a sangue freddo. Piuttosto, occorre chiedersi come mai altri attentati simili a quello di Oklahoma City nel 1995 non siano accaduti prima, perché stragi simili a quella di Oslo non si siano ancora verificate a Stoccolma, a Copenhagen, ad Amsterdam, a Helsinki. Certo l’assenza di attentati nelle altre capitali scandinave non è prova dell’efficienza delle loro polizie e dei loro servizi segreti, che se non condividono le idee dei neonazisti danno però prova di una singolare pigrizia nel combatterli.

Breivik, come Timothy McVeigh ad Oklahoma City e come Jared Loughner a Tucson in Arizona, non ha fatto che prendere sul serio la retorica dei politici, le analisi dei giornalisti, le riflessioni degli intellettuali che da decenni, e in particolare dall’11 settembre 2001, proclamano che l’islam è il “nemico”. È il linguaggio dell’estrema destra (pudicamente definita “conservatori”) che percola verso il basso della scala sociale, trasmesso dai capitan Fracassa dei talk show: Daniela Santanché o Mario Borghezio in Italia, Glenn Beck o Rush Limbaugh negli Stati Uniti.

Non occorre fare appello ai luminari della sociologia per capire come ciò accada: il linguaggio della destra, in tutto il mondo, è diventato fascistoide almeno dal 1980, con l’elezione di Ronald Reagan, che parlava volentieri di “impero del Male”, di “giorno del Giudizio” e di “scontro finale”. I progressisti erano il “nemico” mentre la prospettiva di una guerra (allora contro l’Unione Sovietica, più tardi contro l’Iraq o l’Afghanistan) doveva essere accettata come parte della vita quotidiana.

Questo scivolamento semantico si nutriva della timidezza e del disorientamento dei democratici americani e dei socialdemocratici europei, incapaci di ritrovare un linguaggio coerente e un’idea di società giusta dopo il 1989. Il risultato erano i successi della Fox negli Stati Uniti, dei tabloid di Murdoch in Gran Bretagna, di Libero e del Giornale (in versione Feltri) in Italia. I “linguaggi totalitari” sono lentamente diventati normali, estendendosi come una metastasi a tutti i media: oggi qualsiasi rissa da bar diventa il “Far West”, ogni molestia uno “stupro” e ogni visita di un ministro impone di accettare  la “città blindata”.

Naturalmente, i politici come George W. Bush o Silvio Berlusconi si sono sempre ben guardati dal trarre le conseguenze dei loro discorsi e, al contrario, hanno regolarmente invitato i cittadini a continuare nelle loro abitudini di shopping, di vacanza, di intrattenimento. La guerra diventava così uno spettacolo televisivo, un reality show girato in località esotiche, una condizione perfettamente accettabile in quanto non richiedeva alcun sacrificio all’uomo della strada e gli permetteva invece di sfogare il proprio risentimento contro i gruppi additati come responsabili delle miserie quotidiane, in particolare gli immigrati.

Negli anfratti di una società sempre più inquieta, tuttavia, rimangono parecchie persone che credono a ciò che sentono o a ciò che leggono, che trasformano le loro esperienze in aggressività e che vedono nel nemico islamico un’occasione per dare un senso alla propria vita. Sono giovani dall’esistenza marginale, quasi sempre più interessati alla birra e alle motociclette che alle manifestazioni politiche, ma trovano nelle svastiche, nelle teorie del complotto, nel culto delle armi da fuoco una ragione di vita. Del resto, la violenza politica contro i “traditori” si era già manifestata nel 1986, quando fu ucciso il primo ministro svedese Olof Palme, e nel 1995, quando il primo ministro laburista israeliano Yitzhak Rabin fu assassinato da un giovane di estrema destra.

Gli autori di stragi come McVeigh, Loughner e Breivik, non sono pazzi nel senso clinico del termine, come dimostrano le loro capacità di pianificazione e l’efficienza nell’esecuzione dei loro piani. Sono dei compagni di strada dei politici che siedono nei parlamenti e nei governi, pronti a chiedere l’espulsione di tutti gli immigrati per poi fingere orrore e piangere lacrime di coccodrillo quando l’inevitabile accade. Breivik non aveva come obiettivo nulla di diverso da ciò che la English Defense League, il partito True Finns, o la Lega Nord chiedono ogni giorno: la fine di una pretesa società “multiculturale” (che in realtà non esiste affatto) e il ritorno all’omogeneità culturale e razziale di 40 anni fa. L’unica differenza è che lui ha deciso di agire.

Occorre sottolineare che il giovane norvegese, esattamente come Jared Loughner che ha sparato alla deputata Gabrielle Giffords l’8 gennaio scorso o McVeigh che fece saltare in aria un palazzo di uffici federali nel 1995, scelgono di attaccare i loro governi. Invece di arruolarsi per andare a combattere in Afganistan, rivolgono la loro violenza contro i simboli politici del loro stesso Paese: perché? La risposta è che, prendendo sul serio la retorica delle crociate, si ribellano contro la passività e l’inettitudine dei governi che le predicano. Vogliono compiere azioni spettacolari che “risveglino” i cittadini e li spingano a mobilitarsi, a riprendere nelle loro mani un potere politico loro sottratto da élite cosmopolite e asservite alle banche. Breivik odiava in particolare i “traditori”, come i giornalisti o gli aspiranti politici dei partiti di governo: il suo bersaglio sull’isola di Utoya.

Ma il risentimento nei confronti di una finanza internazionale impazzita, che tratta i governi come le proprie donne delle pulizie, è tutt’altro che confinato ai gruppi di skinhead o di neonazisti: tutti i partiti xenofobi europei hanno avuto performance elettorali spettacolari negli ultimi anni e Marina Le Pen, candidata per il più antico di loro, il Front National, alle presidenziali francesi del 2012, spera di arrivare al secondo turno superando il candidato socialista o addirittura l’impopolare presidente Sarkozy. Questo è il motivo per cui l’attentato di venerdì [22 luglio, ndr] era perfettamente prevedibile, un crimine che attendeva solo il suo autore per realizzarsi.

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