Mamma li turchi!
si gridava, quando giungeva, dal mare, il nemico, il nemico vero, quello brutto, quello così diverso in un mondo in cui per dire «persone» si diceva «cristiani», perché in fin dei conti tutti erano cristiani, e cristiani e persone erano sinonimi.
Mamma li turchi!
si gridava, e i villaggi venivano evacuati in fretta e furia, lasciando agio al nemico di pigliare indisturbato ciò che gli serviva e ripartire con le navi per la propria terra, ignota, di là dal mare, remota.
E
Mamma li turchi!
penso io di fronte ad aggressioni inconcepibili, commesse tanto nel nome di Dio quanto dell’intolleranza religiosa, dell’odio per il diverso, del semplice lavaggio del cervello.
Ma oggi i turchi sono alleati, anche se con la scusa dello Stato islamico lanciano bombe sui kurdi, che il Califfato combattono; i turchi sono amici e amici degli amici, gli americani, che con la mano destra lanciano bombe sulle postazioni dell’Isis, e con la sinistra li riforniscono di armi e addestramento militare.
È un mondo impazzito – dice quello – divorato dal caos; ma un caos preordinato, mirato alla guerra.
Per compiacere le industrie militari, ad esempio (e, in proposito, com’è che l’export di armi italiane nei tanto temuti Paesi islamici vale 2,5 miliardi, pari al 40% delle nostre esportazioni nel settore bellico?).
Per porre un argine al declino americano, mentre si fanno strada nuove potenze globali.
Per spremere petrolio dalla terra: quella di Stati poco inclini a svenderla, come anche quella di Stati meno difficili, in primis l’Italia, oggi minacciata dalle trivellazioni nei suoi mari (avete un’idea di quanto sia stretto l’Adriatico e di cosa significherebbe per tutto il Mediterraneo una fuoriuscita di petrolio?).
E poi per
rinnovare gli arsenali,
e mettere le mani sulla terra,
per fare nuove piste d’atterraggio.
(lo so, mi cito; non si dovrebbe, ma stavolta lo faccio).
È un mondo che ha raggiunto tali e tante capacità di distruzione da non permettere neanche l’idea di una guerra vera (facciamo missioni «umanitarie», missioni «di pace», al più missioni militari, mai guerre, se non quando siamo «sotto attacco»), quella terza guerra mondiale così auspicata per chiarire meglio gli equilibri internazionali, vendere armi, fare soldi con la ricostruzione.
E se la guerra «è necessaria», perché lo vuole la religione del profitto, per renderla possibile, e sperare di controllarne gli effetti più negativi, occorre combatterla “a pezzetti”, ora qua ora là, svuotare di istituzioni e sovranità gli Stati situati nei punti strategici, ove disporre le proprie pedine armate e mettere mano alle risorse energetiche.
Nessuna opinione pubblica occidentale, per il momento, per quanto pigra e anestetizzata dai media, consentirebbe avventure esplicitamente imperialiste. I nostri aerei decollano sempre per portare «la pace», «la democrazia», «i valori occidentali». I terroristi, invece, si fanno saltare in aria per portare la morte.
È chiaro che la retorica degli Stati non costituisce né un’assoluzione, né un’attenuante al comportamento di terroristi che colpiscono innocenti in strada, in chiesa, in moschea, al mercato, al tavolo di un bar.
Dovrebbe essere altrettanto chiaro che le «vittime collaterali» dei “nostri” bombardamenti, frutto di guerre quasi sempre combattute per motivi diversi da quelli dichiarati, sono altrettanto innocenti, persone che stanno passeggiando per la strada, che sono sedute al bar, che magari se ne stanno tranquille a casa loro, colpevoli, unicamente,
– di abitare nello stesso palazzo di un terrorista;
– di avere una casa adiacente a quella presa di mira dalle bombe «intelligenti»;
– di essere bersagliati dall’alto dei cieli, magari da droni senza pilota comandati a migliaia di chilometri di distanza (quelli con cui Matteo Renzi vorrebbe colpire chirurgicamente gli scafisti; quelli che secondo le statistiche fanno 9 vittime innocenti per ogni terrorista colpito).
La morte che piove dall’alto è la maniera in cui le «democrazie» occidentali colpiscono gli «Stati canaglia», i covi dei terroristi, i dittatori fino al minuto prima «amici». È l’unico sistema per ridurre a zero le perdite tra i propri soldati, per evitare di scuotere troppo la propria opinione pubblica, sensibile più alle bare che fanno ritorno in patria avvolte nella bandiera, che al grande numero di civili uccisi a casa loro, ma stranieri, e per di più appartenenti a culture percepite come lontane.
