Militari in caserma

Dovrebbe essere normale: i militari in caserma, i cittadini in piazza, come auspicato nel titolo di un articolo del quotidiano online Mesagne Sera, che riporta alcune dichiarazioni di Pompeo Molfetta, capogruppo di Sinistra Ecologia e Libertà in consiglio comunale a Mesagne (Brindisi) intorno all’ipotesi di utilizzare l’esercito contro la recrudescenza del fenomeno mafioso dopo le recenti azioni intimidatorie opera della sacra corona unita (scu), che lo scorso 24 agosto ha colpito con una bomba il portone d’ingresso dell’abitazione dell’imprenditore Luigi Devicienti, già vittima di un attentato incendiario appena un mese prima.

L’idea di utilizzare i soldati è del sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano. All’ipotesi Sel è assolutamente contraria per due ragioni: «la prima è che quando ciò è stato fatto non ha prodotto gli effetti sperati», ha detto Molfetta; «la seconda è che per noi resta valido il principio che i militari devono stare nelle caserme e i cittadini nelle piazze». Molfetta ha invece auspicato la concretizzazione di un’altra promessa, quella di aumentare di 25 unità la presenza delle forze dell’ordine in città. «Speriamo che ciò non avvenga per semplice e provvisoria rotazione spostando lo stesso gruppo di uomini da una città all’altra sulla scia dell’ultima bomba ma che avvenga in maniera stabile e duratura dotando le caserme non solo di uomini ma anche di mezzi e di capacità investigativa. Auspichiamo una più equilibrata ed efficace integrazione nelle funzioni di controllo del territorio e di investigazione fra i differenti corpi di polizia, tenendo conto per esempio che il comando dei carabinieri di Mesagne è clamorosamente sotto organico da anni perché nel “valzer delle caserme” noi perdemmo uomini per favorire la costituzione di una nuova compagnia a S. Vito e non vorremmo che gli stessi militari oggi facessero il percorso inverso».

Mesagne, soprattutto, rifiuta di essere considerata città di mafia e mafiosi. È dunque necessario che alle provocazioni della criminalità organizzata rispondano in primo luogo la cittadinanza e la politica. Naturalmente anche lo Stato dovrà fare la sua parte, ma questo sarà possibile soltanto assegnando alle forze dell’ordine le unità e i mezzi necessari (crisi o non crisi), una condizione senza la quale qualsiasi ipotesi di impiego dell’esercito corrisponde a un esercizio di pura propaganda. Stamattina, in ogni caso, davanti al commissariato stazionava un blindato dell’esercito. È solo un caso o la linea Mantovani è già prevalsa?

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Non lasciamoli fare

Non lasciamoli fare, perché sono loro che ci hanno spinti nel baratro economico, esposti alla rovina sociale. Quando un autista non sa guidare, lo si cambia – patente o non patente. Quando non è cosa di autista e sono sbagliati il mezzo, il tragitto, la meta, si scende e si va a piedi, si cambia strada, si consulta la carta geografica o i compagni di viaggio.

Non lasciamoli fare, perché quelli che hanno originato la crisi non possono essere quelli cui viene affidato il compito di curarla, anche perché della crisi si sono avvantaggiatisalvo poche eccezioni – e ora non possono ripetere che siamo sulla stessa barca, per la ragione ovvia che non lo siamo affatto (a meno che non abbiate anche voi un panfilo, nel qual caso lasciate pure perdere questo mio articolo).

Non lasciamoli fare, nemmeno in base al principio che per difendere il lavoro occorre difendere l’impresa, perché – semplicemente – non è vero. O credete realmente che ci sia tutela del lavoro nel difendere gli interessi lobbystici di chi vorrebbe meno garanzie e salari più bassi, promettendo in cambio investimenti che non farà e che non si capisce a che cosa dovrebbero servire? Qual è, in altre parole, il fine del gioco? Far stare meglio tutti, sia pure – se volete – in proporzione al ruolo, oppure limitarsi al conseguimento di utili più alti? Che cosa significa che la tale azienda è “cresciuta”, se per farlo ha tagliato il numero dei propri occupati o ne ha trasformato i contratti (e i diritti) in modo da assicurarsi la più ampia libertà di licenziare – anche senza «giusta causa» – o di non prolungare un ingaggio a tempo molto determinato? Qual è il modello di società cui si va incontro?

Non lasciamoli fare, solo perché il Partito democratico sotto sotto vuol fare le stesse cose, benedicendo i Marchionne, i Montezemolo, i Profumo, invece di tornare a chiedere non dico il socialismo, ma almeno un poco di equità socio-economica.

