E adesso?

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Alle colleghe e ai colleghi insegnanti, quelle e quelli contrari alla riforma della scuola e che hanno votato piddì. Che si sono candidati con il piddì. Che sono stati eletti nei consigli comunali con le insegne del piddì.

Che cosa pensate della riforma della scuola?

A tutte le persone che ripudiano la guerra, contestano l’uso dei soldi pubblici per comprare cacciabombardieri o fare missioni militari nel mondo e che hanno votato piddì. Che si sono candidati con il piddì. Che sono stati eletti nei consigli comunali con le insegne del piddì.

Che cosa pensate della politica estera italiana?

A tutte le persone che non accetterebbero limitazioni alla propria libertà, e che di fronte a una legge elettorale che impone il governo di una minoranza sulla maggioranza del Paese, togliendo potere al Parlamento nel nome del risparmio hanno votato piddì. Che si sono candidati con il piddì. Che sono stati eletti nei consigli comunali con le insegne del piddì.

Che cosa pensate del nuovo sistema elettorale? Delle riforme istituzionali? E della vostra libertà?

Comunque la pensiate sulle varie cose, un poco di coerenza non guasterebbe.

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Di guerre, egoismo, bimbi nei trolley

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Il dito indica la luna e lo sciocco guarda il dito. E il tempo che passa non insegna nulla. L’ho scritto altrove: l’immigrazione “illegale” via mare non va combattuta affondando i barconi, e non perché non si riuscirà mai a eliminarli tutti, ma per una ragione di semplice umanità.

Chi scappa dalla fame e dalla guerra deve poter scappare: l’immigrazione “illegale” va legalizzata; l’immigrazione “clandestina” va palesata, anche – ma non solo – in considerazione del ruolo non secondario dei Paesi ricchi nello sfruttare e nel bombardare i Paesi poveri.

Allo stesso modo, se avete finito di indignarvi con la «marocchina» che ha messo un bambino in un trolley per fargli raggiungere la Spagna di nascosto, potrete forse considerare l’ingiustizia delle leggi europee sull’immigrazione, che impediscono a un bambino di 8 anni di ricongiungersi alla madre, legalmente emigrata in un altro Stato.

Ci vogliono le regole, certo, ma per averle è necessario rendere legale lo spostamento, l’arrivo, il transito e la permanenza dei migranti, non affannarsi a chiudere le porte in faccia ai più disperati nel nome dell’egoismo e della guerra fra poveri, mentre i mafiosi ingrassano sulla vita di umani che non potranno mai svolgere un lavoro legale perché la legge (la Bossi-Fini, in Italia) ha trasformato essi stessi in esseri “illegali”.

Ma quello che mi disgusta profondamente sono le reazioni della “gente”, di quella parte dell’opinione pubblica (chiamiamola così) la cui pancia, solleticata da mille populismi, esprime i brontolii più sordi e scurrili nei commenti internet, in quelle fogne a rete aperta che troppo spesso sono i social, quelli che in fondo sono fieri di essere cattivi, perché con il buonismo non si va da nessuna parte, quelli che pensano di votare Salvini non dico nonostante, ma proprio in virtù delle cose che dice, quelli che lamentano l’invasione “straniera” di una “Patria” recentemente riscoperta con frasi dall’ortografia incerta: «l’oro non sono come noi», ad esempio.

Il governo italiano ha chiesto alla Valle d’Aosta di accogliere 79 rifugiati, il presidente della regione, Augusto Rollandin, ha risposto che non c’è posto sufficiente. Dovendone garantire la «dignità umana», infatti, non è stato possibile trovare posto, in 74 comuni, per 79 esseri umani. La storia è nota e arcinota. Per fondata o opportunistica che sia la risposta del presidente della regione, io resto scosso dai commenti di chi, in rete, ha esclamato «Finalmente!», come se negare l’ospitalità a chi, oltre ad averne bisogno, ne avrebbe anche il diritto, fosse un semplice «mostrare le palle», in questa simpatica guerra di civiltà che ci vuole nei panni degli evoluti, mentre scarichiamo l’ennesima applicazione per il cellulare e clicchiamo mi piace ai post di Salvini.

