Dove la strada fa naufragio

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Con riferimento all’articolo sulla passeggiata Mesagne-Latiano, “ambientato” nella campagna pugliese, che ho recentemente ripubblicato nel blog, trascrivo di seguito una mia poesia sullo stesso argomento, contenuta nel libro «Barricate!».

Mi convinco sempre più che camminare, osservare e raccontare sono ottime forme di lotta e non omologazione alla società della plastica e dei salotti televisivi.

Campagna

Calpesto i passi dell’asfalto antico,
che irradia la città nelle campagne
sotto la scorta degli ulivi.

Anche gli ulivi sono antichi:
reggono foglie e bucce di cicala,
procedono tortuosi verso l’alto
per inseguire il cielo che li tenta.

E il cielo scende basso all’orizzonte,
dove si perde la terra,
dove la strada fa naufragio.

[Mario Badino, «Barricate!», Edizioni END]

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Il camminante – da Mesagne a Latiano

Ho già pubblicato questo articolo – pensate un po’ – nell’agosto del 2008. Lo ripubblico ora, sull’onda della lettura del bellissimo «Terracarne», di Franco Arminio. Anche a me piace vagare per i luoghi (non per forza i paesi, anche), e osservare, riflettere, lasciar vagare la mente.

Passeggiata Mesagne – Latiano

Mesagne e Latiano sono due comuni della provincia di Brindisi, uniti dalla superstrada Lecce-Taranto e da due provinciali. Quella vecchia, poco transitata dalle macchine, è un nastro d’asfalto che si snoda tra i campi e gli ulivi. Mi piace percorrerla a piedi, sotto il cielo enorme, che comunica, a chi come me è abituato alle montagne, l’idea dell’infinito. Se guardi bene all’orizzonte, girando lento su te stesso, hai l’impressione di vedere la volta celeste, di riuscire a seguirne la curvatura. Un passo dietro l’altro, come sempre, lungo il ciglio della pista, buttando l’occhio alla campagna. Tanto il calore del sole, quanto la forma del paesaggio comunicano un’impressione di eternità. Come se questi ulivi ci fossero sempre stati, colle radici ben piantate nella terra rossa e i rami verdi al cielo. Ho visto file di tronchi simili a colonne di cattedrale, strani ghirigori disegnati in terra sotto gli alberi, la carcassa delle cicale aggrappata alle cortecce, i muri bianchi di pietre, a secco. Ho visto i rovi con le more, la vite, mi sono sentito ospite della Magna Grecia. Sono tornato alla realtà, di tanto in tanto, alla presenza di qualche mucchio d’immondizia, ma poca cosa, giusto gli scarichi abusivi di qualche privato, che si libera così delle cose più impensate, ad esempio i vecchi sanitari. Ho seguito l’asfalto, fatto di passi, fino al paese, vi sono penetrato, come faceva lo straniero, un tempo, quand’eravamo nomadi.

«Eravamo tutti nomadi, una volta», mi dice il parroco di Latiano. Lo incontro mentre sto per tornare indietro, lasciandomi il paese alle spalle. Io sono a piedi, lui in macchina. Si propone di darmi un passaggio; gli spiego che sono lì per camminare. Le persone trovano sempre strano che uno voglia andare a piedi. Però la cosa lo intriga, Continua a leggere

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Nuova presentazione del blog

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Ma gracchia inutilmente la cornacchia

Il verso qui sopra, tratto dalla prima versione della mia poesia «Il selfie col cavallo», ha titolato per anni la pagina di presentazione di questo spazio. La natura del blog, in effetti, è stata fino a oggi prettamente politica, e la «cornacchia», l’uccello del malaugurio, che nel mio componimento era la sacerdotessa troiana Cassandra, in questa sede sono io, autore di scritti polemici, catastrofici, sempre contro: in breve, piuttosto oggettivi.

E il bersaglio dei miei articoli è stato principalmente uno: il liberismo trionfante, con il suo corollario di privatizzazioni, smantellamento dello stato sociale e delle regole democratiche, diritti negati, salari compressi, crisi. Parallelamente, ho cercato di fare una critica del consumismo, di stare non dalla parte dell’austerità, né degli sciuponi, di fare ricerca di percorsi alternativi a quelli indicati dalle industrie e dai media.