Non lasciamoli fare, solo perché il Partito democratico vuol fare le stesse cose, dalle grandi opere inutili e impattanti, che in un periodo come questo gridano vendetta al cielo anche solo per il loro costo economico, alle spese militari, a tutto ciò che ultimamente viene nobilitato con il termine «riformismo», un ritorno al passato, molto spesso, a prima delle garanzie e dei diritti conquistati attraverso decenni di lotte dei lavoratori.

Non lasciamoli fare e non temiamo il conflitto. Se gli interessi divergono non c’è alchimia, non c’è «ma anche» che tenga. Lavoratori e imprenditori sono oggi portatori di interessi non solo differenti, ma propriamente opposti. Quanto alle forme del conflitto, riempiamo le piazze con la nostra intelligenza e la nostra fantasia, non ci nascondiamo, abbiamo il coraggio di dire apertamente non solo la nostra sacrosanta indignazione, ma il progetto di economia e di società che abbiamo in mente.

Non lasciamoli fare, perché loro ci mettono poco – hanno i media, i soldi, il potere – per diffondere i loro modelli comportamentali, gli obiettivi che hanno deciso dobbiamo condividere.

Non lasciamoli fare, perché c’è alternativa, perché la crisi esiste solo se la accetti, se accetti regole del gioco scritte a Washington, a Londra, Bruxelles o Pechino, ma che potresti – come Stato – rifiutare, accettando il fallimento di un’impresa o di una banca, a patto di poter intervenire tu in economia, assumere lavoratori, gestire direttamente servizi, ciò che il liberismo ha deciso di vietare, anche se 27 milioni e passa d’italiani non sembrerebbero d’accordo, a giudicare dall’esito del referendum di giugno.

Non lasciamoli fare, neanche dal punto di vista individuale, perché le alternative sono anche nella vita di ognuno. Non accettiamo i ruoli che ci vengono imposti (sfruttati-sfruttatori-consumatori-consumati), non accettiamo forme di controllo sempre più invasive sulla nostra vita, i nostri gusti, le nostre passioni, le nostre abitudini, gli acquisti.

Non lasciamoli fare, boicottiamo i loro prodotti, scegliamo criticamente beni e servizi, facciamo gruppo, coalizziamoci, coltiviamo un orto senza rinchiuderci nel nostro giardino, diffondiamo informazione, cultura, alternative al rincoglionimento televisivo obbligatorio, rifiutiamo di investire i nostri risparmi in borsa (armi, sfruttamento, quant’altro), riduciamo le transazioni a base di denaro, magari riscopriamo il piacere di scambiarci un favore.

Non lasciamoli fare, solo perché quella descritta qui sopra non è ancora la rivoluzione, come se la somma dei comportamenti individuali non importasse, quando – a ben vedere – è questa che dà loro potere e che ci rende fino in fondo schiavi.

Oggi6 settembresi sciopera. Aderisco allo sciopero con entusiasmo, contro una manovra iniqua e con molti tratti di incostituzionalità e contro tutti quelli che – a destra come nella sedicente sinistra parlamentare – hanno detto che scioperare è un errore, che è sbagliato, che non è il momento. Nessun clima di unità nazionale è possibile con chi è responsabile della rovina del Paese, il quale da sempre è alle prese con enormi problemi ma in fondo un poco di stato sociale era riuscito a costruirlo.

Cercheranno di vanificare lo sciopero e le mobilitazioni di oggi, di negarne l’importanza di sminuirne la portata. Cercheranno di isolare questa giornata come un episodio di folklore. Ma non dobbiamo fermarci, dobbiamo riempire le piazze (già detto), dobbiamo tenerli sotto pressione. Non solo Berlusconi, non solo il governo. È tutto il sistema (economico) che bisogna cambiare.

Non lasciamoli fare. Non lasciamoli stare.

>>> Le vignette su Marchionne e quella su Tremoniti-Dooh Nibor (Robin Hood al contrario) sono opera di Ronnie Bonomelli.

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Sciopero generale!

6 settembre, sciopero generale.

Come insegnante, sono felice di comunicare di aver aderito, nonostante la scuola debba ancora iniziare e per la giornata di oggi non fossero previste riunioni né altri incontri.

In altre parole, sarei stato a casa lo stesso, ma ho telefonato in segreteria e ho chiesto di essere conteggiato tra gli aderenti allo sciopero (il che mi costerà una trattenuta sullo stipendio).