C’è un filo nero – nero nero, ma voi metteteci il colore che vi pare, l’importante è che ci capiamo – che lega avvenimenti fra loro diversissimi, come la crisi economica, vera e contemporaneamente suscitata, il timore per il futuro, l’egoismo che si traduce sempre più spesso in nazionalismo, xenofobia, razzismo. C’è un filo nero che avvolge i nobel per la pace assegnati a presidenti guerrafondai come Obama (ah, bè, ma quello era preventivo) o a istituzioni come l’Unione Europea, che sacrifica i propri cittadini sull’altare del liberismo e insieme agli USA prepara la guerra mondiale (fredda? Sarebbe già qualcosa) contro la Russia, prendendo le parti del governo golpista ucraino, responsabile di orribili crimini di guerra contro la popolazione russofona e sostenuto da volontari dichiaratamente neonazisti provenienti da tutta Europa. Un’Europa che accetta l’equiparazione da parte dello Stato ucraino tra il nazismo e il comunismo, tanto che gli alleati ucraini delle SS nella seconda guerra mondiale sono stati messi recentemente tra i “buoni” dagli storici ucraini, perché distintisi nella lotta contro il comunismo.

Revisionismo, violenza, egoismo. Si tratta di fatti molto gravi, di una deformazione continua della realtà, la stessa per cui i palestinesi sono indicati come terroristi e i governi, sempre più estremisti, di Tel Aviv, guerrafondai e in possesso di armi micidiali, sono indicati come le vittime, in un conflitto che continuano ad alimentare sottraendo sempre nuove terre ai palestinesi.

E noi siamo qui, col nostro smartphone in mano, a trastullarci con Candy Crush Saga o altre amenità, e quando decidiamo di informarci siamo alle prese con grandi gruppi editoriali padronali e giornalisti embedded, che ci convincono di essere informati, e magari anche di avere delle idee.

Buon fine settimana a tutt*.

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Io, ad esempio

ulivi

Io, ad esempio, non andrò all’Expo delle multinazionali che affamano il pianeta o lo nutrono di schifezze.

Io, ad esempio, ho appena firmato una petizione contro il proliferare dell’olio di palma e invito tutti, per quel che costa una firma, a fare altrettanto.

Io, ad esempio, trovo assurdo che la Regione Lombardia inviti gli insegnanti a portare gli alunni da Mc Donald’s, dove «il gelato è gratis».

Io, ad esempio, trovo assurdo che la scuola media in cui insegno tolleri i distributori di merendine e altre porcherie nei propri corridoi, o che non possa farne a meno per ragioni economiche.

Io, ad esempio, non credo nella pessima scuola immaginata da Renzi e Confindustria e martedì 5 sciopererò contro il governo.

Io, ad esempio, mi voglio perdere tra gli ulivi, oggi minacciati dalla Xylella e dall’uomo.

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Il villaggio abbandonato di Barmaz

Ripubblico un articolo del maggio 2007. Si tratta di una mia passeggiata al villaggio abbandonato di Barmaz, appoggiato sul fianco della montagna, al sole, tra i paesi di Chambave e Châtillon, in Valle d’Aosta. L’articolo fa parte della sezione Camminante, della quale parlo QUI.

Barmaz


Più che un sentiero
è una traccia, quella che sale al villaggio, un passaggio appena accennato, coperto talora, e nascosto dall’erba. Poi la via diventa più nitida e in terra compare una rozza pavimentazione di pietra. Sul lato a monte del sentiero, inizia una serie di muriccioli a secco, cui sembra spetti il compito (davvero sproporzionato per così piccole forze) di tener su la montagna.

Le case abbandonate esercitano un fascino impenetrabile che, a volte, si traduce in paura. Paura dei crolli, spavento delle vipere e timori meno razionali, di spiriti in attesa fra le pietre, ricordi conservati nelle mura e nei viottoli di luoghi un tempo vivi, ormai disabitati.

Le costruzioni si tengono addossate l’una all’altra, come a difendersi dal freddo, e procedono in salita, lungo il fianco della montagna. L’erba ha invaso tutto; un albero è cresciuto in mezzo alle case. Osservo una cimice dei campi aggrappata a una pianta d’assenzio, poi alzo lo sguardo ad abbracciare il piccolo paese. A sinistra, un edificio ancora in buone condizioni conserva intatto il tetto di lose e il fienile, un soppalco esterno, di legno, con la scala a pioli ancora appoggiata e, dentro, un po’ di fieno. Più a destra, proprio nel centro del mio campo visivo, i resti di una casa completamente diroccata. Tra i due edifici si apre il viottolo che, poco più in su, con una curva, conduce in centro al villaggio.