Scosso per gli attentati di Parigi (non mi vergogno a dire che ho anche pianto, a più riprese), non posso però fare a meno di pensare che le azioni ordinate dai capi dell’Isis hanno moltissimo in comune con le guerre ordinate dai governi occidentali: i kamikaze credono di uccidere e morire nel nome di Dio; i nostri aviatori credono di uccidere (di centrare il bersaglio) nel nome della democrazia e dei diritti; quelli che li mandano a colpire, invece, credono in entrambi i casi nel potere e nel profitto.
Non credono in Dio i vertici dello Stato islamico (se vi credessero si farebbero qualche domanda), così come non credono nella democrazia i nostri governanti, quelli che regolarmente approfittano di ogni minaccia o attentato ai nostri «valori» per attaccare proprio quei valori, restringere le libertà (tutte tranne la fondamentale: quella di consumare), ampliare il controllo.
Nessuno di noi stringerebbe la mano a un dirigente dell’Isis, neppure per un semplice saluto. Quanti di noi estenderebbero questo rifiuto al capo del governo italiano in visita sul posto di lavoro, al presidente degli Stati Uniti (e nobel per la pace) Obama, o addirittura, e anche in questi giorni di dolore, al presidente François Hollande?
«Noi siamo la patria dei diritti dell’uomo», ha detto Hollande davanti ai deputati e ai senatori francesi, cosa storicamente vera, che io non faccio fatica a riconoscere, pensando alla rivoluzione francese, alla dichiarazione dei diritti, ai principi di «liberté, égalité, fraternité», alla laicità della République.
«Noi siamo la patria dei diritti dell’uomo». Ma i diritti vanno difesi, spesso innanzitutto da chi si propone come loro difensore. Perché lo stesso Hollande che oggi sostiene i diritti ha in realtà caratterizzato la politica estera della Francia con l’interventismo militare (in Mali, nella Repubblica Centroafricana, in Siria), mentre il suo predecessore Sarkozy è stato uno dei principali fautori della guerra in Libia del 2011, che ha portato alla fine del regime (e all’uccisione) di Gheddafi e a tutti i problemi di destabilizzazione dell’area che sono seguiti.
Non sto dicendo che i terroristi hanno colpito Parigi come risposta alle azioni di guerra. I capi dell’Isis non sono né partigiani né vendicatori, sono criminali, e degli eventuali crimini di guerra commessi da uno Stato europeo non pensano né bene né male. Essi agiscono per il potere, nient’altro. Ma noi occidentali siamo bravissimi a giustificare la Realpolitik, la ragion di Stato, quando ci conviene, mentre non tolleriamo che altri possano comportarsi nella stessa maniera con le nostre nazioni.
In ogni caso, per una volta, vorrei essere concreto. Potranno i raid in Siria smantellare la struttura del sedicente Stato islamico? Se sì, almeno questo risultato sarebbe raggiunto. Io temo di no, principalmente perché non mi è chiaro fino in fondo a chi appartenga l’Isis e chi lo finanzi (mentre mi è perfettamente chiaro chi se ne serve, per legittimare le proprie operazioni militari). Quand’anche poi le bombe decapitassero l’intera organizzazione, non sarebbe per questo finito il terrorismo islamico, né il fascino scaturito dall’idea di una rivalsa sul mondo occidentale guidata e voluta da Dio in persona.
Per vivere in pace, per vedere rispettata la nostra idea di democrazia, di diritti umani, dovremmo innanzitutto praticare i diritti umani e la democrazia. All’interno dei nostri Stati, e naturalmente anche al loro esterno. Ritirare le truppe, insomma; smetterla di spargere la morte. Lo ripeto ancora una volta: i morti di Parigi e le «vittime collaterali» della Siria o degli altri Paesi bombardati dall’occidente sono uguali, tutti innocenti allo stesso modo. E se le azioni del terrorismo sono sbagliate sin dalle intenzioni, personalmente faccio fatica a credere che le finalità delle nostre guerre siano realmente democratiche e «umanitarie».
Siccome però questa visione non sarà applicata, io credo che chiunque sia interessato realmente alla pace e alla giustizia non potrà far altro che riflettere sulle interconnessioni tra politica e interessi economici: forse anche in questo caso l’unica speranza è in un cambiamento che venga dal basso, e che porti con sé nuovi modelli economici e nuovi modi di concepire il mondo, non come una terra da spremere, ma come un’opportunità di vita per tutti. Spero di precisare meglio questa mia sollecitazione in futuro.