Questa comunicazione è per i ministri Brunetta, Sacconi e Tremonti, i quali probabilmente pensano che lo sciopero sia una forma di vacanza non giustificata e che chi sciopera sia – necessariamente – un «fannullone» o un furbo.

Buono sciopero a tutt@!

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Valle d’Aosta: dove osano le nocciolaie

Ultimamente ho parlato spesso della provincia di Brindisi, nella quale rimarrò ancora qualche giorno. Alle persone di qui, una regione piccola e ricca del profondo nord (la Valle d’Aosta da cui provengo) non può non sembrare un’oasi di benessere e di buona amministrazione, con servizi che funzionano (è stata accolta con stupore la notizia – che qui confermo – che i pasti serviti all’ospedale «Umberto Parini» di Aosta siano perfino peggiori di quelli del brindisino «Antonio Perrino»), l’abbondanza del lavoro, eccetera eccetera.

Ora, è vero che in Valle d’Aosta il lavoro c’è, come anche è vero che certi servizi pubblici funzionano mediamente meglio (né sarebbe possibile il contrario, in una regione che conta appena 120 mila abitanti, contro i 4 milioni e passa della Puglia, e gode – ancora per quanto non lo so – di un’ampia autonomia). È forse vero persino che a essere ricchi è più facile difendersi (o è più difficile che ti attacchino). Fatto sta che le intimidazioni a suon di bombe non riguardano la realtà valligiana (ma si parla sempre più spesso della Valle come di terra di conquista della ‘ndrangheta e, per sapere se si paga il pizzo, forse dovrei essere un commerciante) né abbiamo petrolio da estrarre sotto qualche ghiacciaio montano (altrimenti state sicuri che ci proverebbero).

Sarà colpa delle dimensioni, lo ripeto, ma leggendo i giornali locali, o guardando il tg3 regionale, la Valle d’Aosta sembra un luogo fuori dal tempo, dove persino le rassegne culturali, gli spettacoli, i concerti sono sempre elogiati, mai criticati. La mia regione si offre allo sguardo dei propri abitanti come una realtà anestetizzata, pastorizzata, dove ci sono, sì, gli ambientalisti che protestano per questo e per quello, ma in fondo ciò che conta è lasciare tutto alla guida esperta dell’Union Valdôtaine e alla sua trentennale esperienza di potere. Ai non valdostani anche questa narrazione è preclusa, perché ciò che avviene oltre le colonne d’Ercole di Pont-Saint-Martin (il primo comune valdostano venendo dal Piemonte) difficilmente viene riportato.

Eppure, Aosta è sede di un’industria siderurgica non piccola, la Cogne Acciai Speciali, situata in piena città sul fondo di una stretta valle, e recentemente in alcuni quartieri sono stati registrati livelli di diossina superiori ai limiti di legge. Inquinamento che necessariamente ristagna in quella conca naturale che è la valle centrale, e che si somma al traffico dei TIR da e per il nord Europa, ai riscaldamenti delle abitazioni, accesi diversi mesi all’anno per la rigidità del clima, all’uso intensivo dell’automobile. Inquinamento che rischia di aumentare per la decisione della Regione di costruire un pirogassificatore in cui bruciare i rifiuti di una popolazione numericamente pari a quella di un quartiere di città, il tutto in presenza di una raccolta differenziata che ancora non raggiunge le percentuali previste dalla legge, e che non contempla, se non in pochi comuni, la separazione dell’umido. Una petizione, la più firmata nella storia valdostana, ha chiesto alla regione di mettere a confronto diverse soluzioni; la risposta è stata, semplicemente, che indietro non si torna.

Alla questione atmosferica bisogna sommare la devastazione del territorio, sempre più cementificato, come dimostra non solo la crescita infinita dei centri urbani (come dappertutto più rapida di quella della popolazione, anche perché a moltiplicarsi sono più facilmente i capannoni che non le case popolari), ma anche la miriade di strade poderali, rughe scavate sul fianco della montagna al nobile scopo, talvolta, di raggiungere uno o due alpeggi, lungo itinerari che da secoli erano percorsi senza impatto, a piedi. Citando a memoria, negli ultimi anni è stata realizzata una pista nel vallone del Grauson, sopra Cogne, è stato previsto l’ampliamento della mulattiera dell’Alleigne, si torna a parlare del prolungamento della poderale nello splendido vallone di San Grato e, se ho sentito giusto, si pensa di fare lavori nel parco naturale del Mont Avic con la scusa, priva di qualunque ritegno, di consentire le visite ai disabili. In altre parole, si portano in montagna le comodità della pianura, spendendo i soldi di tutti, se va bene allo scopo di semplificare la vita a una manciata di persone, se va male per far circolare il denaro, in base ai principi di un liberismo privo di qualsiasi coscienza ambientale.