Mi giro verso valle e, per un attimo, ammiro il panorama che altri occhi, un tempo, dovevano osservare quotidianamente: la Dora, i prati del fondovalle, i boschi di castagni e, più oltre, la montagna, dietro la quale il cielo oggi è appesantito di grossi nuvoloni bianchi. M’ingegno per guardare con gli occhi di chi fu, trascurando così la statale e l’autostrada, concentrandomi invece sui boschi, sul filo di fumo che s’alza da un paese lontano.

Faccio un giro tra le case. Breve. Mi sento inquieto, è come se dai vani delle porte dovesse sgusciare fuori all’improvviso qualcuno, uomo o spirito. Del resto, i paesi abbandonati non lo sono mai del tutto: sotto il fienile c’è una bottiglia vuota, dimenticata; più in là trovo un ombrello.

Ma so che il mio stato d’animo è condizionato da qualcosa che è accaduto prima, mentre salivo lungo il sentiero che porta al villaggio. Dopo una svolta, all’improvviso, ho visto in terra un uomo. Girato su un fianco, sembrava addormentato. Era, però, completamente immobile, tanto che dapprincipio ho pensato a un cadavere. Ho tirato dritto, dicendomi che non era possibile. Tornando indietro, avrei verificato se il corpo si era mosso o meno. Non sapevo se dovevo chiamarlo, se dovevo toccarlo. Trovavo strano che dormisse coricato proprio sul ciglio del sentiero, anche se quel sentiero non è molto frequentato. E poi era davvero immobile. Così, durante la visita, il mio umore è stato sempre teso.

Dall’aspetto, l’uomo poteva essere un immigrato. Chissà, magari un clandestino che aveva scelto quelle case per ripararsi dalla notte. Ho immaginato la sua vita: la ricerca di un lavoro, il bisogno di un posto in cui andare… Ormai un alone fantastico aveva circondato il piccolo villaggio. Per un istante ho visto le pietre rianimarsi, trasformando quelle rovine in una sorta di città libera, il rifugio sicuro di molti irregolari.

Quando sono ridisceso, tossendo e facendo rumore per annunciare il mio passaggio, l’uomo non c’era più. Era scappato, spaventato dalla mia presenza? Rimasto infastidito perché avevo violato la sua solitudine? In ogni caso era vivo, e questo mi pareva un buon inizio.

Appendice poetica.

Delle poesie che seguono, entrambe mie, la prima precede il testo riportato qui sopra, ed è stata inserita nella raccolta «Cianfrusaglia» (Edizioni END, 2013); la seconda è invece il tentativo di raccontare nuovamente il villaggio di Barmaz attraverso i versi, ed contenuta in «Barricate!» (END, 2014).

Lo straniero

Ragioni non ne avete per fermarmi:
perché impedirmi il passo?
O negherete a chi cammina
di mettere la terra sotto i piedi?
Esito ancora un poco,
poi mi decido e varco la frontiera;
forse per ciò mi verrà meno l’aria?
o il vostro cibo non mi sazierà la bocca?
Non è vostra la scelta:
percorrerò queste strade ordinate,
fatte di passi, d’asfalto, di case,
mangerò i piatti della tradizione
e amerò le vostre donne, alla fine,
se loro lo vorranno.
«Di chi sono, domando, queste terre?»
E di rimando voi mi rispondete:
le terre sono vostre, e ve le lascio;
ma di chi è la strada?
Come puoi dire: «Non è tuo»
del metro su cui appoggio il passo,
del sasso dove poso il culo?
Sono padrone almeno del mio corpo,
di tutto ciò che abbracciano i miei occhi.

Mi tiro su dall’erba del giaciglio,
fresca la mente e tersa
come i campi gualciti del mattino.

Barmaz

Muri, non mura,
che tacciono e dicono il tempo
vuoto di passi, di voci,
la vita quotidiana
portata avanti tra le pietre,
pareti che contornano
strade fatte non per partire.

Il lavoro, il paese;
davanti, la montagna eterna.

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Affondare i barconi

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Affondare i barconi – ci dicono – è la nuova frontiera («frontiera»: tutto un programma) del salvataggio in mare. Affondare i barconi vuoti, precisano; prima che partano. Utilizzando i droni, magari, i velivoli senza pilota, armati, sopra i cieli della Libia. E poi si stupiscono del fatto che la Liba storca il naso all’idea di vedere bombardato il proprio territorio nazionale, sia pure al nobile fine di colpire gli «scafisti», i nuovi mostri da dare in pasto all’opinione pubblica internazionale per placarne la fame.