Di qui è nata la Marcia Granparadiso estate, ad esempio; una competizione non competitiva, autorganizzata dai partecipanti, per partecipare alla quale non si spende un centesimo, ma chi vince si compra la coppa da solo.

Di qui sono nate petizioni, proposte, battaglie che hanno coinvolto persone e giornali, come nel caso delle lettere collettive al Presidente della Repubblica in occasione del referendum propositivo valdostano contro la costruzione di un pirogassificatore.

Ho anche cercato di documentare, in maniera piuttosto saltuaria e non sistematica, la cementificazione del territorio, fatta di sempre nuovi edifici e di pannelli fotovoltaici nei campi.

Il blog è ancora questo.

Nel frattempo, però, mi sono concesso il lusso di rallentare, inoltre ho scritto due libri di poesie e mi sono convinto che la lotta passi anche di lì, attraverso la cultura nel senso più ampio del termine, e la poesia come forma personale.

Mostrare le cose in versi mette al riparo dal pregiudizio di chi etichetta un interlocutore a seconda dell’appartenenza politica, della reputazione di un blog, di categorie che per forza di cose sono troppo strette per comprendere interamente un essere umano.

Mostrare le cose in versi è un toccare corde nascoste, suscitare sentimenti, sbattere in faccia la verità e imporre un impegno di riflessione, che magari porterà a conclusioni opposte a quelle immaginate, ma almeno si sarà accettato di confrontarsi e riflettere.

Tutto questo per dire che, insieme alle cose consuete, queste pagine ospiteranno molta letteratura, testi miei e altrui, e consigli di lettura, iniziative artistiche, eccetera. Le «categorie» del blog saranno ridotte di numero e rimaneggiate, non cercherò più di inseguire le notizie come se fossi la redazione di un quotidiano.

Gli obiettivi sono quelli di sempre – pensare un mondo, se possibile, migliore – gli strumenti vanno affinati man mano.

Concludo con una nuova petizione online, per applicare realmente l’articolo 11 della nostra Costituzione, quello che «L’Italia ripudia la guerra», oppure deporre ogni ipocrisia e ribattezzare il Ministero della Difesa «Ministero della Guerra». Perché in fondo è con le parole che ci fregano. Invito tutte e tutti a firmare la petizione QUI (ci avevo già provato tempo fa; questa è nuova, la piattaforma è cambiata: firmate!).

Per chi volesse contattarmi, l’indirizzo e-mail è mariobadino[chiocciola]gmail.com

Pubblico di seguito la mia poesia «Il selfie col cavallo».

Il selfie col cavallo

«È vuoto!»
Il lido è vuoto, finalmente:
non c’è più traccia delle navi.
Oltre le porte, adesso spalancate,
vi riversate oziosi sulla spiaggia
e, sulla spiaggia, nei vostri costumi
colorati, vi fate i selfie
col cavallo, il pegno che gli achei
hanno pagato a Poseidone
per essere sicuri del buon viaggio.
Cassandra obietta trasognata
che non bisogna credere al nemico,
ma dopo cede e pubblica la foto
nella sua pagina ufficiale,
seimila like, CassandraProfezie:

«Io vedo, se la statua non bruciamo»,
commenta, battagliera, in uno stato,
«il fuoco che si abbatte sulle case,
i figli per la strada massacrati
dalle armi, intelligenti, dei soldati».

Ma gracchia inutilmente la cornacchia,
e già il cavallo viene trasportato
dentro le mura, al centro della piazza.
La festa intanto ferve per le strade
e il monito severo di Cassandra
si perde tra i «Mi piace» ed i commenti;
rimangono soltanto vino e danze,
finché, esausti, ritornate a casa
e finalmente tutto dorme e tace.