Tra i valloni deturpati da strade non ho ancora citato, di proposito, quello di Comboé, che mi sembra esemplare dell’inutilità di certe opere, dello sperpero di denaro pubblico che comportano, degli effetti sul territorio. Ho fatto parte del comitato Amici del Vallone di Comboé, che ha tentato inutilmente di opporsi alla costruzione di una poderale che, elevandosi su tornanti oltre un gradino glaciale penetra oggi, e offende, uno degli angoli di montagna fino a pochi mesi fa ancora pochissimo contaminati dalla presenza umana. Abbiamo perso la battaglia e il nemico non ha fatto prigionieri (vari osservatori hanno notato incongruenze tra quanto previsto dalla valutazione di impatto ambientale e l’effettiva realizzazione dell’opera, come ad esempio il taglio di piante di grande fusto).

A Comboé il comune di Charvensod ha inseguito per anni l’obiettivo di servire l’unico alpeggio esistente, di sua proprietà, attraverso una strada poderale. Dove le bestie (e gli uomini) salivano da sempre a piedi è stata realizzata una trattorabile al costo stimato di 2 miloni e mezzo di euro, un quinto dei quali forniti dal comune, il resto dalla regione (ignoro se, a cose fatte, l’entità della spesa sia rimasta tale). Dal punto di vista economico vorrei che qualcuno mi spiegasse dov’è l’interesse della comunità. Da quello paesaggistico penso non vi siano dubbi sul fatto che una strada in montagna è meno gradevole del bosco e dei prati incontaminati. Dal punto di vista ambientale in senso lato, sembrano risibili le assicurazioni del comune di Charvensod, che aveva promesso di riservare l’uso della strada al solo conduttore dell’alpeggio (bella, comunque, l’idea di un’opera ad personam, a me piacerebbe un ponte), mentre è bastata l’idea di una festa da parte dell’allevatore per portare in quota una decina di auto, negli stessi prati in cui, per anni, ci siamo ritrovati – a piedi – per la difesa del vallone. «So che avevano organizzato una polentata all’alpeggio», ha dichiarato Ennio Subet, sindaco di Charvensod, a Daniel Quey (La Vallée di sabato 27 agosto). «Avevano invitato anche me ma non sono andato. Certo, se sono salite tutte quelle macchine è un episodio increscioso». Subet ha poi rassicurato circa le intenzioni di rendere impossibile il transito ai non autorizzati con una sbarra da collocare all’inizio della strada. «Saremo molto severi da questo punto di vista», ha aggiunto.

Una risposta al sindaco viene da Patuasia News, irriverente blog satirico valdostano (si confronti la vignetta pubblicata qui accanto), che dopo aver criticato un’opera fatta per un unico destinatario si mostra critico sulla possibilità di far rispettare il divieto: «Sappiamo fin troppo bene come vanno a finire queste cose», ha commentato: «metteranno una sbarra per vietare l’accesso e poi distribuiranno permessi a questo e a quello per consentirlo».

Per ora mi fermo. Tornerò presto a parlare di ciò che succede in una regione così sconosciuta e così simile alle altre, nonostante lo statuto speciale.

>>> Il titolo di questo articolo è dovuto al fatto che nel vallone di Comboé era stata individuata una nocciolaia albina. La ricchezza faunistica era una delle ragioni che avrebbero potuto portare al rispetto del vallone. Certo, sarebbe stato più corretto, benché indelicato, intitolare il post «Dove osano i polli». Perché non si può prendere a calci il proprio ambiente senza compromettere il futuro di tutti.

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Buone notizie – qualcuna…

Qualche buona notizia ogni tanto non guasta. Lo so che sono gocce nel mare, ma qualche goccia è più sostanziosa delle altre e – se correttamente sfruttata – si può allargare fino ad abbracciare l’orizzonte. Immagini a parte, i giuristi Alberto Lucarelli e Ugo Mattei, due degli estensori dei quesiti referendari sui beni comuni, avevano scritto una lettera aperta a Nichi Vendola che, come presidente di regione, può impugnare la riforma delle lacrime e sangue presso la Corte costituzionale (la “manovra di ferragosto” presenterebbe infatti numerosi elementi di incostituzionalità). Vendola ha accettato e questo è sicuramente positivo per non far cadere nel nulla la volontà di 27 milioni di cittadini italiani che – il 12 e 13 giugno – si erano espressi contro la privatizzazione dei beni di tutti.