Voi ve l’immaginate la Libia chiedere al nostro Paese il permesso di bombardare quegli obiettivi in Italia in cui si presume si annidino i foreign fighters dell’Isis? E sareste tranquilli per l’incolumità vostra e dei vostri figli nel sapere che la morte può piovere dall’alto, in qualsiasi momento, come da anni accade a Gaza, con gli «omicidi mirati» di uomini di Hamas da parte delle forze israeliane? O come succede nei luoghi teatro delle guerre «umanitarie», come in Iraq dove – lo ha confessato lo stesso presidente americano, spiegando le dinamiche dell’uccisione dell’italiano Giovanni Lo Porto – non è sempre possibile sapere quante e quali persone si trovino nel punto scelto come bersaglio?

Eppure, no: di fronte alla tragedia senza fine delle migliaia di esseri umani che affogano nel «nostro» mare siamo capaci di immaginare soltanto soluzioni d’assalto, senza chiederci nemmeno per un istante come mai quelle persone escano in mare a sfidare la sorte su bagnarole che hanno più probabilità di affondare che di arrivare a destinazione.

Perché il problema non è soltanto il fatto che colpire gli scafisti avrà per inevitabile conseguenza il consueto corredo di «vittime collaterali», gli innocenti uccisi «per errore», a migliaia, nelle tante «missioni di pace» degli ultimi decenni. Il problema della guerra agli scafisti, o del tanto raccomandato blocco navale, è che, in assenza di cambiamenti legislativi significativi, quelle stesse persone che oggi accettano di rischiare tutto pur di sottrarsi a situazioni insostenibili saranno costrette a restare dove si trovano, morendo non più affogate in mare, ma di fame, di sete, di guerra. Delle guerre che noi occidentali alimentiamo da anni. Dei fondamentalismi di cui abbiamo bisogno per giustificare il nostro intervento. Del saccheggio delle ricchezze del sud del mondo da parte di un nord già ricco.

E davvero non riesco a immaginarmi povero, perseguitato, affamato, o inerme sotto le bombe senza pensare che certo anch’io farei qualcosa, qualunque cosa, per portare in salvo me stesso, o la mia famiglia. E non posso accettare il fatto che non avrei il diritto di farlo solo perché per farlo dovrei oltrepassare la frontiera di un altro Stato.

Commentatori di Facebook, che oggi vi scagliate contro noi «buonisti», che in fondo buonisti non siamo per niente (non è «buonismo» cercare di rimanere umani, e soprattutto razionali), adesso prendete in mano il telefono e chiamatelo, il vostro parente, o amico, che è dovuto partire per la Gran Bretagna, gli Stati Uniti o il Canada in cerca di un impiego, e gridatelo forte anche a lui che è un farabutto, che è andato a rubare il lavoro di britannici, statunitensi e canadesi, che queste cose non si fanno: ognuno a casa propria, che diamine! Chiamatelo subito, e esprimetegli lo schifo che vi fa.

Già, però lui, il vostro parente, è partito legalmente: mica è «clandestino». Col che intendete dire che lui non ruba, non spaccia, non svaligia gli appartamenti. Non fa quelle cose che attribuite agli «irregolari». Quelle cose che gli irregolari talvolta fanno, innanzitutto – sia detto senza voler giustificare nessuno – per l’impossibilità di trovare un’occupazione legale. Dovreste quindi ammettere che il problema non sono gli irregolari, ma l’«irregolarità».

E allora che aspettate a chiedere l’abrogazione della Bossi-Fini, la più grande fabbrica d’irregolarità d’Italia, la legge che di fatto impedisce a chiunque sia sbarcato clandestinamente di legalizzare la propria presenza, costringendolo – se vorrà mangiare – ad accettare lavori in nero, senza diritti, ai margini delll’onestà, o direttamente a trasformarsi in manovalanza per la criminalità organizzata?

Che cosa aspettate a chiedere la legalizzazione dei flussi migratori, fenomeni impossibili da bloccare, date le dinamiche di disperazione che li governano e la quantità delle persone coinvolte? Solo attraverso la possibilità, data al migrante, di giungere sano e salvo in Europa, e di impiegare le proprie capacità in un lavoro regolare sarà possibile procedere alla sua integrazione, trasformando quella che oggi è considerata una «minaccia» nell’opportunità che ancora non si vuol vedere.

Ci sarebbe ancora da rimuovere le cause che spingono tanta gente a partire («Aiutiamoli a casa loro»: non lo ripetete sempre?), ma per farlo occorre accettare l’dea di farci da parte, d’interrompere lo sfruttamento, la crazione di mostri da combattere per avere una scusa per combattere, ecc. Forse questo è un po’ più difficile.