Allora nell’addome del cavallo
s’apre una porta e scendono i soldati.
Disciplinati, vanno ad ammazzare
uomini e bimbi e a rapinar le donne,
perché le condizioni sian create
per una pace duratura, vera.
Scoppiano in cielo i fuochi d’artificio
per dare il benvenuto al nuovo Stato
voluto dai signori della guerra:
brucia la gente con le case e Troia
è un rogo gigantesco, i cui bagliori
si mescolano ai raggi del mattino.

[Mario Badino, «Barricate!», Edizioni END, p. 49]

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Applicate l’art. 11 della Costituzione (o ripristinate il vecchio nome “Ministero della Guerra”) – Firma la mia petizione su Change.org)

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Pubblico di seguito il testo della mia petizione online «Applicate l’art. 11 della Costituzione (o ripristinate il vecchio nome “Ministero della Guerra”)», indirizzata al Presidente della Repubblica, al Parlamento italiano, al Governo italiano e al Ministero della Difesa, e pubblicata su Change.org [puoi firmare QUI].

Si tratta di una petizione nuova (perciò non l’avete ancora firmata), anche se in realtà è un secondo tentativo.

In tempi di guerra, credo che il non prendere posizione sia un “atto” di complicità. Per questo invito tutte e tutti a firmare, almeno per sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema che non può essere ignorato.

Il testo della petizione:

Al Presidente della Repubblica, al Parlamento italiano, al Governo italiano e al Ministero della Difesa

Applicate l’art. 11 della Costituzione (o ripristinate il vecchio nome “Ministero della Guerra”)

Negli ultimi anni l’Italia è stata impegnata in scenari di guerra molto lontani dai propri confini. Tali missioni sono state giustificate talvolta con l’avallo dell’ONU, talaltra definendole «umanitarie» o «di pace».

Portare la pace con le armi, tuttavia, è un’idea un po’ strana della pace.

Degli ultimi conflitti hanno fatto le spese migliaia di civili innocenti, i cosiddetti «effetti collaterali» delle armi “intelligenti” di cui gli eserciti occidentali sono dotati. Armi che hanno colpito in Iraq, in Afghanistan e in Libia, per non citare che i principali fronti dell’intervento italiano.

Armi che continuano a colpire, in quella che è stata definita «guerra permanente», che oggi si rivolge alla Siria e al cosiddetto Stato islamico, e, se non prevarrà il buon senso, verso la Russia.

Armi che i contingenti occidentali hanno potuto utilizzare anche grazie all’appoggio italiano, sia per il ruolo logistico svolto dalla Penisola, sia per l’attività di individuazione degli obiettivi da colpire che ufficiali italiani hanno condotto insieme a ufficiali alleati, sia per l’aver permesso ad altri eserciti di spostare i propri soldati nelle zone di combattimento, sostituendoli nelle operazioni di pattugliamento. Non da ultimo, è da considerare il ruolo delle aziende italiane, eventualmente partecipate dallo Stato, nella produzione e vendita di armi.

Alle vittime nei Paesi teatro delle operazioni militari sono da sommare ovviamente i caduti italiani, che dimostrano, più di ogni parola, che l’Italia è in guerra.

Nel frattempo, le strade delle nostre città si sono riempite di blindati in esercitazione, che sfilano davanti a bambini e ragazzi, e nei cieli di alcune regioni è consuetudine sentire sfrecciare i caccia bombardieri.

L’Italia, infine, si sta attrezzando per le guerre future, acquistando numerosi F35 americani, apparecchi cui difficilmente può essere attribuita una finalità difensiva.

I firmatari di questa petizione chiedono alle Istituzioni italiane di applicare fino in fondo l’articolo 11 della Costituzione italiana, che «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

In alternativa, si fa richiesta a dette Istituzioni di ripristinare la denominazione «Ministero della Guerra», facendo così chiarezza sulla reale natura reale delle «missioni» italiane nel mondo.

Puoi firmare QUI.

>>> L’immagine di questo articolo è un fotomontaggio di Paolo Rey, a partire da un disegno di Danilo Cavallo.

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Il tempo è poco. Rallentiamo!

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Ma allora il blog è vivo! Un nuovo articolo!

Questa, suppongo, sarà la reazione di chi anticamente si era abbonato ai feed (si dice così?) di questo blog e, da tempo immemore, non ha più avuto notifiche.