Ciò dettovisto che non riesco a non essere polemico – mi piacerebbe capire perché il governatore della Puglia, che nella sua risposta a Lucarelli e Mattei ha usato parole durissime nei confronti del liberismo, abbia dapprima contribuito a dividere Rifondazione (per superare certi “steccati ideologici”?) e successivamente abbia corteggiato Bersani nella “missione impossibile” di portare a sinistra il Pd, il partito che vorrebbe Montezemolo a Palazzo Chigi o, in alternativa, il banchiere Profumo.

Seconda buona notizia: le “feste laiche” del 25 aprile, 1° maggio e 2 giugno (veri simboli della Repubblica «fondata sul lavoro» e nata dall’antifascismo) non saranno più accorpate alla domenica, grazie a un emendamento del Pd. Ora non ci aspettiamo per questo che i rappresentanti del governo si decidano a partecipare alle celebrazioni (a parte la vergognosa parata militare del 2 giugno, naturalmente), ma del resto non sarebbero neppure presenze gradite. Stupirà qualcuno, ma non mi rallegra per niente il fatto che le feste patronali siano invece tuttora cancellate (a parte quella dei SS. Pietro e Paolo a Roma, tutelata dal Concordato). Da buon laico non faccio nessuna fatica a rispettare le credenze e le feste degli altri e, come ho detto altrove, trovo inconcepibile che si pretenda di sottomettere l’umano – nei suoi molteplici aspetti – alle “esigenze” del mercato, di Confindustria o di un marchionne qualunque. Ci dicono che troppe feste rallentano l’economia: davvero pretendono che crediamo alla favola che una manciata di giorni liberi l’anno costituisca un serio ostacolo al (LORO) modello di sviluppo?

Terza buona notizia: martedì si sciopera e sembra che molti lavoratori iscritti alla Cisl e alla Uil intendano partecipare, nonostante la contrarietà dei loro sindacati. Potrebbe essere un segnale, oltre che al governo, anche alle organizzazioni sindacali complici di Confindustria…

La quarta buona notizia, volendola considerare buona, è infine che il governo – pericoloso e probabilmente destinato a rimanere in carica ancora per un po’, per quanto qualunque altro esecutivo farebbe meno danni – sta completando in tutte le sedi il proprio sputtanamento. A livello internazionale, il credito di Berlusconi – se mai c’è stato – si è esaurito da un pezzo: persino nell’ottica della Banca centrale europea e agli occhi dei custodi dell’ortodossia liberista la “manovra di ferragosto” (che io critico per ben altre ragioni) appare palesemente inadeguata. In Italia assistiamo invece all’altro fronte, quello dei reati comuni e del marcio che circonda la vita privata-ma-non-solo del premier, ricattato da faccendieri, impegnato nei festini, come i nobili a Versailles prima del 14 luglio, colto dalle intercettazioni nella piatta volgarità del suo stesso linguaggio. Nonostante clientele e mafie, è molto difficile che la nuova consacrazione dell’eterno candidato premier del centrodestra annunciata dal segretario (sic) del Pdl, Angelino Alfano, riporti il vecchio che non molla (brutta antitesi del nuovo che avanza) alla Presidenza del Consiglio. E se non siete convinti di quanto sto dicendo, potete almeno riderci sopra, con un eccezionale Robecchi!

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Il movimento nonviolento aderisce allo sciopero del 6 settembre

Il Movimento nonviolento scrive una lettera aperta a Susanna Camusso, leader della Cgil per spiegare la propria adesione allo sciopero generale del 6 settembre, invitando la segretaria del primo sindacato d’Italia alla Marcia Perugia-Assisi del prossimo 25 settembre.

Pace e buona economia, infatti, sono temi che si toccano.

Lettera aperta a Susanna Camusso
Segretaria generale della CGIL

Il Movimento Nonviolento alla CGIL su sciopero, spese militari, guerra.

Gentile Susanna Camusso,

mentre prepariamo la “Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli”, il 25 settembre da Perugia ad Assisi nel cinquantesimo anniversario della prima del 1961, noi che ci diciamo “amici della nonviolenza”, secondo la definizione che volle dare Aldo Capitini, fondatore del nostro Movimento Nonviolento, saremo nelle piazze d’Italia anche il 6 settembre insieme ai lavoratori italiani.