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Lettera aperta sulla stazione del “trenino di Cogne”

Al sindaco di Cogne, Franco ALLERA
e, per conoscenza, al Consiglio comunale di Cogne e all’Assessore alle Opere Pubbliche della Regione Autonoma Valle d’Aosta, Mauro BACCEGA

Gentile signor Sindaco,

scrivo questa lettera aperta come accompagnamento alle mie osservazioni sulla progettata collocazione della nuova caserma dei carabinieri di Cogne nei locali della stazione ferroviaria, che ho provveduto a inviarle con raccomandata.

Tali osservazioni, mi hanno detto, potranno forse contribuire a far cambiare idea all’amministrazione, e diventeranno necessarie nel caso qualcuno voglia sobbarcarsi le spese di un ricorso amministrativo contro la decisione in oggetto.

Io che frequento Cogne da quando ero bambino non voglio pensare che questa sia la via da perseguire per dialogare con l’amministrazione pubblica e spero che il punto di vista di chi vuole tutelare un bene comune unico per valore storico e culturale – la ferrovia del Drinc nella sua interezza e il suo ruolo specifico all’interno del più complesso sistema minerario valdostano – sarà preso nella dovuta considerazione.

Negli ultimi anni i cittadini di Cogne, quelli della Valle d’Aosta e anche – attraverso il censimento dei Luoghi del Cuore del FAI – delle altre regioni d’Italia hanno espresso il proprio affetto per un’opera ingegneristica che fa parte della storia della Valle. Posta l’effettiva utilità di una caserma dei carabinieri, per quale ragione si è voluta scegliere proprio questa collocazione?

Ci sono scelte dalle quali non si può fare ritorno.

Indipendentemente dall’uso che della stazione e della ferrovia si potrebbe fare in futuro, conviene oggi mantenerne l’integrità, in considerazione del loro significato per la memoria del luogo e dei suoi abitanti.

Esistono altri edifici, nel territorio comunale, nei quali si potrebbe realizzare la caserma, e, anche a voler utilizzare il patrimonio immobiliare costituito dal villaggio dei minatori, è possibile individuare strutture meno peculiari per forma e funzione, senza precludere per il futuro la possibilità di un recupero complessivo, a fini turistici, museali e culturali della ferrovia del Drinc e dell’intera filiera valdostana dell’acciaio.

Spero dunque che il Comune sappia ascoltare la voce di quei cittadini che non vogliono lo snaturamento della stazione di partenza della linea Cogne-Acque Fredde: è così che concepisco la buona politica, quella che forse è ancora possibile, almeno a livello locale. In fondo, non si tratta né di votare il completamento dei lavori del “trenino di Cogne”, né di rinunciare alla caserma, ma più semplicemente di scegliere un altro edificio per ospitare i carabinieri, preservando per le prossime generazioni un bene comune insostituibile.

Cordiali saluti,

Mario Badino

>>> La presente è da intendersi come lettera aperta; copia di essa è stata inviata ai media valdostani e il testo è disponibile online all’indirizzo http://mariobadino.noblogs.org/.

>>> Pubblico di seguito le mie osservazioni al Comune di Cogne

Al signor Sindaco di Cogne, Geom. Franco ALLERA
Comune di Cogne
SEDE
Via Bourgeois, 38 11012 COGNE

All’Assessore Opere Pubbliche
del Suolo ed Edilizia Residenziale Pubblica, Geom. Mauro BACCEGA
Regione Autonoma Valle d’Aosta
SEDE
Via Promis, 2/A 11100 AOSTA

OGGETTO: Osservazioni sull’utilizzo della stazione di Cogne come sede della caserma dei carabinieri.

In riferimento alla proposta d’atto d’intesa, Continua a leggere

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Morti

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È la legge Bossi-Fini, vera e propria fabbrica di «clandestinità», che dev’essere abrogata, caro signor Renzi, lei che «non può» rimanere «insensibile» di fronte alle continue stragi di migranti.

Silenzio

Son morti in 700,
noi non c’entriamo niente.

Ci si prepara e dopo cena s’esce,
la Samp pareggia in casa col Cesena,
forse si va a ballare.

Domani le parole necessarie
a stendere il silenzio sulle vite
saranno pronunciate.

Son morti in 700,
e non c’entriamo niente.

[Mario Badino, 19-20 aprile 2015]

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