Sì, il blog è vivo.

Il tempo è poco, ma il blog c’è ancora, solo subirà una ristrutturazione inevitabile, considerate le vicende personali del suo autore.

Quali vicende? Di che stai parlando?

domanderà il suddetto abbonato.

Mi riferisco ai casi della vita, quelli che ti tolgono tempo per le cose, e un giorno sei giovane e scapestrato e puoi sottrarre ore alle tue giornate per scrivere e limare gli articoli, per informarti come si deve – innanzitutto -, trovare i dati da citare e lanciarti in pseudo reportage, anche fotografici, della continua cementificazione del territorio in cui vivi, ad esempio, o dell’insensatezza della “civiltà” dei consumi.

Un giorno sei scapestrato, dicevo, e un altro giorno ti ritrovi adulto, sei diventato padre di famiglia, hai due figli e altre responsabilità, ti senti sempre sospeso tra impegni famigliari, tempo che vorresti trattenere per te, e poi il lavoro, la burocrazia, Facebook (ci sono le sere in cui non vuoi arrenderti all’ineluttabilità di non potere ancora cambiare il mondo e speri di farlo online, con l’unico mezzo che le tue forze ridotte ancora ti consentono: il social, perché sei troppo stanco anche per pensare un articolo da blog).

E poi nel frattempo hai deciso che sei poeta, hai pubblicato due libri e ti sbatti per promuoverli. Non ci guadagni una lira, però è un po’ come per i figli, gli auguri successo, ti fa piacere saperli apprezzati, vederli citati; di più: hai accettato che il tuo rifugio “segreto” è il palco, che sei un istrione, che ami esibirti.

Allora ti convinci di una cosa che, dopotutto, potrebbe essere vera. Che con la poesia stai portando avanti lo stesso la tua battaglia. Che i versi smascherano l’ipocrisia e le ingiustizie del potere meglio di un saggio o di un blog, perché raggiungono chi legge e chi ti ascolta più in profondità rispetto alla prosa economica e a quella politica. Hai capito che presentandosi come un essere umano ci sono più probabilità di essere capiti che dicendo destra o sinistra in un periodo in cui la sinistra e la destra sono pericolose caricature di se stesse (la “mia” sinistra, almeno, che certo nulla c’entra con le riforme in atto o con le criminali politiche economiche portate avanti dal Pd; la destra, per come la vedo, è stata pericolosa sempre).

E allora, forse, la strada è proprio questa: trasformare il blog in un contenitore per le mie poesie – e qualche poesia altrui – e per iniziative politiche che vadano oltre il tentativo, ormai impossibile, di stare dietro all’agenda di Palazzo Chigi o degli atri centri di potere. Per quello, del resto, ci sono – o sarebbe bene che ci fossero – i giornali.

Il tempo è poco? Io mi prendo il diritto di rallentare, di pubblicare solo ciò che voglio, di consigliare a tutti la lettura di qualche libro, ad esempio «Cade la Terra» di Carmen Pellegrino, e «Terracarne», che sto leggendo adesso, di Franco Arminio. La terra compare in entrambi i titoli. La carne è un altro termine che mi interessa molto, sa di desiderio di appartenenza a una comunità diversa da quella dei salotti televisivi, dei centri commerciali, dei Mc Donald’s.

Proporrò azioni di disobbedienza civile (quella di oggi è proprio la lettura di un libro).

Proporrò testi, versi, petizioni, racconti, riprenderò – lo spero – a camminare da un paese all’altro e, come «camminante» (sì, il nome l’ho preso da una canzone di Capossela), racconterò in queste pagine ciò che vedo.

Aggiornerò qualche blog in meno, nel frattempo. Perché un sito promozionale per i miei libri, Cianfrusaglia, uno per le poesie nuove, ZiaPoe, uno politico, questo, e qualche altro spazio online sono davvero troppi.

Ora la finisco. A presto.

P.S. Il 25 febbraio è stato il compleanno del blog. Manco l’ho detto, quest’anno.

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Io non sono in guerra – di Hervé Kempf (Reporterre)

Continuo a rimandare un post più articolato sui fatti di Parigi, sul JeSuisCharlie, sulla libertà di espressione.

