Il giorno dopo: Prodi è inciampato

Ci siamo. Il governo Prodi è caduto, non ha ottenuto la fiducia sulla politica estera. La notizia mi raggiunge mentre sono in vacanza a Praga. Acquisto «Repubblica». In un fondo Ezio Mauro, il direttore, condanna la sinistra radicale (che pure ha votato col governo), rea di aver aperto a crisi, spianando la strada a un possibile ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi.

Già, perché per Mauro «il dramma della sinistra» risiede nel paradosso che chi ha demonizzato il Cavaliere «è pronto a riconsegnargli l’Italia». Un «qualsiasi ministro degli esteri di qualunque governo di sinistra di ogni Paese occidentale», ha detto il direttore di «Repubblica», avrebbe potuto pronunciare tra gli applausi il discorso del ministro degli esteri; «la piattaforma più avanzata della sinistra europea», secondo lo stesso vice premier, che si sfoga a pagina 9, nell’articolo di Massimo Giannini.
E allora, dagli alla sinistra radicale, che porge nuovamente a Berlusconi bottiglia e cavatappi. Ma fino a quando un governo che si vuole di centro sinistra (perché, in fin dei conti, non è obbligatorio fingersi "sinistri") potrà condurre una politica di destra, agitando lo spauracchio del demonio di Arcore?
Ma esagero; D'Alema mi richiama all'ordine: la discontinuità con il vecchio esecutivo c'è stata. Lo apprendo da «Repubblica», sempre a pagina 9. Infatti è stato garantito il ritiro dei nostri soldati dall’Iraq. Ci siamo tirati fuori da una guerra decisa dagli Usa in modo unilaterale e – sono parole di D’Alema – «sulla base della menzogna che in Iraq vi fossero le armi di distruzione di massa».

Che cosa ci trattiene in Afghanistan, allora? L’unzione dell’Onu sulla missione Nato? «L’impossibilità di un ritiro che ci allontanerebbe dalla Ue, isolandoci»? Perché non è possibile ignorare come l’Afghanistan sia parte integrante di quel disegno, tutto a stelle e strisce, che il vice premier ha condannato in aula: la strategia della guerra preventiva.
Allo stesso modo, non possiamo ignorare il ruolo esplicitamente offensivo di una base militare come quella prevista a Vicenza, all’aeroporto Dal Molin, la cui realizzazione non è possibile discutere, nonostante nessun accordo scritto costringa il nostro Paese ad assecondare i desideri di Washington. E non possiamo neppure dimenticare i 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter (F-35), che il nostro governo si è impegnato ad acquistare dagli Stati uniti, certo nel nome dell’undicesimo articolo della nostra Costituzione, o forse di quell’impegno italiano per la pace rivendicato al governo da Massimo D’Alema.
Quella che è mancata a Palazzo Madama non è soltanto la maggioranza. E qui ha ragione Ezio Mauro, quando dice che a mancare è «un’idea stessa dell’Italia, per capire cos’è e cosa dev’essere oggi, qual è il suo posto in quella parte del mondo che si chiama Europa e Occidente, se non vogliamo abitarla per caso o per sbaglio».

Manca un’idea, dunque. E manca un sogno. Manca un governo di centro sinistra capace di dire qualcosa di diverso, che non risponda a dogmi creati altrove e calati dall’alto: come i parametri europei sul rapporto tra deficit e Pil; come l’esigenza di tagliare a tutti i costi lo Stato sociale; come la necessità di essere sempre disponibili alle richieste di certi amici importanti, abitino oltreoceano o semplicemente al di là del Tevere.
Il governo Prodi è inciampato sopra un paio di voti: nulla di inimmaginabile, partendo da una maggioranza tanto risicata. Ma quanto hanno influito sul comportamento dei due (due!) senatori che hanno fatto cadere l’esecutivo quelle promesse formulate durante la campagna elettorale e poi disattese? Come l’impegno a dialogare con le comunità locali (leggi Vicenza, leggi Val di Susa)? O quello a ridefinire le servitù militari (a pagina 109, nel programma dell’Unione)?
Chi scrive non è un ingenuo. Sono pacifista e con tutti i miei scrupoli non potrei mai guidare il Paese. Cedo volentieri il mio posto ad altri. Ma anche un pragmatico dovrebbe essere in grado di capire che sganciarsi dalla politica degli Usa è oggi una necessità politica non rinviabile. La dottrina Bush si è dimostrata fallimentare (persino Tony Blair ha annunciato di voler ritirare gradualmente le proprie truppe dall’Iraq, anche se della bontà di certe intenzioni sembrerebbe lecito dubitare). Perché non concentrare le nostre energie sulla ricerca di strade alternative? Puntando, ad esempio, alla costruzione di un’Europa capace essere un soggetto politico e di parlare con una voce sola, anche quando i fatti (non l’ideologia) richiedano un coraggioso smarcamento dagli Stati uniti.
Caro Romano Prodi (che per tua e nostra sfortuna non stai leggendo queste righe – e si perdonino all’autore l’uso dell’apostrofe e la presunzione), è giunto il momento di rilanciare, di puntare in alto, verso un progetto grande e ambizioso: ridisegnare la società, l’Europa e, per quanto le nostre possibilità lo consentano, il mondo, senza dar sempre per scontate le parole d’ordine care alle lobby internazionali. I tagli, la flessibilità, la precarizzazione del lavoro, la guerra, lo smantellamento dello Stato sociale non sono in alcun modo scelte obbligate e i soldi, alla fine, si trovano: bisogna soltanto decidere come usarli.
Così oggi dispiace se il governo inciampa su due voti, rompendosi una gamba. Ma provi Prodi a misurare il malcontento e cerchi di capire se davvero è limitato a frange minoritarie della sua maggioranza, o della società. Mediti sull’impressione sempre più diffusa di un distacco incolmabile tra la politica e i cittadini. Tenti, infine, di capire a quanti senatori corrisponde la delusione di chi era a Vicenza, di chi sfilava a Roma contro le ingerenze vaticane, di chi vorrebbe più diritti per chi non vuole o non si può sposare. Legga con altri occhi l’aumento delle spese militari, il finanziamento con soldi pubblici alla scuola privata, il rincaro dei ticket ospedalieri. Sarà pure qualunquista mettere tutto nello stesso elenco, ma Romano Prodi farebbe bene a riflettervi ugualmente, per non finire come quello che aveva promesso un sogno e poi non l’ha mantenuto.

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