Saremo in piazza con voi per sottolineare con forza che, mentre con il pretesto della crisi internazionale si taglia tutto ciò che ancora rimanda a un’idea di Stato come patto solidale tra i cittadini voluto dalla Costituzione, non si opera nessun taglio alle spese militari che sono invece già di per sé una rottura in atto e permanente della stessa Costituzione, in quanto preparano lo “strumento guerra” che essa ripudia, sottraendo preziose e ingenti risorse al bilancio dello Stato.

Mentre l’economia del nostro Paese scivola sempre più in basso, è invece stabilmente all’ottavo posto tra i paesi che spendono di più per spesa pubblica militare, come ci ricorda tutti gli anni l’autorevole osservatorio del Sipri di Stoccolma. E mantiene questa posizione non solo non operando tagli in questo settore, ma aumentando – anno dopo anno – l’investimento pubblico nelle spese per la guerra. La cifra astronomica di 25 miliardi di euro, ormai raggiunta dalla spesa bellica, è il valore di un’intera finanziaria di lacrime e sangue per i cittadini e i ceti popolari!

Il Parlamento ha recentemente confermato l’acquisto di 131 cacciabombardieri nucleari F35, per un costo complessivo di ulteriori 16 miliardi di euro, senza considerare le successive spese di manutenzione. Con il costo di uno solo di questi orrendi mostri, portatori di morte, si possono aprire 300 asili nido o pagare l’indennità di disoccupazione per 15.000 cassintegrati.

Se poi si vanno a vedere gli impegni per i programmi pluriennali dei sistemi d’arma, si scopre che dal 2011 al 2019, per nuovi bombardieri, elicotteri, portaerei, fregate, sommergibili e veicoli blindati, il Governo ha impegnato una spesa di 46 miliardi e mezzo, ossia l’equivalente di un’altra enorme finanziaria!

Noi del Movimento Nonviolento saremo a fianco della CGIL nello sciopero generale e invitiamo Lei ad essere al nostro fianco alla Marcia Perugia-Assisi, ma chiediamo anche che il più grande sindacato italiano, faccia suo l’appello del Presidente Pertini: «Si svuotino gli arsenali, strumenti di morte, e si colmino i granai, strumenti di vita».

Chiediamo che nelle piazze dei lavoratori si dica, chiaro e forte, che il primo principio di equità, di civiltà e di costituzionalità è il taglio drastico delle spese militari e la loro riconversione in spese civili e sociali.

Come insegnava don Lorenzo Milani ai ragazzi di Barbiana, due sono le leve per cambiare le leggi ingiuste degli uomini, il voto e lo sciopero. E poiché in questo momento ci è impedito lo strumento democratico del voto, condividiamo la scelta del più grande sindacato italiano di usare il più importante strumento di lotta nonviolenta di cui il movimento sindacale è custode: lo sciopero generale.

MOVIMENTO NONVIOLENTO

Mao Valpiana, presidente.
Raffaella Mendolia, segretaria.
Pasquale Pugliese, segretario.

Verona, 26 settembre 2011

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Via 24 maggio

Ho visto una via 24 maggio.

Ora, a meno che la data non si riferisca a qualche altra occasione (ma mi sembra improbabile), il 24 maggio (1915) è la data dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale (il quale fece svariati milioni di morti e preparò il terreno ai totalitarismi e alla seconda guerra mondiale).

L’Italia uscì “vittoriosa” dalla «Grande Guerra». È questo che giustifica l’intitolazione della via? Si tratterebbe della stessa filosofia che, il 4 novembre, festeggia la “Vittoria” (festa delle Forze Armate), anziché la fine di quella pazzia chiamata guerra.

L’altro giorno era il 1° settembre, anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale. Se l’Italia avesse vinto oggi sarebbe lecito dedicarvi una via?

>>> NB: So bene che l’Italia non entrò in guerra il 1° settembre (1939), ma il 10 giugno 1940. La domanda retorica conclusiva, correttamente impostata, dovrebbe quindi essere: «Sarebbe lecito dedicare una via al 10 giugno, se l’Italia avesse vinto?». Ho tuttavia approfittato del ragionamento per ricordare, citando il 1° settembre, l’anniversario di una delle più grandi carneficine della storia umana. Oggi, naturalmente, la guerra non esiste più, non per gli Stati democratici, almeno, che vi hanno rinunciato: oggi ci sono le «missioni umanitarie» e spese militari che non conoscono crisi (in barba alla crisi sofferta dalla popolazione).

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