Nel frattempo, ho tradotto un editoriale di Hervé Kempf, tratto dal sito Reporterre, che ho trovato molto interessante. L’articolo è condivisibile secondo quanto previsto dalla licenza CreativeCommons attribuzione-non commerciale-nessuna modifica.

QUI l’originale in francese.

Io non sono in guerra
di Hervé  Kempf (Reporterre)

mercoledì 14 gennaio 2015

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Dipenderà senz’altro dall’essere cresciuto (tra le altre letture) a Charlie Hebdo, all’epoca in cui il giornale non era ossessionato dall’islam, ma l’immagine dell’Assemblée intenta a cantare con voce virile La Marsigliese per spargere «un sangue impuro», l’applauso fragoroso della polizia, la lettura del discorso di Manuel Valls costellato di «barbarie», «guerra» e altre misure eccezionali contro il terrorismo, tutto ciò suscita un sentimento a metà strada tra il disagio e il conato di vomito. Come se la classe politica e mediatica rubasse l’espressione popolare di domenica, che metteva innanzitutto in primo piano la libertà di espressione, le matite, la parola.

Tutte quelle persone, domenica, volevano soltanto poliziotti, soldati per le strade, ordine, autorità, epurazione, guerra? Bene, se fosse così non sarei d’accordo con loro.

Malessere immenso nel non sentire quasi altro se non le parole polizia, caccia all’uomo, informazioni, prigione, isolamento, protezione. Malessere immenso nel vedere diecimila soldati dispiegati, oltre a quelli che girano per le strade già da qualche anno. Non si trovano lì per proteggere nessuno – hanno forse impedito gli omicidi del 7 gennaio? – ma per abituarci a trovare normale che ci siano soldati per strada. Come in uno… Stato militare, uno Stato di polizia.

Malessere immenso per l’assenza quasi totale di riflessione, nel senso dell’esame di sé. Come se non si trattasse che di un pericolo esterno, straniero, indicibile. Malessere immenso di fronte all’incapacità di formulare questa semplice domanda: che cosa ha condotto Kouachi e Coulibaly a commettere simili atti? L’incapacità di ricordare due semplici fatti: quegli uomini erano francesi. Sono nati dal seno di questa nazione ora celebrata con parole di vendetta. E poi quest’altro fatto semplice, che ha ricordato Stéphane Lavignotte: «Gli assassini hanno fatto qualcosa di inumano, di mostruoso. Ma restano degli umani». Sì, sono umani, e non si sente quasi nulla, in questi giorni, che ci aiuti a riflettere su cosa spinga degli umani a commettere simili atti.

Io non so. Ma so che non sapremo mai se, ossessionati dai poliziotti, la guerre, le prigioni, non parleremo di scuole, di città, cultura. Di radici, di sradicamento, esclusione, solitudine, legami sociali.

E quando sento i politici parlare all’unanimità di guerra – Manuel Valls: «La Francia è in guerra contro il terrorismo, lo jihadismo e l’islamismo radicale» – ricordo che c’è un’altra guerra, descritta senza imbellettamenti dal miliardario Warren Buffet: «Sta andando tutto molto bene per i ricchi di questo Paese, non siamo stati mai così ricchi. È una guerra di classe, ed è la mia classe che sta vincendo». Davvero non c’è nulla, neanche un sottile collegamento tra il crimine di Kouachi e i politici sostenuti da Bolloré, Arnault, Pinault, Dassault, Mulliez? Nessuna relazione tra la crescita dell’«islamismo radicale» e il fatto che 85 persone possiedano tanto quanto tre miliardi di altri esseri umani? Nessun collegamento con il perseguimento ostinato delle politiche neoliberiste e lo stato di abbandono della scuola, dei sistemi sanitari, dei quartieri?

È in corso una guerra dei ricchi contro il resto della popolazione. E bisogna formulare la domanda sconveniente se una parte della popolazione non stia rispondendo in una maniera non prevista dai trattati rivoluzionari.

E poi, sentire quei deputati bianchi, maschi, francesi, comportarsi come se ci avessero dichiarato la guerra. Ma, alla fine, chi è che fa la guerra a chi? Chi ha iniziato questo gioco folle? Chi ha truppe in Mali, nell’Africa centrale, in Iraq? Chi è stato zitto quando lo Stato di Israele ha condotto una guerra spietata a Gaza, lo scorso luglio, uccidendo 1800 palestinesi, il 65% dei quali composto da civili? Chi è intervenuto in Libia nel 2011? E quante persone sono state uccise dai droni di Obama? Eccetera eccetera in questo elenco infinito: non dobbiamo qui, in poche righe, stabilire colpevoli e vittime, ma ricordare che è impossibile determinare chi ha ragione e chi ha torto in guerra, perché i torti sono condivisi.

E dunque bisogna poter dire: no, io non sono in guerra; no, io non penso che il problema islamico sia il più serio di quest’epoca; no, io non ammetto un’unanimità volta a coprire una stupefacente ineguaglianza; no, io non penso che abbiamo bisogno di più poliziotti e prigioni.

E sì, posso dire: Vogliamo la pace; pensiamo che il problema più grave oggi è la crisi ecologica; ritroveremo l’unità solo quando avremo ridotto le disuguaglianze; abbiamo bisogno di più artisti e più scuole.

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Poche parole

Poche parole, e spero di mantenere il proposito.

Rompo il lungo silenzio soprattutto per un malinteso “senso del dovere”. Di fronte all’attentato di Parigi, avverto l’urgenza di dire e, contemporaneamente, mi vergogno per i miei balbettii, che non potranno in nessun caso sfuggire alla retorica.

Solo poche considerazioni, a ruota libera, rimandando eventualmente a un approfondimento successivo. E perdonate la fiera delle banalità.

1) Non dovrebbe esserci bisogno di dire che condanno l’accaduto. Doverlo ribadire è un segno di come l’umanità è ridotta, se l’inaccettabilità dell’omicidio non può essere sottintesa.

2) Il nostro «Je suis Charlie Hebdo», che oggi ci accomuna tutti, non equivale a un impegno costante – nella vita normale – a difendere concretamente la libertà di parola, ancor prima che di satira, dagli aspiranti censori di tutti gli schieramenti. Abbiamo davvero bisogno di fatti eclatanti per poterci schierare in difesa di diritti dei quali ci rendiamo conto soltanto sotto la minaccia di un’arma? Abbiamo qualcosa da dire ai parlamentari liberticidi che oggi “sono”, come tutti noi, «Charlie Hebdo»?

3) Non ho apprezzato molti degli articoli che ho letto, i quali, magari senza proporre direttamente la strumentalizzazione dell’accaduto in chiave anti migratoria, si sono comunque affrettati a citare l’immigrazione come brodo di coltura dei fanatismi e terrorismi islamici, quando sembra appurato – dalla polizia, dalla logica, dal livello di organizzazione degli assassini – che nel caso specifico i migranti non c’entrano nulla.

4) Le responsabilità della strage sono, come sempre, individuali e ricadono sugli esecutori, e sui loro mandanti. Chi siano però i mandanti è un fattore cruciale. Non nutro alcuna speranza, tuttavia, nel fatto che una verità credibile possa essere ricostruita. Quand’anche si trattasse unicamente dell’azione di folli, non possiamo – nel nostro stesso interesse di abitanti dell’occidente – non riconoscere la quantità di odio che suscitiamo nelle vittime delle nostre politiche di guerra, di sfruttamento, di dominio.

5) Le conseguenze della strage rischiano di essere un’ulteriore restrizione della libertà di tutti, spacciate come l’unica maniera per tutelare la «sicurezza» del cittadino, e naturalmente si prospettano tempi ancora più duri per le popolazioni dei Paesi mediorientali, che scontano l’imperdonabile peccato di essere nati dalla parte sbagliata del mondo e il diritto alla «sicurezza», loro, non ce l’hanno.

>>> Questo pomeriggio ho visto volare tre caccia bombardieri a bassa quota sul cielo di Mesagne, Puglia. Fanno effetto.

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